12 febbraio 2012 - VI domenica Tempo ordinario


Marco (1,40-45)
 
Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno [...]». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città.


Coinvolti nella gioia di Dio
 

Quello che il Signore vuole: è la questione fondamentale della nostra vita. Sì, fare la volontà di Dio: questo è il compito di cui dobbiamo farci carico ogni giorno, un compito ineludibile che può suscitare fascino o tristezza o paura o rifiuto. Il brano del Vangelo d’oggi inizia, invece, con una supplica che ci incuriosisce, perché pretende in qualche modo di interpretare la volontà di Dio, invitandolo a mostrarci ciò che veramente vuole da noi: «Se vuoi, puoi guarirmi».

È un’affermazione che provoca Gesù a svelare il vero desiderio di Dio nei nostri confronti: ma Dio gioisce per il bene dell’uomo, per le sue buone relazioni nel mondo in cui vive? Veniamo da abitudini che ci portano a identificare la volontà di Dio con le fatiche e le sofferenze della vita e così finiamo per sentenziare «È la volontà di Dio», e magari l’accettiamo anche, consolati “soltanto” dalla prospettiva che di questa sua volontà si possa sì gioire, ma in futuro, quando si apriranno per noi le consolanti porte del paradiso.

Il lebbroso, uomo escluso per definizione dalle buone relazioni, bandito dal mondo in cui tutti gli altri vivono, considerato peccatore punito e impuro... si rivolge a Gesù entrando nella sua volontà di bene e dichiarandola con decisione. Quel «Se vuoi, puoi guarirmi » suona come una professione di fede: «Tu sei il Dio che salva, tu sei il Dio che libera e che offre gioia nella salvezza».

La risposta di Gesù alla fede del lebbroso, che implora la vita nella sua pienezza, è immediata e ci fa certi che Dio per davvero sta dalla parte dell’uomo, vuole che egli viva e sia felice di tornare ai suoi affetti, alla sua casa, tra la sua gente: «Lo voglio, guarisci!».

Non solo: a riguardo della gioia restituita a questo lebbroso che prega, c’è un “subito”, un’immediatezza che fa capire il desiderio di Dio: non ti prometto una gioia per un futuro lontano, ma una gioia immediata e non banale, non derivante cioè da quel “tutto e subito” di cui i nostri tempi sembrano essere schiavi per un delirio di onnipotenza che rende il cuore sempre insoddisfatto di ciò che si ha: ti guarisco subito perché è bene che la vita ti sia restituita in pienezza e che tu possa lodare Dio a gran voce.

«Guarda di non dir niente a nessuno». L’ordine di non divulgare l’avvenuta guarigione fa parte del cosiddetto “segreto messianico” e mostra come il dono della pienezza di vita che si riceve esige di proclamare la grandezza di Dio e della sua opera. Quest’uomoguarito non torna a casa sua a farsi i propri affari, maviene coinvolto nella responsabilità di annunciare il Vangelo che salva. E questo vale anche per le nostre vicende quotidiane.

È ciò che tutti siamo chiamati a chiedere: «Signore, se vuoi puoi guarirmi, puoi ridarmi quella gioia per cui mi hai creato e in cui stanno le mie radici, ed è così che ti voglio precedere ovunque tu vai, testimoniando a tutti la tua volontà di salvezza».

Dobbiamo però saper vedere l’immenso bene che il Signore ci offre sempre, anche nelle situazioni più difficili e pesanti. Egli gioisce nel restituire alla vita piena perdonando e guarendo. Così noi siamo coinvolti nella stessa gioia di Dio, ogni giorno.

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5 febbraio 2012 - V domenica Tempo ordinario


Marco (1,29-39)
 
La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni [...]. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. [...] Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là».


Gesù ci prende per mano

«Gli portavano tutti i malati e gli indemoniati... Guarì molti... e scacciò molti demòni». Di fronte alla potenza che la Parola di Gesù possiede contro il male, tutti accorrono. Il Vangelo ci segnala così il grande bisogno di serenità e di pace, di ordine e di giustizia che tutti noi portiamo nel cuore. Gesù ascolta la supplica di quanti, proprio per questo, accorrono a lui, e continua la sua opera di guarigione e di liberazione dal demone che contesta la sua missione salvifica a nostro riguardo.

Mi sembra che il Vangelo di oggi dica qualcosa in più rispetto alla potenza che, la scorsa domenica, abbiamo visto operante nel Signore: «Non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano». Ma che significa questo? Lo possiamo intendere riferendoci al cosiddetto “segreto messianico”, per il quale l’autentica forza di Dio va cercata non nei miracoli, ma nel potere della croce e del perdono misericordioso del Padre.

È assai importante e ancor più straordinariamente bello osservare quanto radicale sia la forza con cui Gesù opera: il male non ha più diritto di parola nel cuore dell’uomo, cosciente di essere libero di fronte al bene che Dio gli dona fortiter et suaviter – con energia e soavità – strappandolo dal fallimento della propria esistenza. «La suocera di Simone era a letto con la febbre... Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano».

Due sono le forze che agiscono nella storia personale di ciascuno di noi e che non possono essere vinte dalla nostra debolezza: da una parte le nostre febbri – che si chiamano scoraggiamento, delusione, senso di impotenza, abitudine all’indifferenza – ci paralizzano nello stallo di una comodità instabile; e, dall’altra parte, la volontà di bene che Dio ci fa percepire facendosi a noi vicino.

Sono due forze contrarie, ma non uguali: la forza del male è subdola (come una febbriciattola) e spesso inizia ad agire in noi anche senza un evidente nostro consenso perché ci affascina apparendoci nella sua ambiguità come cosa buona; la forza di Dio invece agisce solo “prendendoci per mano”, tirandoci fuori, sollevandoci dal torpore nel quale il male ci ha immersi e riconsegnandoci al servizio del bene, al servizio del Signore Gesù.

