27 giugno - Tredicesima del Tempo ordinario



Luca (9,51-62)


    Per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».


Un Maestro esigente

    «Egli si diresse decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9,51). La corsa del Vangelo è esigente, inarrestabile il passo del Profeta. Egli sa che il tempo concesso è luogo formidabile per rintracciare i perduti e renderli liberi. Un passo che chiama a raccolta e costringe a una risposta significativa. La sequela è futuro di luce acchiappata: «Io sono la luce del mondo; chi segue me... avrà la luce della vita» (Gv 8,12). Una convocazione provocata dalla Parola che chiede adesione non emotiva, che cerca compagni di cordata non occasionali e offre percorsi impegnativi e tuttavia esaltanti.

    Una chiamata che prospetta libertà definitiva ma comporta fatica, impegno, coerenza e soprattutto fedeltà al Maestro di Galilea, abbandono al suo progetto: «Fratelli, Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1). Una chiamata che implica fiducia lungo la strada anche quando la croce sembra rubare la luce del traguardo, anche quando le esigenze del quotidiano sovrastano i pensieri, confondono le domande di senso, nascondono il vero.

    «Ti seguirò dovunque tu vada» (Lc 9,61) è desiderio fondamentale del discepolo, ma la sequela è esigente. Nessuna comodità, nessun privilegio sono garantiti: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58). Giudizio di percorso altro da chi sceglie il solo potere umano, la stabilità del successo. Né potere della Terra, né compromesso umano saranno barriera al dovere del Vangelo: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annuncia il regno di Dio» (Lc 9,60). È difficile corrompere il Giusto, impossibile ridurlo al proprio bisogno, al proprio egoistico progetto. Abbandonarsi al Maestro di Galilea è rischiare il suo verbo, lasciarsi prendere dal suo disegno, tendere ai suoi pensieri, volere la sua volontà. Perfino gli affetti più cari, i legami di sangue, potranno limitare il discepolo, corromperlo nel suo percorso.

    Nonostante il comandamento: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mc 12,31), sebbene nessuno sia più prossimo di un figlio o di un genitore, anche il sentimento più profondo sarebbe tradimento della verità, se fosse contrario alla giustizia, al vero amore che discende da Dio: «Nessuno che ha posto mano all’aratro e poi si volta indietro, è adatto per il regno di Dio» (Lc 9,62).

    Ti seguirò dovunque tu vada è il giusto desiderio di chi sente che il Maestro conduce alla felicità assoluta. Seguirlo è del discepolo, i passi sono del discepolo, la strada è la vita: il ritmo, il gioco del percorso, è di chi sta dinanzi. Pretendere altro è scegliere altra guida.

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20 giugno - Dodicesima del tempo ordinario



Luca (9,18-24)


    Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto». Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Poi, a tutti diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua».


La gente e il discepolo

«Ma voi chi dite che io sia?» (Lc 9,20). La domanda è decisiva. Il rapporto con il Maestro, la sua conoscenza, il cammino alla sua sequela impongono una risposta. Il discepolo sa che non può sottrarsi. Chi è per me Gesù di Nazaret? Vola la provocazione attraverso le corde dei pensieri, supera le barriere del tempo, entra nel quotidiano evolversi dei fatti e intorno la voce delle moltitudini affascinate dal carisma del profeta, quel giorno e oggi, segna tentazioni di possibili interpretazioni. Mai uomo ha mosso tanta attenzione, nessuno è stato mai capace di suscitare dibattito, interesse contrario o a favore, passioni amorose o rifiuti contrastanti. Nessuno più di lui nel tempo resta attuale, forte di una Parola che mai lascia indifferenti.

    La gente dice che Gesù è uno dei grandi uomini, uno tra i tanti, anche se eletto, forse ritornato in vita per rendere testimonianza al vero. La potenza dell’esperienza del Maestro è sconvolgente e come tale provoca rifiuto o ammirazione. È giusto che la gente si lasci affascinare dalla sua storia, ma la gente non è il discepolo, l’amico dello sposo si prende la responsabilità di indossare l’abito adatto.

