Don Sciortino

di Card. Tettamanzi

In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi.

 

24 aprile 2011 - Domenica di Pasqua


Giovanni (20,1-9)

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era
ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro [...]. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.


È risorto! E noi con lui

«Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro... e vide che la pietra era stata ribaltata» (Gv 20,1). Il giorno dopo il sabato indica un tempo inteso come durata, ma anche la nuova Pasqua che all’antica aggiunge la recente. Potrebbe alludere al necessario evolversi dell’evento che, iniziato con la liberazione dall’Egitto, ora dichiara la liberazione definitiva, la libertà dalla morte. Giunta al sepolcro, dinanzi a quella tomba violata, Maria di Màgdala non si rassegnava che il corpo del Maestro fosse stato trafugato.

Non poteva sapere che quella pietra spostata era segno di qualcosa che mai s’era visto nella storia degli uomini. Quella pietra spostata annunciava al mondo che quell’assurda promessa, impossibile a credere, era ora un fatto compiuto. Il Cielo aveva restituito al genere umano quel Figlio sconfitto dalla croce e alla terra la dignità dell’Alto. Vinta la morte, la vita si era ripresa quel corpo tumulato da una pietra.

Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?» (1Cor 15,55). L’ultima nemica dell’umanità era stata vinta, il Maestro aveva aperto il sentiero della salvezza. Il suo Vangelo adesso non era solo una parola nuova sul dolore del mondo, ma un percorso che dalla morte conduce
all’eternità della vita.

Da quel giorno dopo il sabato le nostre attese non saranno mai deluse, perché il mondo ha dentro di sé le premesse dell’eternità. È inutile cercare tra i morti colui che vive (cf. Lc 24,5), celebrare memorie di pianto, vestire di lutto la storia, di tombe il nostro cammino. Come Pietro e Giovanni corsero verso il sepolcro della speranza, anche noi da quel giorno dopo il sabato possiamo correre verso la vita con la forza della fede di chi sa che per accettare l’assurdo bisogna percorrere umili vie, attraversare porte strette e valicare confini.

Entrati nel sepolcro Pietro e Giovanni videro «le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte» (Gv 20,6-7). Il Signore era davvero risorto.

Era vero: colui che avevano ucciso, aveva ucciso la morte. Era questo il Vangelo decisivo per gli uomini che, accecati dalle tenebre, ora potevano contare su una vita che dura oltre la vita. Era vivo, era risorto e ora era la nuova forza dei deboli, il coraggio di chi aveva paura.

Da quel giorno dopo il sabato la Pasqua è l’alba di un nuovo giorno consacrato alla vita rinata, la festa dell’umanità nuova riconciliata con il Padre. Ora tocca a noi, coeredi di Cristo, figli della nuova creazione, correre verso la speranza, annunciare il Vangelo della vita e il coraggio del nuovo giorno. Perché il Signore è davvero risorto! E noi con lui.

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17 aprile 2011 - Domenica delle Palme


Matteo (26,14-27,66)

A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere. Gli altri dicevano: «Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!». Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito.


Se tu sei il Figlio di Dio

«Elì, Elì, lemà sabactàni?» (Mt 27,45) è il grido scandaloso di Gesù, l’unico verso del Vangelo conservato intatto che nessuno ha avuto il coraggio di tradurre. «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46) è la protesta del Figlio dell’uomo e dell’umanità tutta che di fronte alla morte rimane sconfitta. A nulla servono tutti i beni della terra, se poi inevitabilmente la vita viene meno.

A nulla era servito al Maestro l’ingresso trionfante a Gerusalemme, se poi venne trattato come il più infimo dei malfattori: «Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi» (Is 50,6). Crocifisso, fu issato in alto, affinché fosse visibile a imperitura memoria la sua colpa: si era fatto re dei Giudei. Issato su, con il suo dolore, gridò inascoltato la propria innocenza, senza rifiutarsi di bere fino in fondo il calice amaro del tradimento. Fu issato su, in alto, come il serpente di bronzo nel deserto degli uomini, perché si potesse guardare a colui che sarebbe stato trafitto per far germogliare la nuova umanità.

Eppure, ai piedi della croce, più della compassione vinse la vendetta. Lo schernirono senza pietà: «Se tu sei Figlio di Dio, scendi dalla croce!» (Mt 27,40), come a dire: «Crederemo in te se ci dimostrerai che la morte non ti appartiene». Ma Gesù non cede alla provocazione: «Pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma... umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,6-8).

No, Gesù non scende dalla croce: nudo come alla nascita, quando la terra lo accolse ricco della sua povertà, affidato il suo spirito nelle mani del Padre, ora era pronto a morire per nascere di nuovo. Gesù sapeva che la morte è il fallimento dell’uomo, ma anche di Dio se la morte è per sempre. Sapeva che quella croce era l’unica via per tracciare il percorso di una nuova fede che conduce alla verità. Se un Dio vive mentre i suoi figli muoiono è un Dio potente, ma tiranno; un Dio che invece protesta nella carne del Figlio contro la morte è un Dio compagno, è un Padre di cui ci si può fidare per sperare nel proprio riscatto.

Inchiodato alla croce, mentre il cielo si oscurava su tutta la terra, il Cristo illuminava di nuova luce il passato, il presente e il futuro dell’umanità: sanava il peccato passato che aveva compromesso il sodalizio con il cielo, ripristinava nel presente quel dialogo interrotto, donava a tutti gli uomini la speranza di una vita futura, grazie al suo amore. «Per questo Dio l’ha esaltato... perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra» (Fil 2,9-10).