Stare nel legame del demone vuol dire essere prigionieri di una storia di sconfitta finale; afferrare invece la mano del Signore significa camminare con lui, coinvolti fin da subito nella sua opera di salvezza. Di fronte a essa, dice il Vangelo di oggi, Gesù «al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava»: nel silenzio della sua intimità col Padre.

E questo è un invito anche per noi, insieme all’altra parola che Gesù ci rivolge: «Andiamocene altrove», come a dire di lasciarci coinvolgere dal bene che urge da ogni parte e che invoca la nostra presenza attiva e responsabile.

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29 gennaio 2012: IV domenica Tempo ordinario


Marco 1,21-28


Nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore [...]: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono EGesù gli ordinò severamente: “Taci! Esci da lui!”».


Il male non ha l’ultima parola

Ecco quanto sono vere ed efficaci le parole di Gesù. Il Vangelo ce ne dà testimonianza riferendoci della loro capacità di vincere l’abisso del male radicato nella vita dell’uomo. Non è forse questa vittoria che aspettiamo da sempre? Che siano vinti i mali che ci portiamo dentro!

La perdita assoluta dei riferimenti più significativi per la nostra esistenza, l’assenza di significati alti e di progetti audaci di bene, come la gioia di essere discepoli, il desiderio e l’ansia buona di agire, nel mondo, per il Vangelo, la forza entusiasta di tanti giovani di fronte alle scelte che orientano la vita... tutto questo non è, ora, opera dello Spirito, se ci accostiamo con fede al Signore? «Ed erano stupiti del suo insegnamento».

Lo stupore di chi era presente al fatto narrato dal Vangelo di oggi, si spiega proprio così: il male non ha l’ultima parola su di noi e il bene urge agli occhi del Signore e dal profondo dei nostri desideri più vivi, così che gridiamo la nostra supplica, a un tempo confusa e urgente: e Gesù la intende perfettamente e urla ancora più forte del demone le parole della potenza del Dio che libera e salva.

Il male ci lacera, ci sfigura e ci strazia, dopo averci illuso e deluso, si fa prepotente per l’ultima volta contro di noi, ma ormai “il più forte” ha parlato e lo ha messo a tacere. Quanto durerà il silenzio di questo male? Per quanto rimarrà fuori di noi? Tornerà e vincerà di nuovo? È vero, non è sconfitto per sempre. Gesù ha però sciolto la nostra esistenza dal suo legame con il male e ci ha restituiti liberi in questo mondo che ha sempre la forza di attrarci a sé e di allontanarci dal Signore.

Questo male non ha più in sé il pungiglione della morte: conserva però il fascino della tentazione e ripropone la malizia del peccato. Ma dobbiamo rendere grazie al Signore Gesù che ha vinto per noi e attende ormai da noi solo scelte di libertà, scelte di servizio a lui, povero non solo sulle vie di Cafarnao, ma su ogni strada della Terra.

Siamo fragili, ma capaci di invocare Gesù, “il Forte”, come lo chiamava Giovanni il Battista, che dona totalmente sé stesso perché la volontà di bene che è nel cuore del Padre suo ci invada e ci colmi così che prevalga sul male che ci insidia e ci incatena. Restiamo anche noi stupiti di questo insegnamento, che non ha soltanto parole buone da dire, ma comporta la possibilità di ricominciare, liberati dal peccato, ad amare il Dio che toglie dalle nostre spalle il peso di colpe che noi stessi detestiamo.

Per questo gridiamo, chiedendo che il male non ci domini più e che sia grande e liberante la speranza della redenzione. In noi, figli amati di Dio, tutto è grazia! Il Vangelo ci assicura che per la speranza c’è sempre posto nel mondo e nel cuore dell’uomo a motivo di Gesù, il liberatore di un’umanità per la quale egli riserva sempre il suo dolce e onnipotente amore.

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22 gennaio 2012 - III domenica Tempo ordinario


Marco (1,14-20)


Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito, lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.


Una scelta decisiva

«Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio». Con l’arresto di Giovanni si chiude un’epoca di attesa e ha inizio il tempo dell’agire da parte di Gesù, il Figlio amato di Dio, l’inviato nel mondo per la nostra definitiva salvezza. Gesù inizia parlando della vicinanza di Dio a ogni uomo: «Il regno di Dio è vicino». Una simile vicinanza domanda a tutti un fondamentale ri-orientamento della vita nei riguardi dell’operare di Dio e dei suoi disegni di grazia: «Convertitevi e credete nel Vangelo».

Le parole sono quanto mai chiare, come saranno altrettanto chiari i gesti con cui Gesù accompagnerà ciò che dice: la buona notizia cammina per le vostre strade, penetra nei vostri cuori, entra nel vostro vissuto quotidiano. E insieme chiede ascolto e fedeltà perché sia vera la vostra alleanza con Dio.

Ascoltando le prime frasi che il Signore ha detto, alcuni come Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni – i primi sulle cui orme anche noi siamo interpellati – rispondono giocandosi gli affetti familiari e le cose più care: lasciano quello che hanno credendo che troveranno molto di più in fratelli, sorelle e barche, reti, campi... Gesù lo promette a chi gli chiede conto del modo in cui si entrerà nel Regno di Dio.

Protagonista di questo ri-orientamento è anche il tempo che si compie nella storia di noi uomini, spesso così smarriti e impauriti, per aprirsi sull’orizzonte illimitato della salvezza che Dio ci dona. Una sfida estremamente seria: si tratta di prendere o lasciare, di perderci per ritrovare, decidendo di seguire Gesù, molto di più di quanto svanisce al nostro sguardo spesso opaco o offuscato.

