Don Sciortino

di Card. Tettamanzi

In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi.

 

9 gennaio 2011 - Battesimo del Signore


Matteo (3,13-17)


In quel tempo, Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere  battezzato da te, e tu vieni da me?». Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché  conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».


Dal cielo aperto di Dio


«Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare » (Mt 3,13). Confuso tra la folla, che si recava al fiume per purificarsi, il Cristo «simile in tutto a noi, fuorché nel  peccato» (Eb 4,15), si presenta a Giovanni come uomo tra gli uomini. Un gesto di umiltà  che sconcerta il Battista: «Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?» (Mt 3,14). Un gesto che sconcerta chiunque si aspetta da Dio un intervento trionfalistico che  sancisca la sua grandezza sulle miserie umane e manifesti la sua presenza nel mondo  come volontà di sola potenza, vendetta di un Dio pronto a tagliare e a gettare nel fuoco,  come predicava il profeta del deserto, ogni albero che non porta frutto.

Lontano dalle  aspettative umane di ogni tempo Gesù stravolge ogni idea di un Dio padrone, pronto a  punire, e obbediente al Padre fino alla morte rivela il volto di un Dio diverso, che non usa solo la forza per imporre il suo volere: «Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in  piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata» (Is 42,2-3).

Il Figlio prediletto non disdegna di camminare al fianco dei peccatori, e perché si «adempia ogni giustizia» (Mt  3,15) si uniforma alla volontà del Padre e si lascia battezzare.
In quel gesto di umiltà Gesù dichiara di essere l’Agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo, il servo di Yahveh  pronto a sacrificarsi, il Messia profetizzato da Isaia: «Ecco il mio servo che io sostengo, il mio  eletto di cui mi compiaccio» (Is 42,1).

Grazie a quel gesto di obbedienza, il cielo si apre  sulle nostre debolezze, sulle nostre paure, sul nostro dolore, sulle nostre attese e sulle nostre speranze. Appena battezzato la voce di Dio irrompe nel silenzio di un mondo che cerca risposte di senso, ma forse oggi, come allora, affascinati da quel cielo aperto, pochi si accorgono che Gesù, immergendosi nella stessa acqua dei peccatori, ha voluto manifestare sin dalla sua prima apparizione da adulto la sua completa solidarietà con gli uomini, con i più deboli, con chi cosciente di aver sbagliato cerca il perdono, la vicinanza di Dio. E Dio, in Gesù, è davvero vicino a chiunque lo cerca con cuore puro. «Dio non fa  preferenze di persone » (At 10,34), la salvezza è per tutti, per i giusti e i peccatori, per  quanti in Cristo troveranno la via verso il Regno.

Quel giorno sulle rive del Giordano,  appena Gesù uscì dall’acqua, Giovanni «vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui» (Mt 3,16). Ogni distanza tra il cielo e la terra, tra l’Alto e il basso, tra Dio e l’uomo era stata annullata, perché da allora a oggi, Gesù, consacrato dallo Spirito, è  presente nel mondo e attraversa la storia «beneficando e risanando tutti» (At 10,38).

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6 gennaio 2011 - Epifania del Signore


Matteo (2,1-12)


Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme. [...] Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua  madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra.


I cercatori di luce

«Provarono una gioia grandissima» (Mt 2,10). I Magi venivano da Oriente inseguendo una stella, chiamati per un evento che cambiava la storia. Inseguivano la luce, traccia di un  segmento di significato che descrive l’umano che da sempre è in cerca di luce, di verità. È l’uomo che insegue la luce, necessaria nell’oscurità del dubbio, nella fatica della ricerca  interiore, nella gabbia della sofferenza, nella domanda irrisolta dei perché che non trovano risposta. Insegue la luce il cercatore, la sua stella che spera presto si fermi a illuminargli il percorso.

Chiamati dalla luce i Magi rischiano il viaggio e smossi dal bisogno di verità lasciano la  sicurezza dei loro arredi, si compromettono con l’itinerario, soffrono il disagio per inseguire la stella, per acchiappare la luce, e quando la stella si ferma, si sprigiona in loro una gioia inaudita, mai provata prima: «Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare... si fermò  sopra il luogo dove si trovava il bambino» (Mt 2,9).

Gioia grandissima, irrefrenabile, dei cercatori di luce, ora fasciati dalla luce, prostrati, adorarono il mistero: oro, incenso e mirra racconto di gratitudine. La luce era davanti ai
loro occhi e brillava di significato, luce di oro, propria di un re che governa con giustizia e  pace. Luce di incenso, sacrificio per un Dio a cui si offre in soave odore. Luce di mirra, raro profumo di amarissima sostanza uguale al martirio che il Bambino divino avrebbe subito. Gioia irrefrenabile, quella deiMagi di allora e di tutti i cercatori di Dio, che inseguendo la stella chiedono una risposta di pace e sicurezza: «Cammineranno le genti alla tua luce» (Is 60,3).

Epifania è giorno in cui la luce si manifesta, la stella si ferma nella storia  dell’uomo, tutti gli uomini ora sono in grado di riceverne il bagliore e di vedere l’amore di un Dio incarnato. Da troppo tempo il grido: «Mostraci il tuo volto», da troppo tempo «la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli» (Is 60,2), e tuttavia «le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità» (Ef 3,6), ad accogliere la sua convocazione di speranza.

I Magi di allora e di oggi, coloro che sapranno rischiare il viaggio, usciranno dalla prigionia
delle tenebre e raggiungeranno l’evento. Ai Magi di ieri e di oggi, agli uomini di ogni tempo il profeta grida: «Alzati, rivestiti di luce» (Is 60,1). Epifania, giorno caro ai bambini, doni ricevuti, sorpresa d’incanto, epifania, manifestazione di Cristo, Figlio di Dio, a ogni uomo, dono di luce, frontiera di senso.

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1 gennaio 2011 e 2 gennaio 2011


1˚ gennaio 2011
Maria Santissima Madre di Dio


Luca (2,16-21)

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro. Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.