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10 aprile 2011 - V domenica di Quaresima


Giovanni (11.1-45)


In quel tempo, Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo». [...] Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare».


È lo Spirito che fa vivere

«Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (Gv 11,21). La protesta di Marta all’amico Gesù, assente nel momento del dolore, è la stessa protesta che sgorga dal cuore di chi nell’estrema sofferenza si sente completamente abbandonato da Dio.

Spesso di fronte alla morte di una persona cara, stravolti dalla tragedia, oppressi dalla fatica del vivere si dimentica che il nostro Dio è il Dio della vita e non della morte. È il Padre misericordioso che sempre ascolta la nostra voce: «Dal profondo a te grido... L’anima mia attende il Signore» (Sal 130,1.6). È il Dio che in Gesù Cristo è venuto tra noi per offrirci l’acqua viva che disseta per sempre, per aprirci gli occhi e per farci vedere la vita oltre la morte.

L’uomo trascende il dato biologico, sempre: sia quando è ancora un embrione senza volto, sia quando è inerme, inchiodato a una macchina in un letto d’ospedale, sia quando giace in un sepolcro è molto di più di un aggregato di cellule. «Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito» (Gv 3,6) e nemmeno la morte può distruggere ciò che è nato dall’Alto. Eppure, dinanzi a un sepolcro chiuso dimentichiamo il grido di Gesù sulla tomba di Lazzaro: «Vieni fuori!» (Gv 11,43).

Mai come quella volta la natura umana e quella divina del Maestro si fusero in maniera tale da mostrarci la fragilità del Figlio dell’uomo e la potenza del Figlio di Dio. Come ogni essere umano dinanzi alla tomba di una persona cara, Gesù si commosse, si turbò e pianse e ancora oggi si commuove, si turba e piange ogni volta che l’uomo rimane chiuso nel sepolcro di una vita senza senso. No, Dio non è sordo al dolore, Cristo non gode della sofferenza! È risorto per sconfiggere la morte penetrata nel cuore della storia, perché l’uomo, ancora presuntuoso, immaturo, fragile come un adolescente, ignaro dell’amore del Padre, gli ha voltato le spalle. Il Figlio di Dio gridò sulla tomba dell’amico per rovesciare il suo destino e quello dell’intera umanità e allora come oggi, compagno dell’uomo, continua a sgridare la morte e ogni morte.

Se nei nostri corpi mortali lasceremo abitare lo Spirito che ha risuscitato Cristo (cf. Rm 8,11) sentiremo il grido di Gesù: Vieni fuori! Esci dal baratro del nulla, dall’angoscia, dalla paura di non farcela. Vieni fuori dal timore delle malattie, dalla tomba della depressione e della solitudine, perché non sei solo. Vieni fuori dell’egoismo che uccide più della morte, vieni fuori dal branco e ritrova la preziosa unicità del tuo essere, la tua dignità di uomo. Libera il tuo volto dal sudario della morte e comprenderai la profezia di Ezechiele: «Quando aprirò le vostre tombe... Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete» (Ez 37,13-14).

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3 aprile 2011 - IV domenica di Quaresima


Giovanni (9,1-41)


In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose
Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di
Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.



La luce viene da Cristo

«Io credo, Signore!» (Gv 9,38). Una professione di fede, quella del cieco nato guarito da Gesù, che ben descrive il processo della conversione che passa sempre attraverso quel travaglio interiore che, prima in maniera confusa, poi in modo sempre più chiaro, costringe il cuore a raccontare il passaggio: «Non lo so» (Gv 9,12); «È un profeta» (Gv 9,17); «Ero cieco, ora ci vedo» (Gv 9,25).

Un percorso laborioso che portò il cieco a riconoscere in quel nuovo profeta il Salvatore. Un percorso, narrato da Giovanni con dovizia di particolari, in cui si coglie il passaggio dal buio alla luce: «Finché sono nel mondo», dice Gesù, «sono la luce del mondo» (Gv 9,5), come per dire: «Solo io posso liberarvi dalle tenebre». E contrariamente a quanti pensavano che la cecità del povero mendicante fosse dovuta a una punizione di Dio, aprendo gli occhi al cieco dimostra che la misericordia del Padre è più grande dei nostri peccati, tanto da sacrificare il suo Figlio unigenito per liberare l’umanità dalle tenebre della morte: «Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore» (Ef 5,8).

Una luce che ci viene donata dalla nuova creazione operata da Cristo, che provata pietà per il cieco decise di liberarlo dal buio. E a voler sottolineare la nascita dell’uomo nuovo, quasi a voler ripetere in un gesto quello del Creatore che, soffiando il suo spirito in un pugno di fango, diede vita al primo uomo, «sputò per terra, fece del fango con la saliva » (Gv 9,6) e glielo spalmò sugli occhi.

Gesù offre al cieco e a ciascuno di noi la possibilità di vedere la luce, quella vera. Ma il cammino di conversione è affidato alla libertà dell’uomo che può scegliere tra le tenebre e la luce. Aprire gli occhi non basta, la luce in un primo momento acceca, disorienta: a volte è una spinta inconsapevole che porta alla ricerca di quel qualcosa in più che dia senso alla vita. Spesso si rimane affascinati da Gesù come da un qualsiasi grande uomo o dalle sue capacità “taumaturgiche” che per “magia” possono cambiare la nostra vita. Non è facile passare da una fede legata all’aspetto fenomenale della profezia alla convinzione interiore di chi dice: «Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla» (Sal 22,1).

