Luca
(9,51-62)
Per la strada, un tale gli
disse: «Ti seguirò
dovunque tu vada». E
Gesù gli rispose: «Le
volpi hanno le loro tane e
gli uccelli del cielo i loro
nidi, ma il Figlio
dell’uomo non ha dove
posare il capo». A un altro
disse: «Seguimi». E costui
rispose: «Signore,
permettimi di andare
prima a seppellire mio
padre». Gli replicò:
«Lascia che i morti
seppelliscano i loro morti;
tu invece va’ e annuncia il
regno di Dio». Un altro
disse: «Ti seguirò,
Signore; prima però lascia
che io mi congedi da
quelli di casa mia». Ma
Gesù gli rispose:
«Nessuno che mette
mano all’aratro e poi si
volge indietro è adatto
per il regno di Dio».
Un Maestro esigente
«Egli si diresse decisamente verso
Gerusalemme» (Lc 9,51). La corsa
del Vangelo è esigente, inarrestabile
il passo del Profeta. Egli sa che il tempo
concesso è luogo formidabile per rintracciare
i perduti e renderli liberi. Un passo che
chiama a raccolta e costringe a una risposta
significativa. La sequela è futuro di luce acchiappata:
«Io sono la luce del mondo; chi segue
me... avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
Una convocazione provocata dalla Parola
che chiede adesione non emotiva, che cerca
compagni di cordata non occasionali e offre
percorsi impegnativi e tuttavia esaltanti.
Una chiamata che prospetta libertà definitiva
ma comporta fatica, impegno, coerenza
e soprattutto fedeltà al Maestro di Galilea, abbandono
al suo progetto: «Fratelli, Cristo ci
ha liberati perché restassimo liberi; state
dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo
il giogo della schiavitù» (Gal 5,1).
Una chiamata che implica fiducia lungo la
strada anche quando la croce sembra rubare
la luce del traguardo, anche quando le esigenze
del quotidiano sovrastano i pensieri,
confondono le domande di senso, nascondono
il vero.
«Ti seguirò dovunque tu vada» (Lc 9,61) è
desiderio fondamentale del discepolo, ma la
sequela è esigente. Nessuna comodità, nessun
privilegio sono garantiti: «Le volpi hanno
le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi,
ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare
il capo» (Lc 9,58). Giudizio di percorso altro
da chi sceglie il solo potere umano, la stabilità
del successo. Né potere della Terra, né
compromesso umano saranno barriera al dovere
del Vangelo: «Lascia che i morti seppelliscano
i loro morti; tu va’ e annuncia il regno
di Dio» (Lc 9,60). È difficile corrompere il Giusto,
impossibile ridurlo al proprio bisogno,
al proprio egoistico progetto. Abbandonarsi
al Maestro di Galilea è rischiare il suo verbo,
lasciarsi prendere dal suo disegno, tendere
ai suoi pensieri, volere la sua volontà.
Perfino gli affetti più cari, i legami di sangue,
potranno limitare il discepolo, corromperlo
nel suo percorso.
Nonostante il comandamento: «Amerai il
prossimo tuo come te stesso» (Mc 12,31), sebbene
nessuno sia più prossimo di un figlio o
di un genitore, anche il sentimento più profondo
sarebbe tradimento della verità, se fosse
contrario alla giustizia, al vero amore che
discende da Dio: «Nessuno che ha posto mano
all’aratro e poi si volta indietro, è adatto
per il regno di Dio» (Lc 9,62).
Ti seguirò dovunque tu vada è il giusto desiderio
di chi sente che il Maestro conduce alla
felicità assoluta. Seguirlo è del discepolo, i passi
sono del discepolo, la strada è la vita: il ritmo,
il gioco del percorso, è di chi sta dinanzi.
Pretendere altro è scegliere altra guida.
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Luca
(9,18-24)
Un giorno Gesù si trovava
in un luogo solitario
a pregare. I discepoli erano
con lui ed egli pose loro
questa domanda: «Le folle,
chi dicono che io sia?».
Essi risposero: «Giovanni
il Battista; altri dicono
Elìa; altri uno degli antichi
profeti che è risorto».
Allora domandò loro:
«Ma voi, chi dite che
io sia?». Pietro rispose:
«Il Cristo di Dio». Egli
ordinò loro severamente di
non riferirlo ad alcuno. «Il
Figlio dell’uomo – disse –
deve soffrire molto, essere
rifiutato dagli anziani,
dai capi dei sacerdoti
e dagli scribi, venire ucciso
e risorgere il terzo
giorno». Poi, a tutti diceva:
«Se qualcuno vuole venire
dietro a me, rinneghi sé
stesso, prenda la sua croce
ogni giorno e mi segua».
La gente e il discepolo
«Ma voi chi dite che io sia?» (Lc
9,20). La domanda è decisiva. Il
rapporto con il Maestro, la sua
conoscenza, il cammino alla sua sequela impongono
una risposta. Il discepolo sa che
non può sottrarsi. Chi è per me Gesù di Nazaret?