«Il tempo è compiuto». Sì, il tempo si compie per l’eternità di un amore che ha iniziato a interpellarci nell’istante stesso della creazione, ma che scaturisce ancor prima della creazione del mondo. Ora tutto va verso il definitivo: siamo resi perfetti dal Dio-che-ama, dal Dio che sta adempiendo ogni sua promessa.

«Convertitevi e credete nel Vangelo». Non ci è consentito di indugiare, se abbiamo compreso qual è la posta in gioco. Non so se i primi quattro discepoli avevano inteso con lucidità tutto questo: forse no. Avevano soltanto intravisto nello sguardo di Gesù qualcosa di grande. Tutto rimane avvolto nel mistero della loro libertà che ha deciso di andargli dietro. Espressione interessante: non si sta “davanti” a Gesù, quasi a tracciare noi la via; si va dietro a lui, si è discepoli, si è lì per imparare e non per insegnare, per seguirlo e non per correggere o alleggerire il peso salvifico della sua parola e dei suoi gesti.

Siamo anche noi sulle rive del lago di Galilea. Gesù passa oggi e ci dice una parola di vita. Siamo coscienti di quanto possiamo ricevere in dono “andando dietro a lui”? Che il Signore ci doni lucidità e coraggio, consapevoli che, rifiutando di seguirlo, decidiamo di noi stessi e del significato vero della nostra vita!

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15 gennaio 2012 - II domenica Tempo ordinario


Giovanni (1,35-42)


Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui. [...] Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.


Nella “casa” di Gesù


«E quel giorno rimasero con lui». Perché si sceglie di rimanere con Gesù? La risposta passa attraverso un progressivo e sempre più vero riconoscimento del suo volto, un’esperienza questa che parte dalla sua dimora, là dove si trovano le sue radici più profonde. Non sappiamo se i due discepoli del Battista videro davvero le pareti della sua “casa”, ma l’invito a rimanere con lui, a conoscerlo, appare del tutto evidente: occorre entrare nel vivo della sua relazione con il Padre. Qui sta la sua autentica “casa”!

Giovanni Battista ha detto di Gesù qualcosa di veramente sorprendente. Egli è «l’agnello di Dio» riservato nel tempio per il sacrificio espiatorio; è colui che viene e si offre per i peccati di tutti, perché tutto sia fasciato e perdonato nella misericordia infinita del Padre; è quell’agnello che nella visione dell’Apocalisse ci viene indicato come immolato, ma ritto sul trono alla destra di Dio e dunque vittorioso, Gesù crocifisso, risorto e vivo.

«E i suoi due discepoli... seguirono Gesù». Anche noi, seguendo l’agnello di Dio, avremo sempre più luminoso lo sguardo verso la grandiosa bellezza e la pienezza singolare della vita che ci attende. Intanto però occorre stare con Gesù. E l’anno liturgico che riprende nella sua “ferialità” è precisamente quel tempo che ci è donato per crescere e raggiungere la maturità del discepolo che è pronto ad abbandonare ogni cosa per seguire il Maestro, per “stare” con lui.

I due discepoli-amici di Giovanni iniziano proprio da qui. Gesù li osserva attentamente mentre lo seguono, così come fissa lo sguardo su Simon Pietro, promettendogli un futuro inimmaginabile per il pescatore di Galilea: «Sarai chiamato Cefa». Vogliamo anche noi accompagnare questi primi discepoli e raccogliere così alcuni dati sull’identità di Gesù: è il maestro, l’agnello sacrificale, il Cristo di Dio e dunque il Messia atteso, colui che osserva e scruta il nostro cuore, cambia il nostro nome, incoraggia la nostra ricerca spesso faticosa e tormentata, ci dona un’identità nuova e una nuova visione del mondo e del nostro operare in esso. Gesù è la novità personale che entra e cambia la storia con la grande “notizia” di un Dio che, da ora, cammina accanto a ciascuno di noi, la mano nella mano!

Tutti i protagonisti del brano del Vangelo d’oggi sanno che Israele attendeva proprio questa novità: chi rimane assolutamente fedele all’alleanza è proprio lui, Gesù, il Salvatore, l’unico necessario a tutti: il suo sangue sarà versato perché ogni uomo entri nell’alleanza nuova ed eterna, là dove ogni miseria e violenza sono vinte dall’amore.

Fissiamo anche noi lo sguardo su di lui e lasciamo che in questo nuovo anno la nostra fede si perfezioni nell’ascolto obbediente della Parola e nell’amore generoso verso Dio e verso l’uomo, sua vivente immagine.

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6 Gennaio 2012 - Epifania del Signore

Adorazione dei Magi di Paolo Veronese (1528-1588). Vicenza, chiesa di Santa Corona.
Adorazione dei Magi di Paolo Veronese (1528-1588). Vicenza, chiesa di Santa Corona.

Matteo (2,1-12)

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da Oriente [...]. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

Dio non esclude nessuno

Non ci sono più i pastori, sono tornati alle loro greggi, e anche gli angeli hanno svolto il loro compito. Non c’è più la mangiatoia, ma c’è una casa, cui Giuseppe ha provveduto. Anche il racconto si fa più solenne e i personaggi non sono più degli sprovveduti pastori, ma degli studiosi: al posto degli angeli c’è una stella e ci sono dei conoscitori del cielo, gente che scruta gli astri e ne interpreta l’andamento. C’è un re e i suoi consiglieri, interpreti delle Sacre Scritture, che lo attorniano.