Gli uomini sono accecati dal dolore o peggio dalla ricchezza, dal potere, dall’individualismo che impediscono di vedere il vero senso dell’esistenza. Per ritornare a riveder le stelle, la luce vera, con gli occhi della mente, è necessario abbattere i muri dell’indifferenza, essere luce del mondo, sanare ogni ferita, perché: «L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (Sam 16,7). Per questo sta scritto: «Svégliati, o tu che dormi, déstati dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14).

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27 marzo 2011 - III domenica di Quaresima


Giovanni (4,5-42)


In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque,
affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna
samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». [...] Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». [...] Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva».



L’acqua che disseta

«Dammi da bere» (Gv 4,7) è l’insolita richiesta che il Maestro di Galilea, seduto accanto al  pozzo di Giacobbe, rivolge a una donna della Samaria. Una richiesta che alla donna,  andata per attingere l’acqua nell’ora più calda del giorno, appare subito come un’insolente provocazione, perché un uomo della Giudea non poteva rivolgere la parola a una donna  samaritana. Eppure, Gesù, che sa leggere nel cuore di ciascuno, non si esime dal farlo,  nemmeno il caldo afoso e la stanchezza del viaggio, gli impediscono di offrire la salvezza a
quella donna che certamente doveva essere disperata per recarsi al pozzo amezzogiorno,
con una grossa giara sul capo.

La gente del deserto sa che l’acqua va attinta nel pomeriggio o nelle prime ore del  mattino, altrimenti è calda, imbevibile. Mezzogiorno è l’ora del riposo. Se dunque la donna aveva preferito recarsi al pozzo nell’ora in cui il sole è alto, disposta a bere acqua calda,  pur di non farsi vedere, doveva avere il cuore in subbuglio: la donna aveva avuto cinque mariti e quello che adesso viveva con lei non era suo marito. Quel pesante fardello che la costringeva alla solitudine, la vergogna di una vita dissoluta, adesso le pesavano di più di
quella grossa giara sul capo. Ma proprio questa consapevolezza induce il Maestro a un moto di compassione e in cambio di un sorso d’acqua è pronto a offrirle acqua viva.

«Dammi da bere» sembra essere l’unica richiesta in cambio della salvezza. Chi infatti è pronto a dare da bere agli assetati di compagnia, di accoglienza, di cure, di solidarietà, di giustizia, di amore, a chiunque sia nel bisogno, indipendentemente dalla razza, dalla cultura, dalla religione, nel deserto dell’anima sente la voce di Dio che gli offre un’acqua che disseta per sempre.

Chi non si trincera dietro inutili dispute, chi non cerca alibi alla propria coscienza, chi non cerca di imprigionare Dio nel tempio dei propri bisogni, chi  riconosce nel volto dello straniero, dei poveri, dei sofferenti, il volto di Gesù che chiede da bere, anche se ha peccato, troverà un’acqua che libera dal giudizio della gente e disseta la sua sete di pace, di felicità. L’acqua che offre il Maestro, proviene da un’altra fonte, da un pozzo che si trivella dentro l’uomo e rimuovendo ogni ostacolo è capace di riversare fiumi di speranza, acqua viva «che zampilla per la vita eterna» (Mt 4,14).

Gesù sceglie una donna, straniera e peccatrice, per gridare al mondo la verità che  sconvolge le vie degli uomini. Non c’è monte, né tempio che possa imprigionare Dio, chi  adora il Padre in spirito e verità ha Dio dentro di sé e abbandonata la giara del passato  corre verso la felicità annunciando al mondo la salvezza.

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20 marzo 2011 - II domenica di Quaresima


Matteo (17,1-9)


In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed apparvero loro Mosè ed Elìa, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo!». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».


Anticipo di risurrezione

«E fu trasfigurato davanti a loro» (Mt 17,2). Una visione, quella del Cristo con il volto luminoso come il sole e le vesti candide come la luce, che tutti, come Pietro, Giacomo e Giovanni, vorremmo poter vedere. Anche noi, come i tre discepoli, saremmo pronti a costruire tre tende, per rimanere al riparo da ogni dolore, da ogni tribolazione, da ogni avversità che angustia la nostra vita. Ma anche per i discepoli la visone durò un solo istante, la gloria del Figlio di Dio era al momento solo transitoria, come sono transitori i giorni felici della nostra vita, luci nel grigio trascorrere del tempo, malinconia nei giorni bui che prima o poi arrivano per tutti.

Anche Gesù, infatti, doveva scendere dal Monte Tabor, il monte della gloria, dove il Padre,
ancora una volta, come sulle rive del Giordano, annuncia al mondo: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto » (Mt 17,5).

Eppure, come Mosè ed Elia scesero dal Sinai per affrontare la vita e compiere la volontà del Dio degli eserciti, così anche il Figlio prediletto doveva scendere in basso, per calarsi nelle sofferenze dell’umanità, per compiere la sua missione. Doveva scendere per poi risalire, cadendo più volte sotto il peso dei nostri peccati, su un altro monte, quello del Calvario, per scendere di nuovo fino al dolore estremo, fino alla morte, la morte in croce e mostrare, questa volta, il suo volto sfigurato. Il volto del servo sofferente che nessuno avrebbe mai voluto vedere, perché un Dio che muore ci appare incapace di annientare le nostre personali tragedie.