Vola la provocazione attraverso le corde
dei pensieri, supera le barriere del tempo, entra
nel quotidiano evolversi dei fatti e intorno
la voce delle moltitudini affascinate dal carisma
del profeta, quel giorno e oggi, segna
tentazioni di possibili interpretazioni. Mai uomo
ha mosso tanta attenzione, nessuno è
stato mai capace di suscitare dibattito, interesse
contrario o a favore, passioni amorose
o rifiuti contrastanti. Nessuno più di lui
nel tempo resta attuale, forte di una Parola
che mai lascia indifferenti.
La gente dice che Gesù è uno dei grandi uomini,
uno tra i tanti, anche se eletto, forse ritornato
in vita per rendere testimonianza al vero.
La potenza dell’esperienza del Maestro è sconvolgente
e come tale provoca rifiuto o ammirazione.
È giusto che la gente si lasci affascinare
dalla sua storia, ma la gente non è il discepolo,
l’amico dello sposo si prende la responsabilità
di indossare l’abito adatto.
Il discepolo non è la gente, ne faceva parte
prima. Come la moltitudine era stato toccato
dal suo potere taumaturgico, dalla solarità
del suo verso. Il discepolo è dietro il Maestro,
conta i suoi passi, ruba i suoi sospiri,
scruta la luce dei suoi occhi, è dietro di lui,
gioiosamente, faticosamente: «Se qualcuno
vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso,
prenda la sua croce ogni giorno e mi segua»
(Lc 9,23). Sì, il discepolo è costretto a non demandare
ad altri il dovere della risposta, a
non nascondersi in quel “si dice”
generico. Lui, proprio lui, sa che
per essere compagno di viaggio di
Gesù dovrà dirgli il suo sì, affogare
nel mare dell’incontro la parola
decisiva della sua fede: «Ma voi
chi dite che io sia?... Il Cristo di Dio» (Lc 9,20).
Un incontro che reclama non una semplice risposta
di parole, ma parole semplici che restano
fissate come un patto, un giuramento, tra
il Maestro e il discepolo. C’è da chiedersi se
le nostre comunità siano gremite da discepoli
o dalla gente. Se le parole che noi passiamo
restano confuse tra le tante parole di chi
pensa che comunque ci sia qualcosa dall’altra
parte, nell’oltre, o sono la Parola che comanda
un’adesione, una risposta coinvolgente.
«Tu», sembra chiedere il Maestro a ciascuno di
noi, «tu, proprio tu, appartieni alla gente o
vuoi essere discepolo?».
Dalla risposta dipenderà il seguito del dialogo,
l’apertura dello scrigno che sottovoce
svelerà, a chi avrà la costanza di seguire il
passo del Maestro, che cosa significhi «risorgere
il terzo giorno» (Lc 9,22).
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Luca
(7,36-8,3)
In quel tempo, uno dei
farisei invitò Gesù a
mangiare da lui. Egli
entrò nella casa del
fariseo e si mise a tavola.
Ed ecco, una donna, una
peccatrice di quella città,
saputo che si trovava
nella casa del fariseo,
portò un vaso di
profumo; stando dietro,
presso i piedi di lui,
piangendo, cominciò a
bagnarli di lacrime, poi
li asciugava con i suoi
capelli, li baciava e li
cospargeva di profumo.
[...] Gesù disse al fariseo:
«Per questo io ti dico:
sono perdonati i suoi
molti peccati, perché ha
molto amato. Invece
colui al quale si perdona
poco, ama poco». Poi
disse a lei: «I tuoi peccati
sono perdonati».
Sui passi del perdono
«I tuoi peccati sono perdonati» (Lc 7,48).
Togli Signore la mia colpa e il mio peccato.
Il giusto di ogni tempo ha cercato
risposte al suo disagio interiore, il desiderio
di liberazione è connaturale alla ricerca
di senso e di armonia: «Beato l’uomo a cui è
tolta la colpa e coperto il peccato» (Sal 31,1).
Un canto di liberazione che il salmo veste di
gioia per la nuova condizione ritrovata, per
il sentiero della pace interiore che fa i conti
con il vero da dire, il vero da dirsi: «Ti ho fatto
conoscere il mio peccato, non ho coperto
la mia colpa» (Sal 31,5).
Per l’uomo del Libro non sempre il desiderio
di riscatto si coniuga con la certezza di essere
stato esaudito e il rischio che la colpa resti
muove disagio. Conoscere la propria colpa,
gridarla fuori per renderla libera di correre,
è già un grande vantaggio,ma essere certi
che il Signore, il Dio d’Israele, ha rimosso ciò
che rendeva prigioniero e schiacciava la sostanza
della vita è altra cosa, è certezza che insieme
al peccato lavato si è liberati dall’angoscia
interiore, si è protetti dalla condanna futura.