I Magi, gli studiosi delle stelle, vengono da lontano, stanno compiendo una ricerca, attratti da un segno da decifrare, più difficile di quello dato ai pastori – gli angeli avevano una voce! –, e dunque non possono rivolgersi a gente qualunque per avere informazioni. Sono entrati nel palazzo di un re e pensano di trovare da lui la risposta alla questione della stella, che però, nel frattempo, è scomparsa.

I segni di Dio scompaiono là dove la presunzione degli uomini decide di prevalere: di sapere ogni cosa, di dire sempre tutto, di eludere la grazia del dono. I Magi, dall’alto dei loro cammelli, mi sono sempre sembrati tutt’altro che bisognosi di salvezza: curiosi, intelligenti, capaci di trovare la casa di Erode, ma smarriti nella ricerca della casa di Gesù. Con i pastori non era tutta un’altra storia? Ma anche le Sacre Scritture dei consiglieri del re parlano di Betlemme e di un “bambino”, indicano la via verso il Signore: è giusto che lo si possa cercare e trovare nei modi più diversi! Che Dio risponda a chiunque lo ricerca è bello e consolante: lui non esclude nessuno, ma abbraccia tutti coloro che si incamminano verso Gesù, il Figlio fattosi uomo per ciascuno di noi.

I Magi, come i pastori, sono ora di fronte al bambino e a sua Madre; prostrandosi e adorando, devono riconoscere nel piccolo ciò che scrutavano nel grande cielo e tornare a casa per una via diversa. Hanno provato una gioia nuova e solida, valida per un cammino più impegnativo e più bello di quello compiuto all’andata... E non hanno studiato l’itinerario su mappe complicate: hanno sognato un’altra via.

Per la Bibbia, nei sogni, è Dio che parla. Nel sogno c’è come un angelo che raggiunge l’uomo e lo chiama, gli dà forza per un cammino inatteso. Sognare, desiderare un incontro come quello che splende nel Natale, è il primo di tanti passi di un cammino che ci cambia la vita.

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8 gennaio 2011 - Battesimo del Signore


Marco (1,7-11)


Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

Amati come il Figlio

Un grande salto nel tempo: Gesù non è più un bimbo fragile, ma è ormai un adulto sulla via dell’annuncio del Regno di Dio. Sta per avere inizio la sua missione. Giovanni parla di lui e con grande coraggio lo addita a tutti come il Forte, cui Dio ha dato il potere di immergere l’umanità nello Spirito di misericordia e di perdono. Il Precursore ha già fatto la sua parte: sulle rive del Giordano ha predicato la penitenza in vista della conversione a Gesù, che ora è mischiato tra la gente, Figlio amato di Dio, tra i discepoli di Giovanni.

Il Battista non è uomo smanioso di notorietà e di un posto importante nella storia. Sa però una cosa: Dio dà, ora, inizio a una stagione nuova dell’umanità: l’uomo desideroso di incontrarlo, se davvero lo vuole, lo trova, mettendosi umilmente sulle tracce di Gesù.

Non è così scontata questa ricerca: esige tanta fiducia proprio nelle prime “difficili” parole che Dio pronuncia su quel Gesù che abbiamo visto povero e umile, annunciato sì dagli angeli, ma pur sempre affidato alla nostra semplicità. Ora la sfida si fa veramente straordinaria: quel Gesù che abbiamo contemplato nel suo Natale, non è un profeta tra i tanti, non è neppure il più grande degli uomini della storia. Occorre che noi prestiamo fiducia... anzi fede a una parola mai udita prima dalla bocca di Dio: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

Cosa significano queste parole? Due verità: la prima riguarda Gesù e la sua identità. Per quanto possa sembrarci affascinante ascoltarne la parola – dalle beatitudini fino all’ultima più piccola parabola racchiusa nel Vangelo –, occorre andare oltre l’ascolto e accedere all’obbedienza a ciò che Gesù ci dice, occorre entrare e dimorare in lui, Parola fatta carne per la vita del mondo. La sua è una parola liberante, fa della nostra vita un luogo di verità e bellezza, di bontà e giustizia, di amore e adorazione del Dio vivente.

La seconda verità è forse ancora più bella: Gesù è l’immagine che ci è dato di contemplare per avvicinarci a Dio, anzi per ricevere da lui in dono i tratti del suo volto, sino a essere trasformati in figli suoi. Come Gesù, il Figlio del Padre, è l’amato, così – proprio come figli   siamo amati anche noi.

È questa la voce che continua a venire dal cielo e che ripete per ciascuno di noi la nostra somma dignità: sono l’amato da Dio, in me è il suo compiacimento. Nulla mi può essere di più prezioso e confortante nella vita.

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1 Gennaio 2012 - Maria Santissima Madre di Dio

Adorazione dei pastori, tela di Giorgione (1477-1510).
Adorazione dei pastori, tela di Giorgione (1477-1510).


Luca (2,16-21)

[I pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.

L'esperienza dello stupore

Chi è al centro di questa pagina evangelica? Non ci sono dubbi: il “bambino”. È lui che viene cercato, trovato, visto, raccontato dai pastori. È lui che rende pieni di stupore quanti ne sentono parlare. È lui che viene circonciso e riceve il nome. Ma anche Maria compare in una posizione del tutto singolare: viene incontrata dai pastori, presenta un cuore che custodisce e medita il “mistero” della salvezza, offre il suo grembo per il concepimento di Gesù, ossia di Dio che si fa uomo per noi.

Chi è al centro? Siamo tentati di dire: sono i pastori, che dall’angelo hanno ricevuto l’annuncio gioioso della nascita di Gesù. Proprio su di loro vogliamo soffermarci. Si trattava di gente piuttosto rozza, ai margini della società, non estranea a ruberie o addirittura a qualche delitto.