Il suo volto sfigurato è troppo simile al nostro quando siamo costretti a guardare in faccia
il nostro dolore, quello dei nostri cari, quello del mondo, quando presi da grande timore anche noi cadiamo sotto il peso delle nostre croci. Incapaci di rialzarci, dimentichiamo i giorni felici, il dono della vita, la trasfigurazione che ci aspetta, quella farà brillare di luce il nostro volto sfigurato, perché Cristo ha sconfitto la morte.

Quel lontano giorno, sul Monte Tabor, il Padre misericordioso ha voluto farci vedere prima quello che accadrà dopo, per aiutarci a vincere ogni paura, per farci affrontare la vita, nei giorni felici e in quelli tristi, con la beata speranza nel cuore: la certezza del futuro, della vita eterna.

Mostrandoci il volto del Figlio trasfigurato, come un padre premuroso che elargisce buoni consigli, una sola cosa ci ha detto: «Ascoltatelo» (Mt 17,5), perché quanti ascoltano la parola del Figlio prediletto sapranno sempre rialzarsi dalla sofferenza. Anche nel dolore sentiranno la carezza di Gesù e la sua voce che ripete: «Alzatevi e non temete» (Mt 17,8). A nessuno sarà negata la gloria della risurrezione.

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13 marzo 2011 - Prima domenica di Quaresima


Matteo (4,1-11)


In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”» [...]. Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.


A chi ha Dio nulla gli manca


«Non tentare il Signore Dio tuo» (Mt 4,7). La prima domenica di Quaresima ci conduce nel  deserto, luogo dell’anima, dove ognuno, lontano dal rumore del mondo, rientra in sé  stesso per ascoltare nel segreto la sua coscienza. Soli nel silenzio del deserto, digiunando dal superfluo, ognuno di noi sa se ha fame di Dio o desidera altro. Chi davvero ha Dio nel cuore sa che nulla gli manca e, consapevole delle sue umane debolezze, riconosce ogni sua colpa. Ha una sola preghiera sulle labbra: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova
in me uno spirito saldo» (Sal 51,12).

Chi invece è pieno di sé, chi non ha nulla nel cuore, ha fame di altro e lascia spazio a ogni sorta di tentazione. Soggiace alla seduzione del serpente e farebbe di tutto per mangiare
il frutto proibito, per decidere da sé cosa è bene e cosa è male e piegare Dio ai suoi bisogni: «Trasforma lemie pietre in pane, salvami da ogni precipizio, dammi tutti i regni della terra». Senza accorgersi di adorare altri dei, permette al diavolo, il divisore, di separarlo da Dio. E quando le cose non gli vanno bene, quando non ottiene ciò che desidera, si chiede inutilmente perché dall’alto non arrivi il miracolo a soddisfare le sue richieste.

Anche Gesù fu portato nel deserto, anche lui, dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame e fu tentato dal diavolo, ma il Figlio dell’uomo, simile a noi fuorché nel peccato, non cade nella sua trappola, non si lascia sedurre. Egli sa che Dio è pronto a donare la manna dal cielo per sostenere i suoi figli nel deserto, ma sa anche che
«non di solo pane vivrà l’uomo» (Mt 4,4). Sa che il nutrimento dello spirito è più importante, sa che il culto del danaro non può renderlo felice, perché solo l’accettazione della volontà del Padre può saziare la sua anima: «Adorerai il Signore Dio tuo» (Mt 4,10). Alle provocazioni del diavolo, che cristallizzano le tre tentazioni più comuni dell’uomo, Gesù
risponde sempre: «Sta scritto...» (Mt 4,6.7.10), come a dire che solo nella fedeltà alla Parola si trova la felicità. Una Parola inappellabile, che si accetta con il cuore o non si accetta, ma non si discute.

Pregare per chiedere una grazia è certamente lecito e il miracolo può arrivare, ma non arriva certo per soddisfare i falsi bisogni di una umanità affamata di potere. Il miracolo non arriva se nella smania di conquistare tutti i regni della terra, divisi da Dio, non ci accorgiamo che, caduti nella trappola del tentatore, stiamo pregando con le sue parole. Chi ha fame di Dio non si lascia ingannare, non tenta il Signore, si nutre della sua Parola e una sola cosa gli chiede: «Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito» (Sal 51,13).


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6 marzo 2011 - IX del Tempo ordinario


Matteo (7,21-27)


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. [...] Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto, che ha costruito la sua casa sulla sabbia».


La roccia o la sabbia?

«Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli » (Mt 7,21). Fin qui le parole del Maestro non lasciano dubbi d’interpretazione: chi onora Dio con le labbra, ma non con il cuore, è lontano dal regno. A poco serve l’osservanza sterile dei precetti, se la nostra fede non determina un radicale cambiamento del nostro stile di vita, del modo di pensare, se non ci porta a un impegno concreto per aiutare i poveri e liberare gli oppressi.
Più avanti, però, il discorso del Maestro si complica: Gesù sembra chiederci qualcosa di più, che vada oltre le opere buone. A chi gli dirà: «Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?» (Mt 7,22), egli risponderà: «Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi operatori di iniquità» (Mt 7,23).

Una risposta che a una prima lettura indubbiamente disorienta: se nemmeno tutto questo serve a entrare nel regno, qual è la fede che il Signore ci chiede? Per comprendere la risposta del Maestro è necessario aprirsi alla totalità del suo messaggio. Il Vangelo è un tutt’uno, è Parola viva che s’incarna nella nostra storia, non è un elenco di precetti a cui bisogna obbedire, né un libro dal quale si può estrapolare ora una frase, ora un’altra. Se infatti ripensiamo alle parole di Gesù riportate da Giovanni: «Chi rimane in me e io in lui, fa
molto frutto» (Gv 15,5), l’enigma si scioglie.