    Il discepolo non è la gente, ne faceva parte prima. Come la moltitudine era stato toccato dal suo potere taumaturgico, dalla solarità del suo verso. Il discepolo è dietro il Maestro, conta i suoi passi, ruba i suoi sospiri, scruta la luce dei suoi occhi, è dietro di lui, gioiosamente, faticosamente: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23). Sì, il discepolo è costretto a non demandare ad altri il dovere della risposta, a non nascondersi in quel “si dice” generico. Lui, proprio lui, sa che per essere compagno di viaggio di Gesù dovrà dirgli il suo sì, affogare nel mare dell’incontro la parola decisiva della sua fede: «Ma voi chi dite che io sia?... Il Cristo di Dio» (Lc 9,20).

    Un incontro che reclama non una semplice risposta di parole, ma parole semplici che restano fissate come un patto, un giuramento, tra il Maestro e il discepolo. C’è da chiedersi se le nostre comunità siano gremite da discepoli o dalla gente. Se le parole che noi passiamo restano confuse tra le tante parole di chi pensa che comunque ci sia qualcosa dall’altra parte, nell’oltre, o sono la Parola che comanda un’adesione, una risposta coinvolgente. «Tu», sembra chiedere il Maestro a ciascuno di noi, «tu, proprio tu, appartieni alla gente o vuoi essere discepolo?».

    Dalla risposta dipenderà il seguito del dialogo, l’apertura dello scrigno che sottovoce svelerà, a chi avrà la costanza di seguire il passo del Maestro, che cosa significhi «risorgere il terzo giorno» (Lc 9,22).

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13 giugno - Undicesima del Tempo ordinario

Luca (7,36-8,3)

In quel tempo, uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco, una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, portò un vaso di profumo; stando dietro, presso i piedi di lui, piangendo, cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di profumo. [...] Gesù disse al fariseo: «Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco». Poi disse a lei: «I tuoi peccati sono perdonati».


Sui passi del perdono

     «I tuoi peccati sono perdonati» (Lc 7,48). Togli Signore la mia colpa e il mio peccato. Il giusto di ogni tempo ha cercato risposte al suo disagio interiore, il desiderio di liberazione è connaturale alla ricerca di senso e di armonia: «Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato» (Sal 31,1). Un canto di liberazione che il salmo veste di gioia per la nuova condizione ritrovata, per il sentiero della pace interiore che fa i conti con il vero da dire, il vero da dirsi: «Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa» (Sal 31,5).

    Per l’uomo del Libro non sempre il desiderio di riscatto si coniuga con la certezza di essere stato esaudito e il rischio che la colpa resti muove disagio. Conoscere la propria colpa, gridarla fuori per renderla libera di correre, è già un grande vantaggio,ma essere certi che il Signore, il Dio d’Israele, ha rimosso ciò che rendeva prigioniero e schiacciava la sostanza della vita è altra cosa, è certezza che insieme al peccato lavato si è liberati dall’angoscia interiore, si è protetti dalla condanna futura. Solo Cristo è in grado di dare risposta, solo in lui il desiderio di liberazione si sposa con la piena attuazione del progetto per cui gli uomini non vengono condannati per la colpa, ma liberati dall’amore che supera qualsiasi legge e garantisce l’armonia del cuore a chi sa abbandonarsi alla misericordia del Padre in Gesù.

    Chi sa quanto avrà aspettato la peccatrice alla porta del fariseo Simone. Forse nascosta tra la folla, troppo appariscente per la luce del giorno, camuffata, confusa tra quegli stessi che al solo tatto saprebbero riconoscerla, furtivamente si presenta nel mezzo della festa e tra parole dotte il suo silenzio dice di più. Muta si prostra ai piedi del Maestro, affoga di pianto i suoi piedi, li carezza di tenerezza con i suoi capelli.