Luca li fotografa in cammino: «andarono senza indugio». Sentono irresistibile il bisogno di verificare l’annuncio ricevuto. I loro passi non sono mossi da semplice curiosità, quanto da un atteggiamento virtuoso di apertura e di accoglienza: l’annuncio è così straordinario che, se vero, è l’inizio di qualcosa di grande, di bello, di affascinante: è la sorprendente novità della salvezza, di una speranza di riscatto che è anche per loro. Sì, gente rozza ed emarginata i pastori, ma anche semplici, attenti ai segni, incapaci di dire di no alle cose da poco: anche un segno piccolo basta al loro bisogno. E cosa è più piccolo di un bambino? Cosa è più fragile? Ma i segni non sono, per loro natura, fragili? Chiedono di essere spiegati e interpretati: in questo caso, dalla luce nuova della fede. I pastori non possono attingere alla loro “cultura”: non ne hanno, non conoscono neppure le Sacre Scritture. Sanno solo ripetere le parole dell’angelo e se ne fanno portavoce persino a Maria e Giuseppe, che si stupiscono di quanto si avvera: anche loro, per la verità, avevano avuto solo la garanzia della parola di un angelo e pochi segni fragili per dire il loro sì a Dio!

segni fragili per dire il loro sì a Dio! In particolare Maria si rafforza nella speranza di tutto Israele e ricollega le fila di una meditazione ormai lunga nove mesi di attesa, che ridà a Dio il suo posto dentro la storia degli uomini: l’Onnipotente è suo Figlio, nato da lei all’interno di un disegno che lei stessa comprende solo attraverso una fede giovane, ma che non sa dire di no a Dio.

«Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori». Anche questi hanno un loro spazio nel brano evangelico. È lo spazio amplissimo della folla, di cui tutti noi siamo parte. E così l’esperienza dello stupore che i pastori vivono nell’incontro con il “bambino” si allarga anche a me: anch’io non posso non essere preso da stupore di fronte a Dio che mi ama e mi salva così.

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25 dicembre 2011 - Natale del Signore


Luca (2,1-14)


C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro [...]: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».


L’umiltà di Betlemme


L’attesa è “compiuta”! Il cammino d’Avvento si conclude con la celebrazione della nascita di Gesù, il figlio di Dio fattosi uomo nel grembo di Maria. Sin dalle prime righe del suo racconto, l’evangelista Luca ci fa respirare un clima di universalità: è “tutta la terra”, infatti, a ricevere l’ordine di Cesare Augusto di sottoporsi al censimento, un ordine che coinvolge anche la famigliola di Giuseppe e Maria con il bambino prossimo a venire alla luce.

Proprio su questo bambino si concentra ora il nostro sguardo. Ma questa è una concentrazione originale, perché ha in sé la forza, lo slancio di dilatarsi all’intera umanità,
vedendola inserita nell’avventura che sta accadendo nella storia e nei cuori umani. Ma quale avventura? Ci risponde «un angelo del Signore» che, rivolgendosi ad alcuni pastori, dice loro: «Ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore».

Gli occhi dei pastori rimangono però sconcertati, increduli, perché l’annuncio ricevuto non sembra affatto corrispondere a quanto vedono: quel “Signore” che “salva il mondo” è questo bimbo da poco nato, lontano da ogni clamore. Sì,mal’angelo aveva indicato esattamente questo segno: «Troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».

Un segno quanto mai misterioso e luminoso: la grandezza di Dio si svela nella piccolezza estrema di un bambino, che nel suo nascere non trova accoglienza e sperimenta la povertà. E così in quella notte cambia radicalmente la vicenda dei pastori: passano dal fare la guardia al gregge all’incontro con “questo” bambino, con il Cristo Signore, il Salvatore del mondo.

Incontrano il “Dio umile” che manifesta l’immensità del suo amore che vuole salvare l’uomo condividendone la fragilità e la miseria. Un’umiltà, quella di Betlemme, che annuncia e anticipa l’abissale umiliazione della croce, da dove il Crocifisso griderà la misericordia incondizionata di Dio che si spoglia di tutto per la salvezza di tutti gli uomini.

Mi piace accennare a qualche aspetto del mistero del Natale, così come lo racconta l’evangelista e come si ripercuote in me. Egli parla del censimento di Cesare Augusto, ma quello vero e sorprendente è il censimento di Dio, che “conta” ognuno di noi come termine personale del suo amore.

Mi sconcerta e commuove il farsi “bambino” del Signore, l’umiltà estrema, il rifiuto subìto, la povertà, la sofferenza di Betlemme e della croce. Sento di dover umilmente implorare da Dio il dono della fede, perché essa sola mi apre all’accoglienza e alla risposta d’amore a lui che si è fatto uomo come me. Infine mi auguro di fare viva esperienza del “mio” Natale, quello che nella notte santa Gesù pensava e voleva per me.

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18 dicembre 2011 - IV domenica di Avvento


Luca 1,26-38


«Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il  Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine. [...] Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».

La fedeltà di Dio

Promessa e compimento sono le due parole-chiave della quarta domenica di Avvento. Al  desiderio del re Davide di possedere un tempio grandioso il profeta Natan risponde a nome di Dio con la promessa: «Il Signore ti farà grande, poiché ti farà una casa », ti darà una discendenza e renderà saldo e stabile per sempre il tuo regno. Il compimento della promessa avviene in Maria di Nazaret resa dallo Spirito Santo “dimora” di Dio fatto uomo.

Un’immagine sembra interpretare bene il dinamismo della promessa e del compimento: quella della Chiesa che protende le sue mani verso l’alto e le congiunge in un arco imponente e solido, che è la persona stessa di Gesù Cristo, saldatura definitiva tra la promessa e il compimento, lui “figlio di Davide” e figlio di Maria. Una saldatura, questa, che trova il suo cemento incrollabile nella fedeltà alla parola data.