L’insegnamento del Maestro apre all’etica dell’intenzione: ciò che conta nel nostro agire è la sincerità del fine, ciò che vi sottende. Il paradiso non si compra, non è necessario pagare il biglietto, nessuno, come gli operatori di iniquità, può permettersi di presentare a Dio il conto per entrare nel regno. Mille preghiere, mille opere buone non servono, se nascono dall’intenzione di assicurarsi la salute, la ricchezza, una vita protetta dalla benedizione di Dio. «L’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della Legge» (Rm 3,28).

L’uomo nuovo generato dalla fede è allora colui che, unito al Signore come la vite ai tralci, accoglie Dio nella culla del suo cuore e crescendo alla luce della Parola, non è più lui a vivere, ma è Cristo che vive in lui (cf. Gal 2,20). Come l’albero buono produce buoni frutti, così le sue opere saranno necessariamente opere buone, senza secondi fini, perché è già entrato nello spirito del regno, nella volontà di Dio.

Costruita la sua casa sulla roccia, e non sulla sabbia, l’uomo nuovo non teme più le avversità della vita, perché sa che chi confida nel Signore non resterà deluso. Un’unica preghiera sgorgherà dalle sue labbra: «Sul tuo servo fa’ splendere il tuo volto, salvami per
la tua misericordia» (Sal 31,17).

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27 febbraio 2011 - VIII del Tempo ordinario


Matteo (6,24-34)


In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché o  odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e  non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete
forse più di loro?».



Non preoccupatevi!

«A ciascun giorno basta la sua pena » (Mt 6,34). Basterebbe questa asserzione del  Maestro per misurare, in piena coscienza, la nostra fede. Siamo davvero capaci di affidarci a Dio, vivendo ogni giorno nella sua pienezza senza affanni e senza preoccuparci del domani?

Certo, in tempi di catastrofi ambientali, di instabilità economica, di incertezza politica, di  disoccupazione e licenziamenti, quando tutto appare precario è davvero difficile affidarsi
alla provvidenza e aspettare che le cose si risolvano da sé. Eppure, in questa pagina di Matteo, ben quattro volte Gesù ripete: «Non preoccupatevi per la vostra vita, non  preoccupatevi di quello che mangerete, non preoccupatevi di come vestirete, non  preoccupatevi del domani» (cf. Mt 6,25.28.31.34).

La richiesta del Maestro ad abbandonare ogni sorta di preoccupazione sembrerebbe eccessiva, quasi un invito all’incoscienza, a vivere alla giornata, in maniera irresponsabile
senza preoccuparsi di costruire il futuro. Chiunque potrebbe obiettare che se davvero ci limitassimo a guardare gli uccelli del cielo, che non seminano e non mietono, o i gigli dei campi, che non faticano e non filano, aspettando che arrivi la manna dal cielo, il mondo andrebbe a rotoli.

Il pane quotidiano va guadagnato col sudore della fronte, come scrive l’apostolo Paolo: «chi non vuol lavorare, neppure mangi » (2Tes 3,10). La contraddizione, come sempre è solo apparente: spesso quando si pensa a questo brano del Vangelo si dimentica che il discorso di Gesù sulla fiducia nella provvidenza inizia soltanto dopo una nota  affermazione: «Nessuno può servire due padroni... Non potete servire Dio e la ricchezza. Perciò io vi dico non preoccupatevi» (Mt 6,24-25).

In quel “perciò”, che lega le prime affermazioni al discorso successivo, è racchiusa  l’intenzione del Maestro che, se da un lato chiede l’abbandono totale in Dio, dall’altro  certamente non vuole indurci al disimpegno, a rimanere inermi a guardare il cielo. La  preoccupazione che Gesù condanna è la preoccupazione per il denaro, per il possesso, per tutto quanto ci allontana da Dio e ci distrae dalla ricerca del suo regno.

Se a nulla serve affannarsi per accumulare tesori sulla terra, in quanto nessuno può
aggiungere un solo secondo alla propria vita, è meglio lottare soltanto per conquistare il regno di Dio e la sua giustizia, perché dove c’è giustizia non c’è fame, né disoccupazione,
né precarietà. Ogni preoccupazione svanisce da sé e il resto ci viene dato in aggiunta (cf. Mt 6,33). Chi ha fede, chi è certo della vita eterna, deve preoccuparsi soltanto di non  uscire dal regno, perché se anche una donna si dimenticasse del suo bambino, Dio non dimentica i suoi figli (cf. Is 49,15).

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20 febbraio 2011 - VII del Tempo ordinario


Matteo (5,38-48)


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Dà a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle. Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli».


L’amore per i nemici

«Amate i vostri nemici» (Mt 5,43). Una provocazione forte, quella del Maestro di Galilea, che sembra chiederci uno sforzo sovrumano che va oltre la capacità, già difficile di per sé, di perdonare chi ci ha fatto del male. Chi di noi, seppure fosse in grado di volgere l’altra guancia a chi ci percuote o di donare il proprio mantello a chi vuol toglierci la tunica, riesce
ad amare i suoi nemici?

Una cosa è perdonare, non serbare rancore per chi ci ha fatto un torto, altro è amare o persino pregare per quelli che ci perseguitano. Ma come sempre Gesù stravolge ogni logica umana e contrariamente alla legge del taglione, “occhio per occhio, dente per dente”, ci chiede di entrare nella logica dell’amore universale perché Dio «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).

