17
feb

Raká e Môré

Il piccolo ebreo offeso di Ivan Kramskoj (1837-1887). San Pietroburgo Museo Statale Russo.
Il piccolo ebreo offeso di Ivan Kramskoj (1837-1887). San Pietroburgo Museo Statale Russo.

"Chi dice al fratello: “Raká!” dovrà essere sottoposto al Sinedrio. Chi gli dice : “Môré!” sarà destinato al fuoco della Geenna".
(Matteo 5,22)

Ecco davanti a noi una frase molto forte, incastonata in quel testo fondamentale della predicazione di Gesù che è il Discorso della Montagna. Quest’ultimo, in verità, è una raccolta di diversi interventi che Cristo pronunziò in ambiti e tempi differenti e che l’evangelista ha collocato sul fondale di un “monte” evocatore del Sinai, così da creare un parallelo positivo tra Mosè e Cristo stesso, il Mosissimus Moses, come lo definiva Lutero, cioè la guida suprema, il Mosè all’ennesima potenza. Gesù, infatti, non era «venuto ad abolire la Legge o i Profeti ma a portarli a pienezza» nel loro messaggio (Matteo 5,17).

Due sono le questioni che stanno davanti al lettore. Innanzitutto puntiamo su quelle parole che abbiamo intenzionalmente lasciato nel tenore originale dei Vangeli. La prima è la trascrizione greca della parola aramaica raqa’ che denota lo stupido, una persona “senza cervello”, “dalla testa vuota”, con un aspetto di aggressività offensiva pari al nostro “cretino” o “imbecille”. Il secondo è, invece, un vocabolo greco e indica “l’insensato”, lo stolto attivo, in ultima analisi “il pazzo”. Tuttavia, nel parallelo ebraico sotteso si aveva una connotazione ben più grave: con quel termine si bollava l’empietà religiosa, l’apostasia idolatrica ed è per questo che alcune versioni traducono con “rinnegato”.

Siamo, quindi, di fronte ad attacchi verbali feroci che sbocciano dal terreno dell’odio e del disprezzo. Ma proprio qui scatta la seconda questione a cui sopra si accennava. Per un tale atto è adeguata una condanna così grave e fin assoluta, ossia la denuncia al supremo tribunale giudaico del Sinedrio di Gerusalemme? O, peggio, la consegna al «fuoco della Geenna», nota immagine biblica per designare il giudizio infernale, nella totale rimozione dalla comunione con Dio? La risposta è in tutta l’atmosfera e nello stesso filo rosso che regge il Discorso della Montagna.

Gesù ricorre spesso al paradosso e alla radicalità perché la sua non è la proposta di una pura e semplice regola morale fatta di tanti precetti e articoli di diversa gravità, un po’ come accadeva nel giudaismo che aveva elencato 613 comandamenti ricavandoli dalla Torah, cioè dalla Legge biblica presente nei primi cinque libri della Sacra Scrittura. Cristo, invece, vuole spingere il suo discepolo a un’attitudine totale e assoluta di fedeltà che nasce dal cuore e dall’amore e non da una sequenza di atti religiosi che, una volta compiuti, chiudono il capitolo dell’impegno di fede. È un po’ ciò che accade, per esempio, all’amore materno o paterno che non si riduce solo ad alcune ore o atti del giorno, ma abbraccia la totalità del tempo e dell’esistenza.

In questa luce il cristiano deve dedicarsi a combattere ogni offesa e colpa nei confronti del prossimo, puntando alla perfezione; non deve evitare soltanto i peccati gravi come l’omicidio o la violenza fisica. È un po’ quello che emerge se si leggono le sei “antitesi” che sono intessute nel Discorso della Montagna (Matteo 5,20-48) e che iniziano proprio con quella che noi abbiamo citato. Essa suona appunto così: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai!; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio…» e qui segue il nostro versetto (5,21-22).

Pubblicato il 17 febbraio 2012 - Commenti (3)
09
feb

Poveri in spirito

Beato Jacopone daTodi, Maestro di Prato, secolo XV. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.
Beato Jacopone daTodi, Maestro di Prato, secolo XV. Prato, Museo dell’Opera del Duomo.