Questa immagine di Chiesa ritroviamo nell’inaudita promessa fatta a Maria: «Ecco concepirai un figlio... sarà grande... il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre». Ma ci si può fidare di una simile promessa? Sì, senz’alcun dubbio, perché, come dice l’angelo, «lo Spirito Santo scenderà su di te... colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio».

L’onnipotenza di Dio è indelebilmente marcata dalla fedeltà, come dimostra Elisabetta con il concepimento nella sua vecchiaia. E a questa fedeltà si consegna con totale fiducia la vergine di Nazaret: «Ecco la serva del Signore; avvenga per me secondo la tua parola».

È allora la fedeltà di Dio che in questo Natale vogliamo ammirare e lodare, e nello stesso tempo rendere sorgente viva di fiducia: anche nelle situazioni personali, familiari e sociali più difficili, travagliate e disperate è possibile aprirsi alla speranza, al coraggio e al ricominciare in novità di vita il nostro cammino.

La maternità di Maria, la vergine, è il compimento della promessa di Dio, è la testimonianza più convincente della fedeltà di Dio, del suo amore che non viene mai meno. La grotta di Betlemme ha scritto così una delle pagine più belle di quell’assoluta fedeltà di Dio, che è il filo rosso dell’intera storia della salvezza.

Il Signore ci doni nelle giornate di questo Natale la gioia pura e confortante di sentirci abbracciati e colmati dal suo amore fedele. «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te». Non possiamo, forse, applicare queste brevi e immense parole anche a ciascuno di noi?

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11 dicembre - III domenica di Avvento


Giovanni (1,6-8.19-28)


Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per  dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni [...]: «Io  non sono il Cristo. [...] Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa. [...] Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».


La luce che ci salva

La parola-chiave della terza domenica di Avvento potrebbe essere questa: la verità del Natale. Chi è colui che attendiamo? Chi sta al centro della festa? Non sono i nostri bambini, anche se – come “piccoli” in senso evangelico – ci insegnano lo stupore davanti al dono vivente di Dio. Al centro c’è il bambino di Betlemme, Dio che si fa uomo nel grembo di Maria, il Cristo che di tutti è luce che illumina e salva, sorgente d’acqua viva che dà gioia e pace. La verità del Natale ha bisogno di testimoni che la mostrino non semplicemente con le parole ma con la vita.

E il primo testimone è Giovanni, il Battista: «Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui». È preso d’assalto dai farisei, raggiunto dalla domanda sulla sua identità: «Tu, chi sei?». Ed è stimolato senza sosta: «Sei tu il Cristo? Elia? Il profeta?». E sin qui la risposta è categoricamente negativa. Sarà allora lui, Giovanni, a offrire la risposta vera e certa.

Risponde con il gesto del battesimo nell’acqua, nel senso annunciato da Isaìa: «Io sono voce che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore». Il Battista chiama dunque alla conversione morale e al perdono dei peccati. Ma solo il battesimo di Spirito Santo, solo la grazia di chi è “più forte” di Giovanni può ottenere la misericordia di Dio e la sua salvezza. È questo il senso della risposta ai farisei: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».

Queste parole ci dicono, anzitutto, l’umiltà del Battista: non un semplice sentire morale, ma un vero e proprio atteggiamento di fede. Solo nella fede, in realtà, stanno la radice e la forza per riconoscere che la salvezza dell’uomo non è frutto delle sue opere, ma è dono liberissimo di Dio. È «grazia», come l’apostolo Paolo non si stanca di ripetere: «Per grazia siamo salvati!». Una lezione di fede umile e grande, questa, che apre il nostro cuore a rendere grazie e lode al Signore.

Per la nostra preparazione al Natale sono importanti anche queste altre parole: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete». Dicono l’urgenza per noi di una fede “contagiosa”, che diviene “professione” – annuncio esplicito – e che sfocia in una “testimonianza” credibile per i non pochi che ancora non conoscono Cristo Gesù e il suo Natale: non lo conoscono per non averne mai sentito parlare, per l’indifferenza nei riguardi del Signore, per il rifiuto delle sue parole e dei suoi gesti d’amore.

In questa prospettiva il nostro percorso verso il Natale ci conduce a generare e a vivere una condivisione, con persone “lontane” dal Signore, di quella gioia unica che esplode nella grotta di Betlemme con la nascita del Salvatore del mondo.

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8 dicembre - Immacolata concezione di Maria

L'Immacolata, tavola del Pomarancio. Città di Castello, Pinacoteca.
L'Immacolata, tavola del Pomarancio. Città di Castello, Pinacoteca.

Luca (1,26-38)

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te». [...] L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù [...]». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.

Contempliamo Maria, la vergine di Nazaret che la Chiesa oggi festeggia come “Immacolata”, nell’orizzonte liturgico dell’Avvento, e dunque della nostra preparazione al Natale. In realtà c’è un intimo rapporto tra quanto narra Luca circa l’annunciazione dell’angelo a Maria e quanto siamo chiamati noi a fare nel nostro prepararci alla nascita di Gesù, il Figlio di Dio che si fa uomo per noi. Il testo evangelico è una stupenda fotografia di questa “preparazione” che ha luogo nella casa di Maria: una preparazione che si risolve nell’incontro tra Dio e l’umanità nel segno della grazia divina e della responsabilità umana. In questo “incontro” stanno il segreto e il cuore della storia del mondo e della vicenda di ciascuno di noi.