Una logica che, soprattutto nel nostro tempo, è considerata perdente: i sapienti della terra ci insegnano ad agire con astuzia per conquistare i primi posti e, autorizzandoci a odiare i nostri nemici, ci inducono a calpestare chiunque ci impedisca di raggiungere i nostri
obiettivi. In questo meccanismo perverso chi segue la via del Signore sembra essere sconfitto in partenza da un mondo che cammina in direzione opposta.

Spesso, soprattutto i giovani, si sentono lacerati da una contraddizione profonda, tra il desiderio di seguire Gesù a costo di subire l’umiliazione, in nome della giustizia, e la necessità di districarsi in una società che offre spazio solo ai più furbi.

La tentazione di infrangere la legge del Maestro è forte e spesso si dimentica che bisogna
farsi stolti per diventare sapienti «perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio» (1Cor 3,19 ). Gesù, infatti, sapeva che per conquistare la pace era necessario superare la legge dell’amore verso il prossimo formulata nell’antica alleanza: come all’epoca il concetto di prossimo, limitato ai membri del popolo d’Israele, fomentava l’odio per chiunque non appartenesse al popolo eletto, così oggi, se non impariamo ad amare, ad accogliere, a sostenere, a rispettare chi è diverso da noi, saremo sempre vittime dell’odio.

Lo stesso odio che divide le famiglie, che serpeggia nelle nostre strade, che sfocia nei conflitti sociali, nelle guerre, nel terrorismo distruggendo ogni speranza di futuro.

La pace interiore e quella sociale si costruisce soltanto su un amore capace di oltrepassare ogni barriera, un amore possibile perché in ogni uomo, tempio di Dio, abita lo Spirito di Dio (cf. 1Cor 3,16). Amare i nemici, essere santi, perfetti, è dunque non soltanto
possibile ma necessario per cominciare a costruire sulla terra la città celeste e per sentirsi
davvero figli del Padre nostro che è nei cieli (cf. Mt 5,45).

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13 febbraio 2011 - VI del Tempo ordinario


Matteo (5,17-37)


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la  Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. [...] Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al  giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. [...] Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello. [...] Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto [...] Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno».


La Parola e le parole

«Sia il vostro parlare: sì, sì, no, no» (Mt 5,37). In quest’epoca in cui il rumore assordante,  invadente, di parole vuote e menzognere che ci stordiscono, quasi a coprire il silenzio  dell’anima per non farci ascoltare la parola di Dio, il monito del Maestro sembrametterci in guardia dalla tentazione di cadere nel gioco dei potenti, degli scribi e dei farisei di ogni  tempo. Un gioco perverso che ci attira nella spirale di un dialogo fallace, ipocrita, dove si corre il rischio di rispondere occhio per occhio, dente per dente, senza più saper  distinguere tra la Parola e le parole, tra l’insegnamento del Maestro e ciò che viene dal Maligno.

Il discepolo del Signore, invece, sempre attento alla seduzione del male, deve seguire la sapienza di Dio e non quella «dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla» (1Cor 2,6).

La storia ci insegna che tutte le ideologie basate su interessi di parte, che hanno diviso i popoli, sono crollate l’una dopo l’altra. Chi ha scelto di seguire Gesù, chi onora Dio con il cuore e non con le labbra, non si lascia ingannare dalle parole del mondo, sa che la sua giustizia deve superare quella dei potenti della terra che giurano il falso.

Il discepolo del Signore sa che il Maestro non è venuto ad abolire la legge ma a darle pieno compimento (cf. Mt 5,17) per rimettere in libertà gli oppressi. Contro ogni forma di demagogia, ogni cristiano, quindi, è chiamato a perfezionare la legge degli uomini in favore
degli ultimi.

Non ha bisogno di tante parole per giustificare il suo comportamento, egli non giura  affatto, dice sì al bene e no al male e continuando per la sua strada, senza compromessi
e senza alibi, agisce nel silenzio per costruire una società più giusta, dove l’abbondanza degli uni supplisca all’indigenza degli altri: «Beato chi è integro nella sua via e cammina  nella Legge del Signore» (Sal 118,1). Le celebri antitesi di Matteo, «Avete inteso che fu  detto…, ma io vi dico» (5,17-37), ci dicono che di fronte alla legge l’uomo, ancora oggi, spesso si barcamena tra due atteggiamenti opposti, entrambi sbagliati: o si perde in una osservanza ossessiva di regole e precetti, senza coglierne lo spirito, o in piccole e grandi omissioni che denotano il disprezzo per la legge.

L’intenzione del Maestro è quella di riportarci al senso etico della legge, senza perdersi in stupidi o faziosi cavilli che nella volontà di distinguere tra cibi puri e impuri, tra ciò che è  lecito e ciò che non lo è, ci allontanano dalla comprensione dell’unica legge universale, la regola d’oro valida per tutti i popoli, garante della giustizia e della pace: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12).

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6 febbraio 2011 - V del Tempo ordinario


Matteo (5,13-16)


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro
che è nei cieli».



Luce nel buio del mondo

«Risplenda la vostra luce davanti agli uomini» (Mt 5,16). Nella Chiesa delle origini, i primi cristiani, fedeli alla parola del Maestro, si distinguevano dalla società del tempo per i valori che professavano. «Assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere... tenevano ogni cosa in comune... lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo» (At 2,42-47). La fede in Gesù Cristo,
nonostante le persecuzioni dell’Impero, non era vissuta solo come sentimento profondo, intimo, che lega l’uomo a Dio, ma come impegno nel quotidiano, come un lievito nella massa, capace di trasformare la realtà.

Nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i senza tetto, saziando gli afflitti di cuore (cf. Is 58,7-10), con le sole armi della fede i cristiani combattevano per la giustizia contro ogni forma di oppressione che schiacciava i più deboli. Con la potenza dello Spirito, lontani dalla sapienza umana, costruivano la città di Dio sulla roccia e non sulla sabbia, perché sapevano che «non può restare nascosta una città che sta sopra un monte » (Mt 5,14). In possesso del Vangelo, senza lasciarsi sedurre dalle aspirazioni più basse del potere, i cristiani erano davvero il sale del mondo, che dà sapore alla vita. Gesù aveva infatti detto ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra» (Mt 5,13).

Una metafora, quella del Maestro di Galilea, che non consentiva dubbi d’interpretazione: in un’epoca in cui il sale, simbolo della sapienza, veniva usato per evitare la corruzione degli alimenti, essere “sale della terra” significava preservare il mondo dalla corruzione.
La giustizia doveva ritmare il passo di ogni battezzato: «Davanti a te camminerà la tua giustizia» (Is 58,8), perché i discepoli del Maestro erano chiamati a essere in maniera permanente «luce del mondo» (Mt 5,14): non «si accende una lampada per metterla sotto il moggio » (Mt 5,15).

Oggi spetta a noi mantenere accesa la fiamma della fede in Cristo, luce del mondo, affinché non si spenga per mancanza di ossigeno. Se invece basta un soffio di vento per far spegnere la fiamma, se affascinati dalle seduzioni del mondo consentiamo ai poteri della terra di innalzare i ricchi e lasciare a mani vuote i poveri, allora non siamo ancora alla sequela di Gesù. Se non siamo in grado di combattere contro le strutture dell’ingiustizia, preservando il mondo dalla corruzione, allora siamo come un sale che ha perso il sapore.

Non lasciamoci ingannare dalle mode del nostro tempo e fedeli al Vangelo, come i primi cristiani, facciamo brillare la sua luce tra le tenebre di questo mondo oppresso dal potere di una economia senza scrupoli.

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30 gennaio 2011 - IV del Tempo ordinario


Matteo (5,1-12)

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno  consolati. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno   misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la  vostra ricompensa nei cieli».


I beati secondo Dio

«Beati i poveri» (Mt 5,3). Mai pagina è stata più potente di quella che passa come discorso della montagna. Anche coloro che cristiani non sono, da sempre si lasciano provocare dalla struggente verità di un mondo, di una umanità che, costretta a fare i conti con la sua  fragilità, può e deve aspirare alla felicità, è un suo diritto, deve pretenderlo. Gesù di  Nazaret, uomo e Dio, sale la montagna della verità umana e dall’alto del suo  insegnamento, dal punto di osservazione più felice, che permette a Dio di vedere l’uomo, e all’uomo di cercare Dio, sente il grido di aiuto che per amore accoglie ed è pronto a  esaudire perché «quello che è debole per il mondo Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1Cor 1,27).

Quello stesso punto di osservazione consente alla vicenda umana, benché la precarietà dell’essere, benché il tormento dei giorni, di sentirsi visitata dall’amore  compassionevole del Padre, di un Dio amante della vita. Benché la Legge antica sia  riconosciuta dal Maestro come necessario precetto da seguire, d’ora in poi non sarà la sola Legge a sancire il definitivo patto, ma la stessa vita, presenza del Dio vivente, a gridare che Dio ama l’uomo.

E lo ama così com’è nella sua debolezza, nella sua fragilità, nella sua estrema povertà. Potenza di un Dio che per amore e solo per amore trasforma il dolore in risorsa, la sofferenza in ricchezza, la povertà in possibilità di riscatto. Le nove beatitudini, pur essendo diverse l’una dall’altra, sono storia umana, vicenda che ci riguarda e se  beatitudine è scambio di sguardi tra Dio e l’uomo, intreccio d’amore che rende felice perché dall’Alto proviene, ogni bene è Dio stesso che in Cristo dice al povero, a chi piange, a chi ha fame, a chi è perseguitato: io sono dalla vostra parte, ho scelto ciò che è ignobile e disprezzato dal mondo per confondere i sapienti, ciò che è debole per confondere i forti. Felicità che non arriva solo come promessa futura, sicura consolazione per un riscatto futuro, ma come condizione presente che, senza ignorare il travaglio del momento, trova nella promessa del Maestro la sua forza, l’ottimismo necessario per far fronte al quotidiano sofferente.

La sapienza del mondo, che rigidamente vuole sconfitto il povero, vinto l’afflitto, perdente il mite, è stravolta dalla sapienza di Dio che certo non ama la miseria, non gode delle lacrime, non gioisce dell’afflizione del sofferente ma sceglie come sua  dimora la povertà del povero, l’afflizione del misero e per questo ne sana le ferite, ne cura le piaghe, asciuga le lacrime: «Il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è  caduto» (Sal 145,8). Ecco perché chi ama il povero, ama Dio, ecco perché chi è povero è beato in Dio.

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23 gennaio 2011 - III domenica Tempo ordinario


Matteo (4,12-23)


Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa: «Terra di Zàbulon
e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che  abitava nelle tenebre vide una grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta». Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».



