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Resta con noi: si fa sera

La cena a Emmaus, (1622-1623), opera di Diego Velázquez.
La cena a Emmaus, (1622-1623), opera di Diego Velázquez.

"Resta con noi, perchè si fa sera e il giorno volge ormai al tramonto! "
(Luca, 24,29)

«A chi di noi la casa d’Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada, una sera che tutto pareva perduto? Il Cristo era morto per noi. Ce lo avevano preso il mondo, i filosofi e gli scienziati. Non esisteva più nessun Gesù per noi sulla terra. Seguivamo una strada e qualcuno era venuto a lato. Eravamo soli e non soli. Era ormai sera. Ecco una porta aperta, l’oscurità di una sala ove la fiamma del caminetto rischiara il suolo e fa tremolare le ombre. Opane spezzato!... Rimani con noi, perché il giorno declina, la vita finisce». Abbiamo voluto rievocare quella pagina indimenticabile del Vangelo di Luca attraverso la creazione letteraria della Vita di Gesù (1936) del noto scrittore cattolico francese François Mauriac.

In quei due discepoli – dei quali è riferito solo un nome, Cleopa (ossia Cleopatro) – è rispecchiata la vicenda di tutti i credenti. Anch’essi camminano lungo quella via che da Gerusalemme punta verso il villaggio di Emmaus (variamente identificato dagli archeologi e quindi un po’ misterioso e “aperto” a tanti luoghi). Condividono la stessa tristezza e il dubbio. Sono soli e sfiduciati. Ma ecco accostarsi un ignoto viandante e qui lasciamo l’applicazione dello scrittore francese per ritornare alla pagina evangelica e al suo significato intimo. Il Cristo risorto e glorioso non è riconoscibile con la pura e semplice esperienza concreta: si ricordi l’imbarazzante equivoco di Maria di Magdala che scambia il Risorto per il custode del giardino cemeteriale di Gerusalemme (Giovanni 20,14-16). È necessaria una nuova forma di conoscenza. Due sono le tappe di questo che è il processo della fede. Prima c’è l’ascolto delle Scritture spiegate dal Cristo, ancora ignoto, in chiave cristiana. Poi si ha lo «spezzare il pane» che, come sappiamo, nel linguaggio neotestamentario è un rimando all’Eucaristia.

Ora, se osserviamo attentamente questi due momenti, ci si accorge che essi riflettono già la liturgia cristiana che ogni domenica anche noi celebriamo. Essa comprende la lettura delle Scritture e la «frazione del pane». Luca, rievocando quel pomeriggio primaverile di duemila anni fa, ci suggerisce dunque dove è possibile incontrare il Cristo risorto, come accadde allora ai due discepoli di Emmaus: nell’ascolto della parola di Dio «il cuore arde nel petto», è la prima tappa del riconoscimento; ma è allo «spezzare il pane» che «gli occhi si aprono e riconoscono» in quel viandante il Cristo risorto.

Quell’invocazione, diventata un canto che spesso ripetiamo – «Rimani con noi perché si fa sera» –, si trasforma in un inno al Risorto perché adempia la sua promessa di essere con noi «tutti i giorni, sino alla fine delmondo» (Matteo 28,20), non solo con la sua «parola di vita» e col suo «Spirito di verità», ma soprattutto col suo corpo e il suo sangue donati per noi. È attraverso l’Eucaristia che anche noi diventiamo «un solo corpo, perché tutti partecipiamo all’unico pane» (1Corinzi 10,17). Cantava la scrittrice tedesca Gertrud von le Fort (1876-1971): «La polvere dei nostri atomi si raccoglie... / Tu entri nel cuore della nostra solitudine, / per dischiuderla come una porta spalancata... / Siamo un solo corpo e un solo sangue».