Il clima che si respira nella casa di Nazaret è intessuto di grande gioia e di profonda obbedienza. Gioioso è l’annuncio: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te... Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio». E non è solo lei la destinataria di questa gioia: lo siamo tutti noi, ogni uomo a questo mondo. La prima reazione all’annuncio dice però dubbio, interrogazione, fatica, peso, sfida: da tutto ciò viene toccata la risposta libera e obbediente di Maria e di tutti noi. Maria, infatti, «fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo...». E disse all’angelo: «Come avverrà questo, perché non conosco uomo». Ma anche noi nel rispondere a Dio e alla sua volontà sperimentiamo, non poche volte, l’incertezza, lo sconcerto, la paura, la difficoltà!

La festa dell’Immacolata ci si offre come prezioso regalo per noi, chiamati a celebrare e a vivere il grande mistero della salvezza, dell’incontro di Dio con l’uomo. Di questo incontro “protagonista” primo – e in un certo senso unico – è Dio stesso, che prepara la sua “dimora” tra gli uomini nel grembo di Maria, testimoniando così l’assoluta gratuità del suo venire tra noi e in noi. È questa l’esperienza che ha commosso Maria nella sua verginità: «Ed ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce... Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra...».

Anche Maria sta vivendo la sua “preparazione” al Natale, giungendo al traguardo del suo “sì” libero e obbediente: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». Tutto questo ci tocca personalmente nella nostra fondamentale relazione con Dio. Lui, «il Figlio dell’Altissimo», vuole prendere dimora in noi: in noi vuole farsi “carne”. E noi confermiamo ed esaltiamo la nostra suprema dignità con il nostro piccolo “sì” detto con umiltà e fiducia al grande “sì” di Dio. «E l’angelo si allontanò da lei». Mi piace pregarlo perché si avvicini a ciascuno di noi, per rendere autentica la nostra preparazione al Natale.

PER I LETTORI DI RITO AMBROSIANO

Sul nostro sito sono disponibili i commenti alle letture domenicali secondo il rito ambrosiano a cura di don Alberto Fusi.

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4 dicembre 2011 - II domenica di Avvento


Marco (1,1-8)


Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto. [...] E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

Convertiamoci a Cristo

Ecco un’altra parola-chiave dell’Avvento: siamo chiamati a convertirci, a cambiare strada, a entrare in una nuova logica di vita. A proclamare questa esigenza è ancora oggi Giovanni, il Battista: «Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri». Una voce che risuona «nel deserto». L’annotazione non è semplicemente geografica, ma profondamente simbolica: il deserto è luogo dell’essenzialità, della meditazione, del silenzio e dell’ascolto, della preghiera e dell’obbedienza ai disegni di Dio. E così la voce che risuona è sì quella del Battista, ma ancor più è la voce di Dio che penetra nell’intimo del cuore di ciascuno di noi per sollecitarci alla conversione, per spingerci a camminare sulla strada del vero e del bene, per rinnovarci nella fede in Cristo Gesù.

Si fa così sempre attuale e personale quanto l’evangelista scrive: «Si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati ». Di una conversione morale si tratta, dai lineamenti della povertà e sobrietà evangeliche, visibilmente espresse dal Battista, che vestiva di peli di cammello e mangiava cavallette e miele selvatico. E dai lineamenti della solidarietà, come attenzione, servizio e dono di sé ai fratelli bisognosi, secondo l’esplicita e forte sottolineatura dell’evangelista Luca.

In realtà il cambiamento di strada è ancora più impegnativo e insieme più liberante e rinnovatore di quello legato ai costumi morali. Ci è chiesta una conversione teologale, che tocca il nostro fondamentale rapporto con Dio: una conversione che è distacco e rifiuto del peccato ed è libera adesione a Dio Sommo Bene e al suo amore che libera e ci fa nuovi. Una simile conversione, che pure reclama il pieno coinvolgimento della nostra libertà responsabile, è frutto della grazia di Dio, è dono del battesimo nello Spirito. Sta qui il vertice della predicazione di Giovanni: «Io vi battezzo con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». E, dunque, il vertice del nostro vivere l’Avvento.

La conversione morale e teologale manifesta così la sua fisionomia più profonda e originale: è conversione a Cristo, questo «uno che è più forte» del Battista; è camminare sulla “via” che è il Signore Gesù stesso; è un rinnovato rapporto personale con lui. Possiamo dire che la conversione è intimamente connessa con la fede, anzi è essa stessa professione- vita-annuncio della fede in «Gesù Cristo, Figlio di Dio», come recita l’inizio del Vangelo di Marco.

Preghiamo il Signore che nel vivere il dono della conversione ci sia dato di assaporare quella grande gioia spirituale che esplode nel nostro cuore al pensiero che il Signore sempre ci precede e ci sorprende: è lui il primo a “convertirsi” a noi; è lui a venire a noi per «mostrarci la sua misericordia e per donarci la sua salvezza».

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27 novembre 2011 - Prima domenica di Avvento


Marco (13,33-37)


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».


Sì, vogliamo vegliare!

«Quello che dico a voi, lo dico a tutti ». Oggi siamo noi a essere raggiunti dalla voce del Signore Gesù con il medesimo grido di allora: Vegliate! È questa la parola-chiave che apre l’Avvento. E per tutti noi il “vegliare” è la grande grazia che il Signore ci dona e la precisa responsabilità che ci affida per vivere il percorso che ci conduce al Natale.

Sì, vogliamo vegliare! Ma su che cosa? Secondo la parabola evangelica dobbiamo vegliare sulla casa del padrone. Che casa è mai, questa? È la casa del Signore, la casa che il Padre sta preparando nel cuore e nel grembo di Maria: la casa che offrirà il suo pieno splendore nel Natale, quando l’umanità si troverà di fronte al Figlio di Dio che si fauomo e viene ad abitare in mezzo a noi.