La strada indovinata

«Venite dietro di me, vi farò pescatori di uomini» (Mt 4,19). L’inizio della vita pubblica del  Maestro di Galilea coincide con la presentazione ai discepoli del suo programma:  «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17). Una proposta calata nel cuore  della storia che provoca un dinamismo di rinascita, di vittoria su ogni morte.

Conversione sta proprio per strada indovinata, per via finalmente giusta, capace di condurre alla meta sognata. L’attesa dell’uomo è vincere le tenebre, quelle oscurità di dentro che bloccano il significato del vivere, che impediscono la visione del vero, che rendono impossibile un  passo felice e per questo la proposta del Maestro è attesa da sempre dall’uomo  sofferente, dal popolo di ieri e di oggi: «Il popolo che abitava nelle tenebre vide una  grande luce, per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta» (Is 9,3; Mt 4,16).

Matteo lega, e sente di doverlo fare, l’inizio dell’avventura di Gesù di  Nazaret con la profezia messianica di Isaia e se il suo Vangelo, indirizzato  prevalentemente agli ebrei, vuole dichiarare che l’atteso dai popoli è proprio il Maestro, è  vero anche che questa verità è posta con un brio, con una vivacità di parola che  travalicando il tempo acchiappa i cercatori di verità, i giusti di ogni stagione e li convoca a uscire dalle tenebre per seguire la luce.

La proposta è formidabile, passo deciso da imitare, quello del Maestro, la speranza è poter vedere grazie alla luce finalmente  ritrovata: «Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia... Hai spezzato il giogo... la  sbarra sulle sue spalle» (Is 9,2-3). Seguire colui che grida: «Il regno dei cieli è vicino» è scegliere una strada diversa, un orientamento diverso della vita, è convertire la rotta  scegliendo la direzione del Maestro.

Così l’inizio della vita pubblica di Gesù coincide con  l’annuncio del regno, sintesi di programma che man mano diventerà sempre più chiaro per coloro che ne saranno attratti e coincide anche con la convocazione alla compagnia:  «Venite dietro di me». Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni sono i primi di una moltitudine che lasciano le reti del passato accettando la sfida, investendo sulla parola di Gesù di  Nazaret. Lasciano le reti e subito seguono il Maestro.

Bella sfida quella di Gesù, potente quella dei discepoli, subito lo seguirono, sembra finanche troppo per chi è affaccendato in tutt’altro. Tuttavia, a ben leggere, a quell’avverbio, subito, che dice tempo veloce di  risposta, si potrebbe perfino dare diverso significato e tradurlo con mettendosi in corsa, correndo come in una gara. Chi si mette in gara spera di vincere, non è detto che ci riesca: necessario è provarci, il resto lo farà il Maestro.

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16 gennaio 2011 - II domenica Tempo ordinario


Giovanni (1,29-34)

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”.  Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio»


Ecco l’agnello di Dio

«Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo» (Gv1,29). Il tempo ordinario si apre, Matteo sarà protagonista con il suo Vangelo dell’annuncio che accompagnerà l’intero anno alla scoperta di colui che nella liturgia odierna Giovanni Battista indica al mondo come l’agnello di Dio. Colui che è venuto nel mondo, è il Verbo incarnato, amore del Padre donato all’umano per ricondurre a casa i dispersi, per dare conforto a quanti hanno invocato un cielo aperto sulle loro piaghe, colui del quale Isaia scrisse: «Luce delle nazioni, perché porti la salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6).

Il Maestro di Galilea si lascia provocare dal peccato degli uomini e nella sua carne senza colpa subisce l’affondo del dolore del mondo, coglie sulla sua pelle quanto sia dura la vita all’uomo lontano dal Regno, quanto faticosa la storia snaturata dal peccato. Entra nella vicenda umana per raccontare di un Padre tenerissimo, che ha ascoltato il grido dell’umanità in cerca di riscatto: «Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato» (Sal 39,2).

Confuso tra i peccatori, Giovanni lo riconosce come il giusto e lo indica come colui che finalmente risponde alle attese del cielo: «Sacrificio e offerta non gradisci... non hai chiesto olocausto, né sacrificio per il peccato» (Sal 39,7). Tra Giovanni e il Maestro di Galilea si concretizza un dialogo, ora a parole, ora silenzioso, che svela il disegno del Dio della salvezza, innamorato dell’uomo fragile per la sua impotenza, un Dio che rende possibile, per amore e solo per amore, una strada appianata, finalmente ristrutturata, via di comunicazione tra il cielo e l’uomo: «Ecco l’agnello di Dio», «Ecco, io vengo» (Sal 39,8) Giovanni così indica il Cristo, inviato dal Padre, che è pronto alla sua missione, pronto come agnello, pronto a prendersi il carico più pesante per riscattare ogni uomo. Agnello che Giovanni descrive come colui che toglie il peccato, che qui è detto al singolare, diverso dal plurale liturgico “peccati del mondo”.

Il Battista grida nel deserto delle false promesse la nuova avventura che si apre con l’avvento del Figlio che inaugura la vita stessa, una vita senza la prigionia della morte che a causa del primo peccato era entrata nel mondo a contaminarne il sapore. L’agnello inviato dal Padre è ora nella carne della storia per colorare di nuova infanzia, di nuova creazione il vissuto dell’uomo.

E il Verbo si fa carne e tra noi mette dimora, l’ingresso nella vita pubblica del Maestro di Galilea è già potente descrizione del ritmo del suo passo, ritmo di vita per affrontare la morte e ingoiarla per la vittoria, «Per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele» (Is 49,6).

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