Un inizio nella pace


«Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). L’inizio di un nuovo anno è giusto il passaggio tra memoria e profezia, necessario snodo per fare un esame di coscienza e sciogliere voti propiziatori. Lo scambio di auguri che risuona di porta in porta, di voce in voce, consegna la speranza che il futuro sia favorevole e i giorni avvenire passino la consapevolezza di una protezione divina, sicurezza in ogni caso, per ogni tempo: «Ti benedica il Signore e ti custodisca, il Signore faccia risplendere per te il suo volto... conceda pace» (Nm 22,24-26).

Eppure, un augurio sebbene gradito finisce per essere semplice consuetudine se manca la costruzione faticosa e laboriosa di sentieri di giustizia, di misericordia, di rispetto dell’altro, di dignità conquistata anche a caro prezzo. Se manca la consapevolezza che Dio è nato per noi, che un Figlio ci è dato, il vocabolario delle parole compromesse dal peccato non può cedere il passo alle nuove, sigillate con lettere d’amore nella storia di ogni uomo: «Non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per grazia di Dio» (Gal 4,7).

L’inizio del nuovo anno è memoria e profezia che raccontano a ciascuno di noi il proprio passato, fatto di luci e ombre, di perdono indispensabile da chiedere, di gratitudine necessaria da esprimere e di apertura di entusiasmo per i doni che il Signore preparerà per l’avvenire. I pastori senza indugio si recarono alla grotta dell’incanto e adorarono il mistero che dinanzi ai loro occhi svelava la bellezza di un Dio incarnato, esperienza che costringeva nel passaggio di parole a farsi evangelizzatori dell’evento.

Maria raccolse i loro sguardi e seppe consegnarli al futuro dei suoi pensieri conservandoli nel suo cuore. Quanta pace da quell’incontro, quanta responsabilità dalla esperienza fatta. L’inizio di un nuovo anno è scrigno nel cuore di ciascuno di memoria e profezia, quanta pace per il bene ricevuto e offerto, quanta responsabilità per quello non fatto e quello ancora da affrontare.

La Chiesa vuole che ogni inizio d’anno sia consacrato alla pace e certo è tempo che ognuno diventi operatore di pace in famiglia, sul lavoro, nella vita sociale, ma nessuno costruirà la pace fuori se non saprà costruirla dentro di sé. La Chiesa vuole che ogni inizio di nuovo anno sia benedetto dallos guardo di Maria, da lei impariamo la viad i una pace possibile solo rispondendo totalmente alla chiamata del Signore. Memoria e profezia, inizio del nuovo anno, per annunciare pace, per donarla, per partorirla al mondo come la Madre il primo decisivo giorno della nuova umanità.



2 gennaio 2011
II dopo Natale


Giovanni (1,1-18)

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era, inp rincipio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla ès tato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. [...] Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. Venne frai suoi, e i suoi non lo hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio [...]. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria.


Ecco il Dio che abita la terra

«Veniva nel mondo la luce vera... venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (Gv 1,9-11). Il tempo di Natale è un rincorrere la festa, persentire nel cuore la carezza protettrice di un Dio che tanto ama ciascuno di noi da mandarei l suo unico Figlio nella nostra carne, un Dio che «in lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi» (Ef 1,4). Un rincorrere la festa con un ritmo baldanzoso, simile a quello delle celebri cantate popolari che in questi giorni in quartieri e borgate è ancora tradizione ascoltare per comunicare anche in maniera semplice che, se Dio è nato nella nostra carne, la sua sapienza è venuta ad abitare nel popolo eletto. Una gioia irrefrenabile che grida la benedizione di Dio.

Natale racconta questo fatto assurdo e inaudito di un Dio che abita la terra e questo suo incarnarsi nella storia, la muta, la trasforma, la redime, la rende nuova, non più solo storia umana ma umano-divina e per questo la santifica. Il ritmo del Natale è allora un’incalzante proposta di apertura al divino, di accoglienza gioiosa del dono del Figlio, di disponibilità entusiastica a rispondereal suo invito, ad aprirgli la porta.

Accoglierlo, spianargli la strada, è mettersi in gioco rispetto alla sua proposta e se in gioco sono la giustizia, la pace, un uomo nuovo vestito di un abito di festa, cucito con la forza del perdono, della misericordia, della compassione, allora Natale è conversione del cuore, è coinvolgimento totale. Ognuno di noi è consapevole che un Dio Padre che ama altro non chiede che la nostra disponibilità all’incontro con il Figlio e se anche da offrirgli abbiamo solo paglia sporca e una povera culla è il nostro cuore, Gesù verrà e rinnoverà la faccia della nostra terra: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).

Questo ingresso, questo ritmo baldanzoso di nuova sostanza che investe l’umano, la nostra singolare storia, la rende santa e noi, malgrado noi, santi per la santità di Cristo. Aprirgli la porta, questo basta, e la luce, la sua luce, fascerà di senso il grigio dei nostri giorni che finalmente rideranno di splendore. Basterà accoglierlo liberamente, nella verità del vero che riusciremo a rilasciare e il gesto spontaneo di renderlo nostro nella nostra vita sorprenderà coloro che gli hanno fatto barriera: «A quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio» (Gv1,12).

Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio, ripete Ireneo. Il tempo di Natale procede a ritmo baldanzoso di un canto popolare, canto di gioia per una santità ricevuta in dono, inaudito annuncio per chi cerca frontiere di senso.

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25 dicembre 2010 e 26 dicembre 2010


25 dicembre
Natale del Signore


Luca (2,1-14)

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di
tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nazaret salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme: egli
apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria
sua sposa, che era incinta. Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.



Il bambino nato per noi


«Un bambino è nato per noi» (Is9,5). È Natale, la profezia di Isaia si è avverata, il Verbo si è fatto carne, è entrato nella nostra storia nei panni di un bambino indifeso. La nascita del Salvatore rompe da subito ogni schema di grandezza umana: «Troverete un bambino… che giace in una mangiatoia» (Lc 2,12). Dio sceglie contro ogni aspettativa di nascere povero tra i poveri, per innalzare gli umili e rimandare i ricchi a mani vuote. E non è un caso che il primo annuncio della salvezza viene fatto ai piccoli della terra, ai pastori che, lontani dal rumore del mondo, non sono contaminati dalla sapienza terrena. Come un sole che sorge dall’Alto «per rischiarare quelli che stanno nelle tenebre» (Lc 1,79), Gesù nasce per aprire le porte alla speranza «e dirigere i nostri passi sulla via della
pace» (Lc 1,79).