Pubblicato il 05 maggio 2011 - Commenti (0)
14
apr

La kénosis di Cristo

Deposizione, opera di Courtois Guillame (1628 - 1679), Roma, Accademia di San Luca
Deposizione, opera di Courtois Guillame (1628 - 1679), Roma, Accademia di San Luca

"Cristo Gesù svuotò sé stesso assumendo la condizione di schiavo...Umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte in croce."
(Filippesi 2,7-8)

Nelle nostre memorie scolastiche la città macedone di Filippi – che portava il nome del suo fondatore, Filippo II, padre di Alessandro Magno (IV secolo a.C.) – è presente per la battaglia decisiva del 42 a.C. tra Ottaviano Augusto e Marco Antonio, da una parte, e Bruto e Cassio, dall’altra. Battaglia che ha generato il motto: «Ci rivedremo a Filippi», riferito dallo storico greco Plutarco. Per il cristianesimo, Filippi – che ancora oggi offre una significativa testimonianza archeologica della sua gloria antica – è legata alla presenza di Paolo e alla Lettera che, attorno al 55-56, indirizzò a quella comunità cristiana a lui unita da un intenso vincolo di amicizia.

In questo scritto, come annotava uno studioso, Jerome Murphy O’Connor, «si sente battere il cuore di Paolo»: «Nessuna Chiesa aprì con me», confessa l’Apostolo, «un conto di dare e di avere, se non voi soli... Sono ricolmo dei vostri doni... che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio» (4,15-18). Ora, nel capitolo 2 di questa Lettera è incastonato un inno (2,6-11) che è modellato su un simbolo spaziale, la discesa-ascesa di Cristo sull’asse cielo- terra-cielo. Ecco innanzitutto la discesa umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna, divenendo uomo tra gli uomini, abbandonando la sua gloria. Anzi, il suo è un vero e proprio precipitare in un abisso: egli, infatti, muore in croce, il supplizio riservato agli schiavi, agli ultimi della terra.

Solo così Cristo diventa veramente fratello di tutte le creature umane, non escludendo neanche quelle che sono nei bassifondi estremi della società, inserendo, però, con il suo passaggio nella nostra carne, la presenza salvifica e trasformatrice della sua divinità. Ma dalla vetta del Golgota ove si leva la croce ha inizio l’altro movimento spaziale, quello dell’ascesa, che l’inno descrive nella sua seconda parte (2,9-11). Cristo ritorna nella sua gloria con il nome di Kyrios, “Signore”, appellativo divino; egli brilla di nuovo nella luce della trascendenza che si era eclissata nella morte in croce, quando Gesù si era «svuotato » della sua dignità altissima non solo per essere accanto all’umanità, ma anche per entrare nel suo grembo, fatto di miseria, di limite e di peccato così da redimerla.

Ecco, noi vorremmo ora puntare brevemente la nostra attenzione proprio su quella frase «svuotò sé stesso», in greco ekénosen, un verbo che ha dato origine a un vocabolo “tecnico” della teologia, kénosis, destinato appunto a indicare l’abisso in cui Dio precipita nel Figlio morto in croce e umiliato. È, questo, il segno pieno e definitivo di quel mistero centrale del cristianesimo chiamato “incarnazione”. Nella kénosis-“svuotamento” si ha, infatti, il vessillo e la sintesi della storia di Gesù di Nazaret, divenuto uomo tra gli uomini, povero, umile, condannato a una pena capitale infamante, riservata solo agli schiavi e ai ribelli antiromani. Eppure, quello “svuotamento” liberamente scelto da Cristo non ne annienta la divinità.

Essa riappare quando si è raggiunto il fondo ultimo della kénosis, la morte. È là che si apre l’alba di Pasqua, la gloria della risurrezione. Vorremmo concludere, allora, questa nostra riflessione sul frammento di un testo paolino così importante con le parole che un famoso scrittore russo, l’autore del Dottor Živago, Boris Pasternak (1890-1960), mette in bocca allo stesso Gesù: «Scenderò nella bara e il terzo giorno risorgerò / e, come le zattere discendono i fiumi, / in giudizio, da me, come chiatte in carovana, / affluiranno tutti i secoli dell’umanità».