Si tratta di un prodigio inaudito che ci colma di commozione, perché questa casa siamo anche noi: noi tutti insieme e ciascuno singolarmente, fortunati destinatari dell’amore immenso di Dio. Questa casa allora è la Chiesa, casa posta in mezzo a tutte le altre case, anche quelle abitate da chi non ospita ancora il Signore, ma forse inconsapevolmente lo attende come sorgente di un amore che purifica e dà speranza, libera e salva.

Vogliamo vegliare! Ma come? Con quali atteggiamenti? Con lo stare attenti, anzitutto: senza cedere al rischio della superficialità e dell’estraneità da noi stessi, ma possedendo il proprio “io”, abitando il proprio “cuore”, con l’essere spazio vivo del dialogo più decisivo: quello di Dio con noi e di noi con lui. Sant’Ambrogio ci ammonisce: «La tua ricchezza è la tua coscienza; il tuo oro è il tuo cuore... Custodisci l’uomo che è dentro di te. Non trascurarlo, non averlo a noia come se non avesse valore, perché è un possesso prezioso» (I doveri, I, 11).

Vegliare significa anche restare aperti agli altri e uniti nella comunione fraterna; avere un forte senso di responsabilità; curarsi dei “piccoli”, delle persone più bisognose, indifese e provate dalla solitudine; essere coerenti nella vita e dare testimonianza di ciò che è vero, giusto e buono. Noi vegliamo su ciò che ci sta a cuore.

Ci domandiamo allora: ci sta a cuore la Chiesa, la “casa del Signore”? E poiché la Chiesa ci dona la parola e i gesti di Gesù, custodiamo con la grande vigilanza queste parole e questi gesti? In altri termini: la nostra fede e il nostro amore sono assonnati e stanchi, oppure desti e vibranti?

Siamo chiamati a fare del Vangelo la “bussola” dei nostri giudizi e delle nostre scelte, a condividere la nostra fede con le persone che amiamo, a cominciare da quelle di casa nostra sino a prenderci cura di chi incontriamo ogni giorno, per tutti desiderando la vita buona del Vangelo, la gioia e la pace di chi sa abbandonarsi alla paternità di Dio.

Vegliare significa porre attenzione ai desideri di Dio sulla Chiesa e sull’umanità, sulla vicenda faticosa e inquieta delle persone e sulla storia complessa e travagliata del mondo, perché diventino sempre più i nostri stessi desideri. Desideri che dalla sincerità del cuore sfociano in frutti concreti di amore e di giustizia. Preghiamo il Signore perché ci sostenga nel nostro cammino d’Avvento con il dono di una vigilanza operosa e vibrante di preghiera. 

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20 novembre 2011-Gesù Cristo Re dell’universo


Matteo (25,31-46)


«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. [...] Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, [...] perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”».


Regno d’amore e giustizia

«Venite, benedetti dal Padre mio» (Mt 25,34). Nella festa di Cristo Re, il brano di Matteo, proposto alla fine di quest’anno liturgico, sembra chiudere tutte le parabole sull’attesa del Regno. Questa volta il Maestro non usa metafore, ma spiega chiaramente con quale metro saremo giudicati «quando il Figlio dell’uomoverrà nella sua gloria» (Mt 25,31). Seduto sul trono di Dio, il Cristo Re separerà i giusti, che riceveranno in eredità il Regno, dagli altri.

I motivi che giustificano l’accoglienza: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare...»(Mt 25,35) ricalcano l’insegnamento dell’Antico Testamento: dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi, ospitare i forestieri, visitare gli infermi (cf. Gb 22,6-7; 31,17.19; Is 58,7) ). Eppure, due differenze fondamentali determinano l’accesso al nuovo Regno preparato per noi fin dalla creazione del mondo (cf. Mt 25,34).

In primo luogo, il Regno è per tutti, senza alcuna distinzione di razza e cultura: davanti al Cristo Re «verranno radunati tutti i popoli» (Mt 25,32) a sottolineare che la proposta del Vangelo non è solo per il popolo eletto e nemmeno per singoli individui, ma per una Chiesa, una comunità, un popolo, il popolo dei giusti che, impegnati a costruire un mondo migliore, saranno benedetti dal Padre. Essere cristiani è certo una scelta individuale, ma implica anche una scelta di campo per combattere insieme, come gruppo, le strutture dell’ingiustizia che generano fame, sete, solitudine.

In secondo luogo, le opere di carità non vanno compiute come in uno scambio commerciale
per ottenere una ricompensa da Dio. Sono meritevoli solo le opere sgorgate dal cuore, compiute senza alcun calcolo per amore del prossimo. Chiunque ama il suo prossimo come sé stesso, ama il Signore, anche se non ha mai conosciuto Gesù: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato?» (Mt 25,37).

La meraviglia espressa in queste parole, sia dai giusti che dagli altri, sta a indicare che solo l’amore, senza alcuna finalità, rende meritevoli le nostre azioni. Se «Dio è amore» (1Gv 4,8), solo chi ama conosce Dio: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

Chi invece vive senza amore, chi non ha pietà per il prossimo, non conosce Dio e determina da sé la sua condanna a una vita priva di senso. Mai avrà la gioia di scoprire nel volto di chi ha fame, di chi ha sete, di chi è straniero, nudo, malato, prigioniero, il volto del Cristo risorto che, sconfitta la morte, ci viene incontro ogni giorno attraverso i suoi fratelli più piccoli a chiederci aiuto per trasformare la terra in un regno di amore e giustizia e condurci a verdi pascoli e ad acque tranquille.

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In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi. 

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