Una pace diversa da quella che dà il mondo, una pace che proviene dall’Alto: «È apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a  rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo» (Tt 2,11-12).

Una pace che va costruita giorno dopo giorno lasciandosi alle spalle le opere delle  tenebre: la logica del profitto a ogni costo, l’individualismo e l’indifferenza, la volgarità e la
violenza, per essere pronti a soccorrere gli ultimi della terra, chiunque nel bisogno svela
il volto di Cristo.

Chi non si chiude nel suo egoismo, come gli abitanti di Betlemme, ma è pronto ad  accogliere il Bambino nella culla del suo cuore, comprende la grandezza del dono di Dio e costruisce la pace sulla terra. Commuoversi a Natale è facile, ma la festa durerà un solo giorno se non siamo pronti a rispondere con fede al Signore Gesù. Nella scelta dei valori posti a fondamento della nostra esistenza, nella carità che copre la moltitudine dei nostri peccati vi è l’unica risposta che il Bambino appena nato attende da noi.

La sua nascita illumina di gioia tutto il creato e ognuno di noi può sentirsi illuminato dalla grazia se come i pastori saprà scoprire nel sorriso del Bambino avvolto in fasce il sorriso di Dio. Nella notte santa, in ogni famiglia il più piccino adagia il Bambinello di creta nel presepe di casa. Se anche noi ci accostassimo alla grotta con la meraviglia di un bambino, con la semplicità del cuore, come i poveri di Jahweh, liberi dalle infinite sovrastrutture dell’epoca dell’avere che ha soffocato l’essere, sentiremo il canto di gloria degli angeli in cielo e la pace di Cristo abiterà in noi. Quanti a Natale decidono con fede di cambiare vita, vedranno realizzata la profezia di Isaia: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1).


26 dicembre
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe


Matteo (2,13-15.19-23)

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo». Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode,  perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio». Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella  terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino».


Sacralità di un’istituzione


«Fuggi in Egitto... Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13). In questa domenica, dedicata alla Santa Famiglia, Matteo ripercorre i difficili inizi dell’infanzia di Gesù: la fuga in Egitto, il ritorno nel paese d’Israele, la scelta di Giuseppe di abitare a Nazaret per proteggere il bambino dal re della Giudea, Archelao, successore di Erode. Certamente l’intenzione dell’evangelista è quella di affermare che Gesù è il Messia, che subisce la stessa sorte del popolo che viene a salvare. Il rimando al profeta Osea (11,1), «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Mt 2,15), allude senza dubbio all’uscita di Israele dall’Egitto, così che nel ritorno di Gesù in Palestina per Matteo si adempie la Scrittura: Gesù è quindi il liberatore, il fondatore del nuovo popolo, il nuovo Mosè in cui si realizzano
le promesse di Dio.

Tuttavia, nel Vangelo si sottolinea soprattutto l’unità della famiglia di Nazaret, sempre in ascolto della voce di Dio, l’angelo del Signore, che guida i suoi passi verso la salvezza. Giuseppe e Maria, custodi del piccolo Gesù, ci mostrano come il riscoprire insieme i valori  della fede garantisca, anche nelle prove, la solidità di una famiglia costruita sulla roccia e non sulla sabbia.

Mai come oggi, in un’epoca in cui altri valori, altri modelli stanno distruggendo l’unità della famiglia è necessario riscoprire nell’esempio della Santa Famiglia la sacralità di una istituzione che trova in Cristo l’unico Maestro, il legame profondo di ogni famiglia che si professa cristiana. L’unità è la strada per difendere i bambini dalla strage degli innocenti.
È strano come in un tempo in cui si difendono con forza i diritti del fanciullo, i bambini spesso restano ai margini di una vita familiare convulsa, disordinata, dove non c’è tempo per loro. O peggio, in famiglie dilaniate da separazioni laceranti, diventano vittime  innocenti delle decisioni degli adulti.

E in questo vuoto, distratti dalla corsa al profitto, dal consumismo sfrenato, dalla smania di divertirsi, molti genitori, delegando ad altre agenzie l’educazione dei figli, non si accorgono che i potenti di ogni tempo tessono la loro tela. I bambini e gli adolescenti, ormai oggetto privilegiato del mercato, vengono plasmati a loro insaputa a essere piccoli ma grandi consumatori a oltranza. Spogliati dei loro sogni più sani, vengono indotti a desiderare tutto e subito per poi diventare giovani insoddisfatti, facile preda di paradisi artificiali.

Il calore di una famiglia unita, attenta agli autentici bisogni dei figli, in cui ognuno  contribuisce alla crescita dell’altro, sul modello della famiglia di Nazaret è l’unico modo per
evitare che Erode continui la sua strage.

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19 dicembre 2010 - IV Domenica di Avvento


Matteo (1,18-24)


Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tuasposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta:«Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”.


Il Dio con noi

«Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa “Dio con noi”» (Mt 1,23). Con queste parole, l’angelo, che appare in sogno al promesso sposo di Maria, rimuove ogni lecito dubbio dal cuore di Giuseppe. Per il popolo d’Israele è giunta la pienezza dei tempi, sta per avverarsi la profezia di Isaia: il bambino, che sta per nascere, generato dallo Spirito Santo, salverà il suo popolo dai suoi peccati.

La storia del mondo sta a una svolta decisiva: sta per essere superata definitivamente la separazione tra Dio e l’uomo. Gesù, il Verbo incarnato nella discendenza di Davide, sarà il Dio con noi. Ogni distanza tra terra e cielo sarà annullata per quanti saranno pronti ad accogliere dentro di loro questo Dio bambino che vuol nascere in noi per indicarci la via che conduce alla casa del Padre.