Pubblicato il 14 aprile 2011 - Commenti (0)
28
gen

La luce del mondo

Trasfigurazione, opera di Giovanni Battista Paggi (1554-1627), Firenze, San Marco.
Trasfigurazione, opera di Giovanni Battista Paggi (1554-1627), Firenze, San Marco.

"Io sono la luce del mondo. Chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita."
(Giovanni 8,12)

A Gerusalemme si stava celebrando la festa autunnale delle Capanne, in ebraico sukkôt, commemorazione della lunga peregrinazione del popolo ebraico nelle lande assolate e desolate del deserto del Sinai, mentre cercava di avvicinarsi alla terra di Canaan, la meta dell’esodo dall’oppressione egiziana.
Anche Gesù è in città e partecipa in mezzo alla folla alle celebrazioni del tempio. Uno di questi riti comprendeva l’accensione a sera di grandi falò sulle mura e negli spazi urbani maggiori, così che Gerusalemme in quelle notti era quasi avvolta in un’onda luminosa che squarciava le tenebre.
All’improvviso Gesù – che già nei giorni precedenti (la festa durava una settimana) aveva proclamato a gran voce alcune dichiarazioni destinate a insospettire le autorità religiose fino a spingerle a un tentativo d’arresto – leva ora alta la sua parola.
Si crea silenzio nell’uditorio. Egli, prendendo spunto proprio da quelle fiamme che si innalzano nel cielo stellato d’Oriente, si presenta in modo sorprendente e sconcertante come «la luce del mondo». È noto che, in tutte le culture religiose, la luce è un simbolo di Dio perché riesce a esprimere nettamente due qualità specifiche del divino che i teologi chiamano la trascendenza e l’immanenza.
Da un lato, infatti, la luce è esterna a noi, non la possiamo prendere tra le mani e strappare o dominare, ci “trascende”, ossia ci supera, è “altra” e diversa rispetto a noi, rappresentando quindi il mistero e la distanza che intercorre tra noi e Dio. D’altro lato, però, essa ci avvolge, ci rivela, ci riscalda, ci fa vivere ed è perciò “immanente”, cioè rimane con noi e dentro di noi, raffigurando in tal modo la vicinanza della divinità alle sue creature.
Ecco, allora, giustificati la sorpresa e lo sconcerto che l’affermazione di Gesù suscita tra i presenti: non dimentichiamo che sarà lo stesso Giovanni, nella sua Prima Lettera, a definire Dio proprio così, «luce e in lui non ci sono tenebre» (1,5). L’appello diventa provocatorio: Gesù invita a non guardare più a quelle alte fiamme luminose che brillano nella notte gerosolimitana, ma a cercare un’altra luce che permette di non vivere più sotto l’incubo delle tenebre spirituali. Come è noto, infatti, l’oscurità è il regno del delitto, del vizio, del male: «Quando non c’è luce, si leva l’omicida per assassinare poveri e inermi. Di notte s’aggira il ladro col volto incappucciato e l’occhio dell’adultero spia l’arrivo del tramonto pensando: Nessun altro occhio mi vedrà! Nelle tenebre si forzano le case» (Giobbe 24,14-16).
Per questo, Cristo si definisce anche come «la luce della vita». La sua è una presenza che indica il percorso morale che conduce alla vera vita, che non è soltanto quella fisica, come non è soltanto corporea la vista che poco tempo dopo egli offrirà al cieco nato. Infatti, il racconto del successivo capitolo 9 del Vangelo di Giovanni non approderà soltanto alla gioia di chi riesce finalmente a vedere la luce e i colori della natura, ma anche alla meta di chi potrà proclamare la sua professione di fede in Gesù Cristo, luce della sua vita: «Credo, Signore! E gli si prostrò innanzi» (9,38).
E allora anche tutti noi, «se camminiamo nella luce, come Dio è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri» nell’amore (1Giovanni 1,7).

Pubblicato il 28 gennaio 2011 - Commenti (0)


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Autore del blog

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi

Gianfranco Ravasi è un cardinale, arcivescovo cattolico e biblista italiano, teologo, ebraista ed archeologo.
Dal 2007 è presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.

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