    Mai abbandono è stato più eloquente, mai parola è stata più gridata dal silenzio di una donna che dice fede senza professare, che chiede perdono senza mostrare veli.

    Resta agli occhi del mondo la peccatrice da pagare nel segreto, da denunciare all’aperto, il suo peccato è evidente e tale resta ai benpensanti senza via d’uscita. Donna che cercava il Maestro e che con altre compagne già redente forse avrebbe voluto essere famiglia: «C’erano con lui i dodici e alcune donne... Maria, chiamata Maddalena...» (Lc 8,2.3). La peccatrice di suo porta i capelli e le lacrime, la risposta del Maestro è un macigno sull’arroganza degli ignoranti: «Sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato» (Lc 7,47).

    L’amore rende liberi, la ricerca dell’amore muove i passi al perdono, per tutti: «Il Signore ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai» (2Sam 12,13).

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6 giugno 2010 - Corpo e sangue di Cristo

Luca (9,11-17)

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Il corteo dei poveri di Dio

«Io sono il pane vivo disceso dal cielo, se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51). Le strade si coloreranno di festa, i balconi mostreranno la gioia negli addobbi, nei fiori, nelle coperte stese ad aspettare il santo passaggio. Vicoli e contrade allargheranno gli spazi per fare posto ai pellegrini in cerca del divino Maestro. Gli ostensori innalzati al cielo, liberi da mura, racconteranno di miracoli passati, in cui un pezzo di pane fu irrorato di vero sangue nelle mani incredule di un prete. Memoria di passaggio di santa reliquia di città in città, tra cori osannanti di popolo ammirato, cortei di chierici in solenni paramenti, autorità civili e religiose pronte per l’ossequio.

     È tradizione che resta fedele al desiderio di portare Cristo crocifisso e risorto nel suo vero corpo lungo le strade del quotidiano vivere, nei borghi dei consumati giorni, perché tutto venga da lui benedetto e al suo passaggio ogni ginocchio si pieghi.

     Passaggio eucaristico che dice grazie a colui che ha dato sé stesso per la nostra salvezza. Pane vivo che dà vita, donato agli uomini nella cena delle consegne. Pane, memoria di compagnia: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19), pane e vino, ostia di salvezza, pane in carne, vino in sangue.

     Il corpo del Signore passa dove la vita passa, raccoglie sentieri di speranza, briciole di nostalgia, carezze di sostegno. Accoglie il grido di dolore, asciuga lacrime disperate. Passa dove la vita passa e mentre come pane si mostra vivo nel suo vero corpo, in anima e divinità, mostra il dono di sé all’umanità in cerca di futuro. Rimane presente nelle braccia di chi lo cerca e ancora passando spezza il pane, lo moltiplica perché a nessuno manchi, rendendo sazio l’affamato e libero il prigioniero. Spezza il pane della giustizia e ricorda ai convenuti per la festa che il pane non condiviso è un pane rubato. Rimanda al giorno in cui la compassione del Maestro dinanzi alla folla affamata provocò l’inaudito miracolo della moltiplicazione.

     Ai discepoli, preoccupati per mancanza di cibo, la sua parola ricordò che la ricerca del Regno passa per le strade del pane spartito: «Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9,13). Uno strettissimo legame sussiste tra il memoriale eucaristico e la condivisione compassionevole, tra l’offerta, il sacrificio e la misericordia. Difficile avvicinarsi all’offerta senza praticare le vie della giustizia.

     Le strade in festa attendono il passaggio del Corpus Domini, dietro di lui, se gli occhi non si lasceranno ingannare, i poveri di Dio in corteo: ciechi, storpi, affamati, perseguitati. Allora riconosceremo il Signore nel corteo dei cristi crocifissi e tutto sarà chiaro: «Voi stessi date loro da mangiare».

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Rito romano

In queste pagine potete trovare il commento alla liturgia domenicale e festiva secondo il RITO ROMANO, curata dal cardinale Dionigi Tettamanzi. 

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