Dalla notte di Natale, quando il suo primo vagito squarcerà le tenebre, sarà lanciato un ponte tra il tempo e l’eternità, tra l’infinito, l’assolutamente Altro, e la finitudine dell’uomo. A tutti i popoli della terra sarà offerta la salvezza: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28).

Ecco cosa significa preparare la via al Signore che viene: essere uniti in Cristo, come la vite ai tralci, rimanere nel suo amore, senza più distinzioni di razza o di ceto sociale, per far crescere quel Bambino che, come ogni bambino, non può crescere senza amore. Quel Dio, che ha chiamato Maria e Giuseppe a collaborare all’incarnazione del Figlio dell’uomo nel cuore dell’umanità, ora chiama ciascuno di noi a dire il suo sì per collaborare al piano salvifico.

Certo, alla fine dei tempi, per l’immensa misericordia di Dio, la salvezza arriverà, ma ogni resistenza che impedisce al Bambino di essere il Dio con noi ritarda la primavera dell’umanità. Chi dorme sul dolore del mondo, chi non dà la sua piena adesione a Cristo che nasce per abitare in noi, chi è sordo alla parola di Dio rimane prigioniero del dubbio e perde la gioia della rinascita.

Il Natale sarà per lui una festa come tante, in famiglia o altrove, ricca di pietanze o di doni sotto l’albero, ma senza quella luce che illumina la notte. Quanti, invece, come Giuseppe, destatisi dal sonno, fanno ciò che il Signore chiede, sentiranno il Bambino nascere e crescere in loro e il Natale avrà, allora, un sapore diverso. In cammino verso la grotta della salvezza sentiranno l’angelo del Signore sussurrare alloro cuore. «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10-11).

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12 dicembre 2010 - III Domenica di Avvento


Matteo (11,2-11)


In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò cheu dite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano, Gesù si misea  parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere neld eserto? Una canna  sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestitoc on abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta».


Sei tu il Messia?

«Sei tu colui che deve venire o dobbiamoa spettare un altro?» (Mt11,3). La domanda che dal carcere Giovanni mandò a Gesù sembra frenare, in questa terza domenica d’Avvento, la corsa verso la gioia del Natale. Com’è possibile che perfino il Battista, che sulle rive del Giordano aveva indicato il Maestro come l’Agnello di Dio, si chieda se sia Gesù il Messia o se deve aspettarne un altro? Giovanni non era una canna sbattuta dal vento, non si piegava facilmente alle minacce, né si illudeva di fronte a false promesse.

Non era manovrato dai potenti del tempo perché non vestiva abiti di lusso, lui era un profeta, anzi, il profeta, il precursore, il messaggero, la voce del deserto che preparava la via al Messia, eppure nel buio della prigione il dubbio si insinuò nel suo cuore.

Un dubbio che in questo tempo d’attesa ci induce a riflettere, che porta anche noi a chiederci: è questo il Natale che ci porterà la gioia o, finita l’euforia della festa, dovremo aspettare qualcuno o qualcosa che ci renda felici? Se ancora siamo prigionieri dell’uomo vecchio,che si aspetta da Dio la soluzione magica ai propri problemi, allora, se anche vedessimo i ciechi riacquistare la vista e i sordi udire, nessun Natale ci porterà gioia.

Certo, di fronte al dolore, ai tanti problemi che attanagliano la vita è umano dubitare, ma se riusciamo a liberarci da tutto ciò che ingabbia la nostra anima, se riusciamo a sentire la salvezza al di là della croce, allora capiremo che il Natale è gioia perché inaugura l’inizio di un nuovo regno. Un regno che non è di questa terra, un regnoi n cui il più piccolo tra gli uomini sarà più grande di Giovanni, il più grande tra i nati di donna (cf. Mt11,11).

Un regno in cui è capovolto ogni criterio umano, in cui sientra attraverso una porta stretta, un regno che sconvolge le vie degli empi e presuppone sin d’ora una rinascita dall’alto nell’amore, nella misericordia, nella carità. Solo se ci lasciamo rigenerare dall’intervento di Dio nella nostra storia, fedeli alla sua Parola, saremo beati come colui che non trova in Cristo, nella sua umiltà, nella sua mitezza, nella sua sofferenza, nell’umiliazione della croce, motivo di scandalo.

Gesù nasce per abitare in noi, pronto a pagare a caro prezzo il nostro riscatto e se siamo pronti a rinascere con lui, allora i nostri occhi si apriranno, fuggiranno tristezza e pianto e sarà un Natale di gioia.

Se in questo tempo d’Avvento spalanchiamol e porte a Cristo, costanti nel preparargli la via, ci accorgeremo che il suo giogo è soave e leggero, e se anche durante il camminoci perdessimo in sentieri tortuosi, saranno rinfrancati i nostri cuori, perché sappiamo che la venuta del Signore è vicina.

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5 dicembre 2010 - II Domenica di Avvento


Matteo (3,1-12)


Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo:«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.


Il regno è vicino

«Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri» (Mt 3,3). La voce di Giovanni Battista che grida nel deserto della Giudea, chiamando tutti alla conversione, oggi più che mai risuona nel deserto del nostro tempo. Terra arida e senz’acqua appare questo nostro mondo preda di un individualismo esasperato, di conflitti e interessi di parte che impediscono al seme della pace, quella sociale e quella dell’anima, di germogliare.

La corsa affannosa per ricoprire i primi posti, la smania di avere tutto e subito a danno degli altri, la bramosia di futili piaceri, il vuoto etico e culturale di una generazione manipolata e indotta a giudicare secondo le apparenze, per sentito dire, stanno impedendo all’umanità di imboccare il sentiero della felicità.

Sepolcri imbiancati, come i farisei e i sadducei dell’epoca, sono molti i falsi profeti dalle vesti eleganti, dal viso imbellettato, che sbandierano il miraggio di una felicità raggiungibile solo con la logica del possesso, abbandonando a sé stessi gli ultimi della terra. «Razza di vipere!... Fate dunque frutti degni di conversione» (Mt 3,7-8), direbbe loro il Battista, «Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare faccia altrettanto» (Lc 3,11).