"Beati i poveri in spirito
perchè di essi è il regno dei cieli".
(Matteo 5,3)

Una domanda preliminare spontanea: perché mettere tra le parole “difficili” dei Vangeli questa che è una delle frasi più celebri del cristianesimo? Non appartiene forse a quelle beatitudini che sono il gioiello letterario e spirituale posto in apertura al Discorso della Montagna, da alcuni definito come la Magna Charta della fede cristiana? Il tema della povertà non è forse emblematico della vita e della testimonianza in atti e in parole di Cristo e dei suoi seguaci, anche se spesso la cristianità s’è dimostrata al riguardo poco fedele, come ammoniva nelle sue Laudi Jacopone da Todi («povertate poco amata, pochi t’hanno desponsata»)? In verità, ci sono alcuni problemi sia letterari, sia storici, sia teologici che s’incrociano attorno alle beatitudini e che esigono una serie di precisazioni.

Innanzitutto c’è il fatto della loro collocazione in un contesto topografico diverso. Matteo scrive: «Vedendo le folle, Gesù salì sul monte... e si mise a parlare» (5,1-2). Luca: «Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante... e alzati gli occhi verso i suoi discepoli, diceva...» (6,17.20). La soluzione del contrasto è semplice: Luca evoca il contesto storico reale in cui si svolse quel discorso, una pianura di Galilea. Matteo, invece, che nel suo discorso raccoglie altri interventi pronunziati da Cristo in sedi diverse, introduce una cornice simbolica, quella del monte, alludendo così al Sinai e a Mosè: non per nulla si parlerà nel discorso del nesso intimo tra la Legge antica e l’annunzio di Gesù. Rilevante è, poi, la differenza tra le due redazioni delle beatitudini: in Matteo (5,3-12) sono nove (l’ultima è un’espansione dell’ottava, forse un suo commento), mentre in Luca (6,20-23) sono solo quattro, a cui però si aggiungono altre quattro “maledizioni” (“Guai!”) parallele e antitetiche. Questo dato, frequente anche in altri confronti tra i testi evangelici, dimostra che i loro autori, tenuta ferma la sostanza, si comportano non come storici in senso stretto creando dei freddi manuali o dei verbali documentari, bensì come “evangelisti” la cui fedeltà è viva e duttile, si apre alle istanze delle comunità alle quali le parole e le memorie di Cristo devono essere trasmesse inmodo concreto e incarnato.

Giungiamo, così, alla prima beatitudine, quella sulla povertà. Luca la presenta in maniera diretta e profetica: «Beati voi, poveri!», riflettendo i destinatari del suo Vangelo che erano in difficoltà sociale ed economica. Così aveva fatto anche Gesù interpellando la folla dei miseri con il “voi” e con la promessa essenziale della felicità del regno di Dio a loro riservata. Matteo adotta, al contrario, un linguaggio più sapienziale alla terza persona: «Beati i poveri...», anche perché il Gesù da lui tratteggiato è il nuovo Mosè che parla rivolto anche ai secoli futuri. Inoltre, apporta una precisazione: «Beati i poveri in spirito».

Questa aggiunta è stata spesso oggetto di equivoco perché, letta alla maniera occidentale, sembrerebbe riferirsi soltanto a un distacco spirituale dalle ricchezze e dagli agi e non a un comportamento reale di donazione agli altri e di sobrietà. In realtà, la puntualizzazione “in spirito” perfeziona la celebrazione della povertà comune a Matteo e Luca: la formula, che è nota anche nei documenti giudaici scoperti a Qumran sul Mar Morto, significa non una scelta astratta e ideale bensì radicale, che parta appunto dallo “spirito” per diventare norma dell’atteggiamento concreto. Siamo proprio nell’atmosfera delle beatitudini che non impongono un codice di leggi o regole, ma un’opzione totale, fondamentale e assoluta nei confronti dei valori evangelici.

Pubblicato il 09 febbraio 2012 - Commenti (2)

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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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