Vestito di peli di cammello e cibandosi di cavallette, Giovanni invitava a purificarsi da una fede professata con le labbra, ma non con il cuore. Inneggiava alla logica dell’essenziale, perché tutto ciò che è superfluo appesantisce l’anima e rallenta il cammino verso la felicità, quella vera.

La felicità di un mondo pacificato dove «il lupo dimorerà insieme con l’agnello» (Is11,6) e ogni uomo, ritrovata la sua dignità creaturale, sarà pronto a ricevere lo Spirito Santo, «spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore» (Is 11,2). Usciamo, allora, dal deserto di questo nostro tempo e invertiamo la rotta per arrivare altrove. Lontani dal rumore del mondo, facciamo deserto nel nostro cuore per riscoprire nell’essenza della vita, nella condivisione e nella solidarietà il segreto della felicità.

«Convertitevi», gridava il Battista, «perché il regno dei cieli è vicino!» (Mt 3,2), vicino non solo nel tempo, ma nello spazio. È vicino perché è dentro di noi e da adesso, tra il già e il non ancora, nell’attesa del Signore che viene, possiamo avvertire la gioia del regno se raddriziamo i sentieri e ci lasciamo guidare alla scoperta della meta dalla luce del Vangelo, dalla logica dell’amore e della giustizia. Solo allora «un germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici» (Is 11,1). Solo allora sarà un felice Natale.

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28 novembre 2010 - Prima domenica d'Avvento


Matteo (24,37-44)


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».


Nel giorno del Signore

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore verrà» (Mt 24,42). L’esortazione del Maestro di Galilea a vigilare in attesa del suo ritorno è certamente un invito alla conversione  per scuotere le nostre coscienze. Ma più che un monito minaccioso a non lasciarsi travolgere, come ai tempi del diluvio universale ,da un’improvvisa catastrofe che punisce gli empi e salva i giusti, è piuttosto un invito alla fiducia, all’abbandono in Dio che mai delude le attese dei suoi figli. Se il Figlio dell’uomo non è venuto nella nostra storia per giudicare il mondo, ma perché attraverso di lui si salvi, allora l’attesa del suo ritorno non può essere vissuta nell’angoscia di un giudizio senza appello.

Il Signore conosce le nostre debolezze, i nostri limiti e se ci chiama a un impegno etico per trasformare la terra in regno di bene è per farci pregustare sin d’ora la gioia dell’incontro con lui, della sua costante presenza nella nostra vita. Chi, come Noè, non si lascia ingannare dalle seduzioni del mondo, mangiando e bevendo, incurante di quanti nel bisogno non hanno né pane, né acqua, non teme nessuna catastrofe.

Sa bene che nessun cataclisma, ambientale o economico che sia, può mettere in pericolo la sua salvezza. Noè, vigilante e attento al piano di Dio, lavora intensamente all’arca della salvezza, perché è fortemente convinto che l’unica gioia è nell’incontro con il Signore.
Chi crede in Cristo parla il linguaggio dell’amore non per paura di un improvviso e inaspettato castigo dall’alto, ma perché è l’unico linguaggio che gli consente di parlare con Dio.

Per questo Paolo ci invita a svegliarci dal sonno,d al torpore di una coscienza addormentata dalla sete del potere e dalla corruzione del danaro. Chi si perde tra orge e ubriachezze, tra lussurie e impurità, tra litigie gelosie rischia di essere derubato in piena notte della gioia di sentirsi amato da Dio, sicuro, al riparo delle sue ali, come un bimbo in braccio a sua madre.

Chi, invece, indossa le armi della luce non si lascia scassinare la casa dell’amore, la costruisce con pazienza, fiducia e, come Noè costruì l’arca per salvare sé stesso e tutte le specie, lavora con lena nella vigna del Signore. Segno di contraddizione nel tempo della superficialità, della volgarità gratuita, di una economia senza scrupoli, non aspira a facili guadagni, ma s’impegna a ristabilire l’ordine etico delle cose dettato dalla parola di Dio. Sempre pronto ad accogliere il Figlio dell’uomo, cammina per la sua strada e per non lasciarsi sorprendere, stupidamente, ricco di inutili beni, ma con la morte nel cuore, lungo la via ripete a sé stesso: «Quale gioia, quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore!”» (Sal 122).

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21 novembre 2010-Gesù Cristo re dell’universo


Luca (23,35-43)


In quel tempo [dopo che ebbero crocifisso Gesù] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi sé stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto». Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei». Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato perle nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».


Sul trono della croce


«Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). La croce, vessillo di salvezza, fa da cerniera tra il tempo di prima e il futuro di gloria.  Albero piantato nel cuore del mondo dice al passato, fatto di peccato, che la morte è stata vinta e consegna al futuro della gloria il Figlio inviato dal Padre e in lui, redenti, i figli ritrovati. Il Cristo, re e Signore, celebra la vittoria definitiva e grida ai viandanti del tempo: «Non abbiate paura» (Mt 14,27), «io ho vinto il mondo» (Gv 16,33). Ha vinto il Maestro di Galilea: «Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza... rappacificando con il sangue della sua croce... le cose che stanno sulla terra e quelle dei cieli» (Col 1,19-20).

    La croce di Cristo è il suo trono e mentre chiudiamo l’anno liturgico guardiamo alla sua croce, alla sua corona di dolore e di sangue, al suo cuore squarciato, alle sue piaghe. Mentre commossi partecipiamo alla sofferenza del Giusto, ci sembra di cantare la nostra dignità ritrovata, la nostra nuova condizione che grazie a quella croce ci è data in dono: «Regna la pace, dove regna il Signore».

    Il Signore è il re dell’universo, è il nostro re, pastore del suo gregge, diverso dai mercenari di ogni tempo che non sanno cosa voglia dire dare la vita per gli amici. È diverso il nostro re dai funambolici venditori di false speranze, venditori di fumo che fuggono dinanzi al pericolo, che svendono al primo acquirente la dignità del gregge, guide cieche senza verità.

    Tutto è stato ricapitolato in Cristo e l’alfa e l’omega segnano il principio e la fine di ogni avvenimento. Per Cristo, con Cristo, in Cristo ogni invocazione, ogni preghiera, ogni liturgia trova consistenza. Da Cristo a Cristo l’anno della Chiesa trova inizio e compimento. Il nostro re accoglie oggi i suoi fedeli e il suo trono di misericordia, il suo braccio santo benedicono le nostre attese.

    Guarda al re di giustizia e di pace, di santità e di grazia, il mondo degli esclusi, dei sofferenti, dei senza diritti; cercano lo sguardo del re la fatica degli abbandonati, la paura dei traditi, il dolore degli innocenti, le lacrime dei rifugiati, le catene degli esiliati e insieme, un solo coro, una sola voce, come fossero una sola persona, e noi con loro gli sussurrano: «Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». La risposta è gioia donata: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43).

    Chiude l’anno liturgico l’inno regale a Gesù maestro, Figlio di Dio e fratello nostro. L’invocazione del Maranà tha (vieni Signore Gesù) oggi finalmente trova risposta. Felice l’incontro con il suo trono, straordinaria esperienza far parte del suo gregge: «Quale gioia, quando mi dissero: andremo alla casa del Signore» (Sal 121).

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14 novembre 2010 - XXXIII del Tempo ordinario


Luca (21,5-19)


In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse:«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta. [...] Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. [...] Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».


Vigilanti e in attesa


«Nemmeno un capello del vostro capo perirà» (Lc21,18). Si avvicina la conclusione dell’anno liturgico e il lezionario ci induce a riflettere sulla provvisorietà del tempo e la necessità di essere vigilanti per acchiappare l’attimo che separerà il tempo dal non tempo: «Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta» (Lc 21,6). Vigilanza che costringe il credente a essere sempre all’erta con la valigia pronta, colma di giustizia, di pietà, di misericordia, di Vangelo creduto e vissuto.

    Testimonianza di attesa positiva del futuro incontro fondata sulla certezza che il Signore, giusto giudice, non dimentica la sua promessa: «Per voi cultori del mio nome sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (Mal3,20). Gli amici dello sposo sanno di essere invitati alla festa e tuttavia non conoscono né l’ora, né il luogo dell’incontro. Felici di aver ricevuto l’invito, già di per sé esperienza di gioia, nell’attesa chiedono che si appresti l’ora del banchetto, godono della visione di ciò che dopo vedranno davvero e cantano: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20).

    Vigilanza e attesa: due parole significative, che descrivono il discepolo del Maestro di Galilea, parole che superano il loro stesso contenuto e legano la vita credente sia all’adesione intellettuale dell’uomo a Dio, sia all’esperienza concreta che chiama a raccolta coloro che nel dire “credo” sono pronti, ogni momento della loro vita, a testimoniarlo.La cintura ai fianchi e la lucerna accesa, nell’attesa del festoso convivio, sono propri di chi non sta con le mani in mano, di chi si chiede se sia pronto per l’incontro con lo Sposo, se abbia preparato o meno un regalo, se abbia approntato o meno l’abito di circostanza.

    Vigilanza e attesa del Regno impongono una vita capace di giustizia, di perdono, di apertura alla gratuità, impegno nella costruzione nel tempo della città di Dio e per questo vale la regola: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» (2Tes 3,10).

    Indubbiamente, l’atteggiamento del giusto rischia l’incomprensione, l’isolamento, perfino la persecuzione. Egli attende il futuro rivoluzionando il concetto di un tempo chiuso in sé stesso, che pretende tutto, qui e ora, provocando l’amarezza di non farcela, una lotta fraticida per rubare il tempo all’altro e trovare soltanto per sé ricchezze e onori. Ma il Maestro di Galilea conforta ilgiusto e dona ai suoi discepoli, e a quanti lo sanno aspettare aprendo il cuore alla speranza, un’immagine formidabile, carica di consolazione e di significato: «Neppure un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime» (Lc 21,18-19).

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7 novembre 2010-Trentaduesima Tempo ordinario


Luca (20,27-38)


In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”». [...] Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».


Certi della risurrezione

«Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi» (Lc 20,28). Difficile entrare nella parola decisiva del Maestro di Galilea, complicato, per chi cerca l’evidenza della prova, credere che con la morte la vita non è tolta ma trasformata. Tuttavia, è sulla linea di questa verità che si gioca la buona notizia: la morte è stata ingoiata per sempre e per questo, credere in Gesù Cristo, è superare la sola fede in Dio come assoluto e dalla fede in Dio arrivare alla fede del Dio della vita, «il re del mondo che ci risusciterà a vita nuova ed eterna» (2Macc 7,9).

    Credere è affrontare il superamento del limite decisivo, andare verso l’oltre, sicuri che la vita sia una grande avventura di gioie e di dolori, di prove e di cadute, ma consistenza di esperienza e di incontri che fanno dell’uomo creatura di futuro, sogno di riscatto, vita che risorge. Il discepolo che vuole seguire il Maestro afferra la sua parola, la cala nell’ordinario delle sue vicende e colora nella speranza, che da essa promana, il significato di ogni avvenimento. Sa che deve fidarsi, sa che avere fede è avere fiducia: la promessa sarà mantenuta:«Chi crede in me non morirà in eterno» (Gv 11,26).

    La paradossale vicenda che i sadducei raccontano al Maestro sui sette fratelli, sposi successivi di un’unica donna vedova di tutti e sette, attende risposta. Il Maestro accetta la sfida di chi neppure riesce a immaginare il cielo ritrovato, il futuro possibile di un corpo spirituale non opposto al tempo ma in continuità nel cielo: «Giudicati degni dell’altromondo, sono uguali agli angeli e, essendo figli della risurrezione, sono figli di Dio» (Lc 20,35-36).

    Felice colpa, canta l’Exultet nella notte di Pasqua, rimando al peccato originario che ha introdotto la morte nella storia e tuttavia premessa per rendere possibile l’avvento del Cristo nella nostra vicenda per riportarci a casa svestiti della morte, accarezzati dalla vita immortale. Se credere in Cristo è, allora, credere nella risurrezione della carne, ogni predicazione, ogni liturgia, ogni preghiera, ogni azione di carità e compassione dovrebbe rifletterela stessa gioia della risurrezione.

    L’atteggiamento del credente è apertura alla vita, ottimismo ideale, solarità nelle relazioni, fiducia nel presente, coraggio nel futuro. Troppo rumore di morte serpeggia, invece, nei luoghi della finta fede, troppa tirannia della disfatta schiaccia le chiese dei sepolcri. Se Cristo è risorto, e noi lo saremo con lui, cerchiamo le cose di lassù, sicuri che «il nostro Signore Gesù Cristo e Dio Padre nostro... ci ha dato... una consolazione eterna e una buona speranza» (2Tes 2,16).

    Pertanto, “Io credo, risorgerò” segna il confine tra chi dice di credere e chi è certo delsuo futuro approdo.

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31 ottobre 2010-Trentunesima Tempo ordinario


Luca (19,1-10)


In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse:«Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». Ma Zacchèo, alzatosi, disseal Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». Gesù gli rispose:«Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».



Una parola di tenerezza


«Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19,9). Zaccheo, il piccolo uomo, aveva scelto il sicomoro come base di appoggio al suo diritto di veduta. Aveva nel cuore il desiderio d’incrociare lo sguardo del Maestro e di sentirsi, malgrado la sua vita, amato, perdonato. Pubblicano, estorsore per mestiere, costretto dal potere, e per scelta personale, a chiedere gabelle inique, aveva tanto oro per godersi la vita, ma nessuno con cui condividerlo.
   
    Era basso, Zaccheo, e impedito nel vedere oltre, aveva bisogno di una base d’appoggio per innalzarsi sopra la banalità del quotidiano e andare oltre il giudizio oppressivo della colpa senza riscatto, il disprezzo della folla, a volte foriera di vendetta. Corse avanti Zaccheo, era la sua occasione, non poteva perdere lo sguardo di colui che aveva raccontato di un Dio Padre, lento all’ira e carico di misericordia: «Tu castighi poco alla volta i colpevoli e li ammonisci, ricordando loro i propri peccati, perché, rinnegata la malvagità, credano in te, Signore» (Sap 12,2).

    E lo sguardo del Maestro, in cerca dei perduti, cercò il goffo Zaccheo e nel rumore della folla intercettò il battito del suo cuore. Silenzio rumoroso di chi è pronto per una sola parola di tenerezza a cambiare definitivamente la sua vita e a rendere nuova la sua storia:«Zaccheo, scendi subito» (Lc 19,5).

    La corsa di Zaccheo era ora gioia inaudita, nessuno avrebbe potuto contenerla, né l’ironia dei tanti che ridevano divertiti, né il rumore dei giudizi e dei pregiudizi che non gradiscono un Dio del perdono e non accettano di cancellare la parola della vendetta. Una gioia capace di rendere giustizia a Zaccheo, pronto a cambiarela sua vita e consentire finalmente alle sue vittime, offese dal peccato di prima, di trovare conforto: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» (Lc 19,8). Logica del Vangelo, annuncio ai poveri di nuovo mondo, di nuova storia che, mentre augura la liberazione degli oppressi, offre agli oppressori una via d’uscita dalla loro mortale solitudine nel farsi causa della giustizia a favore di quelli a cui l’avevano defraudata.

    Così, sollevandosi sopra il rumore della folla, guardando oltre il banale corso del così fan tutti, Zaccheo, icona del pentimento, ritrovala sua dignità e grazie al perdono ricevuto, grazie alla sua riscoperta generosità, i perduti trovano il loro riscatto. Zaccheo è un nome, un’esperienza, una storia che va oltre il particolare e chiama a raccolta tutti coloro, me compreso, bassi di statura a causa delpeccato, che grazie allo sguardo del Maestro riscoprono la meraviglia di guardare dall’alto, gioiosamente, il loro nuovo destino.

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24 ottobre 2010-Trentesima del Tempo ordinario


Luca(18,9-14)

In quel tempo, Gesù disseancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno duevolte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me  peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».


Il fariseo e il pubblicano

«O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18,13). «La preghiera dell’umile penetra le nubi» (Sir 35,17) ed è del povero la libertà di abbandonarsi completamente nelle braccia del più tenero dei padri, perché il Signore «è vicino a chi ha il cuore ferito, egli salva gli spiriti affranti» (Sal 33). Il pubblicano si veste della sua fragilità e con essa si presenta dinanzi al Signore degli eserciti al tempio dell’alleanza. Porta con sé il suo bagaglio di fallimenti e la consapevolezza che solo in Dio c’è riscatto. La sua debolezza per questo diventa forza, disarmato da quanto non ha, la sua unica armatura è la certezza di un Dio compassionevole.

    Diversamente il fariseo resta in piedi dinanzi all’altare, forte del convincimento che essendo giusto, perlomeno così ritiene, sia in diritto di essere ascoltato. Lui non è «comegli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri» (Lc 18,11) e neppure come il pubblicano che non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, tale la sua vergogna. Sarà stato pure giusto il fariseo, sarà andato spesso al tempio, avrà partecipato alle liturgie, avrà digiunato due volte alla settimana e di sicuro avrà pagato le decime, ma tutto questo non gli ha evitato di disprezzare gli altri e di ritenere chi è diverso da lui ostacolo alla sua dignità.

   Eppure, il Maestro di Galilea ha fasciato di misericordia proprio gli esclusi e gli abbandonati della Terra, consacrando ciò che è ignobile e reietto agli occhi degli uomini come luogo prediletto per incontrare Dio. Il povero invoca il Padre perché sa che solo in lui troveràascolto, perché il Signore «non trascura la supplica dell’orfano, né della vedova, quando si sfoga nel lamento» (Sir 35,14). Strano che il fariseo, seppure devoto a Dio, non lo conosca e sebbene puntuale nei precetti e nella pratica sia tra quelli che dal Maestro si sentiranno dire: «Non vi conosco» (Mt 25,12). Strano, ma non tanto, se di frequente il dirsi credente purtroppo non corrisponde all’esserlo e pertanto si è riconosciuti dal Signore per ciò che la fede dicealla vita, per ciò che costruisce nelle relazioniumane e nella giustizia.

    «Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14) è paradigma di sequela e non può essere diversamente, perché più conosci quanto l’amore di Dio possa svelare il tuo cuore e più ti senti inadeguato per la tua debolezza, per la tua drammatica inconsistenza.

    La consapevolezza del proprio limite, però, apre il desiderio della ricerca di ciò che resta, di ciò che è necessario, e se Dio è la risposta «quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Se nel Signore riposa l’anima mia, abbandonarsi a lui è saper riconoscere ilnostro vero destino, il nostro solo vanto.

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17 ottobre 2010 - XXIX del Tempo ordinario


Luca (18,1-8)


In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».


L’aiuto viene da Dio

«Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? » (Lc 18,8). Mai domanda restò più carica di emozione, provocazione calata all’improvviso nelle nostre vicende. Per fede l’uomo può liberare il suo canto, la sua invocazione, attesa di un Dio che cambia la faccia della terra: «Spero nel Signore, spero nella sua Parola» (Sal 129,5). Per fede il futuro è sognato come giustizia finalmente ottenuta, le piaghe del dolore umano, di ogni dolore, purificate per amore misericordioso di Dio: «E Dio non farà giustizia dei suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà a lungo aspettare?» (Lc 18,7).

    Per fede è annunziata la Parola che salva, «che è viva, efficace, e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 3,4-12) ed è data «perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona» (2Tim 3,16).

    Era la fede che permetteva a Mosè di essere più forte nella battaglia contro Amalek. Le sue mani protese al cielo a invocare l’Altissimo rimandano all’uomo credente che sa che l’unica sua forza viene da Dio. Ogni battaglia è vinta se Dio scende al fianco del perseguitato. Il nostro aiuto viene dal Signore e le risposte alle nostre domande sono nel cuore di Dio che le svela per amore di ciascuno. Giusto giudice non abbandonerà la sua gente alla rovina e proteggerà dal male ogni vivente: «Veglierà su di te, quando esci e quando entri da ora e per sempre» (Sal 120).

    Dio comunque c’è, c’è sempre ad asciugare lacrime, a sorreggere gli stanchi, ad aiutare a rialzarsi chi è caduto. Il nostro Dio non si addormenta sul nostro dolore, non prende sonno il custode d’Israele. Se così è, se abbiamo la certezza che in ogni caso Dio è al nostro fianco, allora la domanda del Maestro sul futuro della fede non giudica Dio, che resterà sempre fedele accanto agli uomini, ma giudica la storia di ogni uomo che saprà essere capace di sogno e di futuro, solo se sarà all’altezza della fede ricevuta in dono.
Il Signore verrà, arriverà sempre, e in un modo o in un altro offrirà il suo sguardo di compassione alla storia. Non perdere il contatto con la sua Parola, riuscire a restare aggrappati in ogni occasione opportuna e non opportuna alla verità annunciata orienterà l’attesa e renderà più confortevole il tempo che ci separa dall’incontro.

    «Abbiate fede», sembra ripetere il Maestro di Galilea, io non vi deluderò, se aspettate che la giustizia avanzi, che l’aiuto vi sia dato, abbiate fede, io sto per arrivare, ma per potervi incontrare dovete sapermi aspettare. «Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore» (Sal 120).

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10 ottobre 2010 - XXVIII del Tempo ordinario


Luca (17.11-19)

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appenali vide, Gesù disse loro:«Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessunoche tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».


Soltanto uno ringrazia

«Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato» (Lc17,19). Dieci lebbrosi a gran voce chiedono al Maestro di Galilea di ritrovare la via della guarigione. Il loro grido: «Gesù Maestro, abbi pietà di noi» (Lc17,13) ci appartiene, descrive l’umanità sofferente in cerca diconsolazione. La lebbra è vergogna che veste come abito di dolore le membra fiacche di espulsi senza colpa dal consesso umano, dignità perduta, pagata a caro prezzo. Nessuno ascolta la voce di chi fa ribrezzo. Anche loro, i lebbrosi, si sentono ripugnanti e pur gridandola voglia di riscatto, pur sperando in un possibile reinserimento si fermano a distanza, quasi a sottolineare che il loro stato li costringe fuori dall’umano, in una disumana condizione.

È un grido che ci riguarda, quello dei lebbrosi, e legge la vita di tanti costretti fuori dalla storia. La compassione del Maestro guarisce le piaghe, sana le ferite perché «se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo» (2Tim 2,11-12). Essere guariti va oltre la purificazione della carne, la lebbra di dentro, capace di nascondere la speranza, di uccidere i sogni, di addormentare la gioia è ancora più perniciosa, piùarrogante. «Abbi pietà di noi», allora, diventa l’invocazione di chi volendo uscire allo scoperto, in possesso della chiave d’accesso per entrare a pieno diritto nella storia del mondo, si veste di Cristo, della sua forza e tolto l’abito della sconfitta mostra orgoglioso il Vangelo ricevuto.

Tutti siamo lebbrosi e proprio tutti, nessuno escluso, abbiamo il diritto di sentirci parte nel chiederedi essere guariti, nessuno è straniero nella casa di Dio perché «La salvezza del Signore è per tutti i popoli» (Sal97). Il vero estraneo è colui che per la sua insensibilità, e non certo per punizione divina, pur riconoscendo i doni ricevuti, nella consapevolezza che nulla è dato all’uomo se non per metterlo al servizio degli altri, per orgoglio non è capace di ringraziare. La lebbra è di sicuro un manto doloroso del corpo, una ferita lacerata dell’anima, ma ancora più potente è la lebbra dell’ingratitudine che non cirende capaci, benché la fatica del vivere, dicogliere la vita stessa come una grande avventura e riconoscere ogni giorno del passato come dono preziosissimo.

Uno solo dei dieci lebbrosi tornò dal Maestro per ringraziarlo. Era un samaritano, il Vangelo non dice cosa ne fu degli altri nove, non c’è memoria di loro, ma del samaritano sì, che trovò impresso sulla sua carne non più la vergogna di prima, ma la carezza della consolazione definitiva: «Alzati e va’; la tua fedeti ha salvato».

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