Solo Cristo è in grado di dare risposta,
solo in lui il desiderio di liberazione si sposa
con la piena attuazione del progetto per cui
gli uomini non vengono condannati per la
colpa, ma liberati dall’amore che supera
qualsiasi legge e garantisce l’armonia del
cuore a chi sa abbandonarsi alla misericordia
del Padre in Gesù.
Chi sa quanto avrà aspettato la peccatrice
alla porta del fariseo Simone. Forse nascosta
tra la folla, troppo appariscente per
la luce del giorno, camuffata, confusa tra quegli
stessi che al solo tatto saprebbero riconoscerla,
furtivamente si presenta nel mezzo
della festa e tra parole dotte il suo silenzio dice
di più. Muta si prostra ai piedi del Maestro,
affoga di pianto i suoi piedi, li carezza di
tenerezza con i suoi capelli.
Mai abbandono è stato più eloquente, mai
parola è stata più gridata dal silenzio di una
donna che dice fede senza professare, che
chiede perdono senza mostrare veli.
Resta agli occhi del mondo la peccatrice da
pagare nel segreto, da denunciare all’aperto,
il suo peccato è evidente e tale resta ai
benpensanti senza via d’uscita. Donna che
cercava il Maestro e che con altre compagne
già redente forse avrebbe voluto essere famiglia:
«C’erano con lui i dodici e alcune donne...
Maria, chiamata Maddalena...» (Lc
8,2.3). La peccatrice di suo porta i capelli e
le lacrime, la risposta del Maestro è un macigno
sull’arroganza degli ignoranti: «Sono
perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto
amato» (Lc 7,47).
L’amore rende liberi, la ricerca dell’amore
muove i passi al perdono, per tutti: «Il Signore
ha rimosso il tuo peccato: tu non morirai»
(2Sam 12,13).
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Luca
(9,11-17)
In quel tempo, Gesù prese
a parlare alle folle del
regno di Dio e a guarire
quanti avevano bisogno di
cure. Il giorno cominciava
a declinare e i Dodici gli si
avvicinarono dicendo:
«Congeda la folla perché
vada nei villaggi e nelle
campagne dei dintorni, per
alloggiare e trovare cibo:
qui siamo in una zona
deserta». Gesù disse loro:
«Voi stessi date loro da
mangiare». Ma essi
risposero: «Non abbiamo
che cinque pani e due
pesci, a meno che non
andiamo noi a comprare
viveri per tutta questa
gente». C’erano infatti
circa cinquemila uomini.
Egli disse ai suoi discepoli:
«Fateli sedere a gruppi di
cinquanta circa». Fecero
così e li fecero sedere tutti
quanti. Egli prese i cinque
pani e i due pesci, alzò gli
occhi al cielo, recitò
su di essi la benedizione,
li spezzò e li dava
ai discepoli perché li
distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà
e furono portati via i pezzi
loro avanzati: dodici ceste.
Il corteo dei poveri di Dio
«Io sono il pane vivo disceso dal cielo, se uno mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51). Le strade si coloreranno di festa, i balconi mostreranno la gioia negli addobbi, nei fiori, nelle coperte stese ad aspettare il santo passaggio. Vicoli e contrade allargheranno gli spazi per fare posto ai pellegrini in cerca del divino Maestro. Gli ostensori innalzati al cielo, liberi da mura, racconteranno di miracoli passati, in cui un pezzo di pane fu irrorato di vero sangue nelle mani incredule di un prete. Memoria di passaggio di santa reliquia di città in città, tra cori osannanti di popolo ammirato, cortei di chierici in solenni paramenti, autorità civili e religiose pronte per l’ossequio.
È tradizione che resta fedele al desiderio di portare Cristo crocifisso e risorto nel suo vero corpo lungo le strade del quotidiano vivere, nei borghi dei consumati giorni, perché tutto venga da lui benedetto e al suo passaggio ogni ginocchio si pieghi.
Passaggio eucaristico che dice grazie a colui che ha dato sé stesso per la nostra salvezza. Pane vivo che dà vita, donato agli uomini nella cena delle consegne. Pane, memoria di compagnia: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19), pane e vino, ostia di salvezza, pane in carne, vino in sangue.
Il corpo del Signore passa dove la vita passa, raccoglie sentieri di speranza, briciole di nostalgia, carezze di sostegno. Accoglie il grido di dolore, asciuga lacrime disperate. Passa dove la vita passa e mentre come pane si mostra vivo nel suo vero corpo, in anima e divinità, mostra il dono di sé all’umanità in cerca di futuro. Rimane presente nelle braccia di chi lo cerca e ancora passando spezza il pane, lo moltiplica perché a nessuno manchi, rendendo sazio l’affamato e libero il prigioniero. Spezza il pane della giustizia e ricorda ai convenuti per la festa che il pane non condiviso è un pane rubato. Rimanda al giorno in cui la compassione del Maestro dinanzi alla folla affamata provocò l’inaudito miracolo della moltiplicazione.
Ai discepoli, preoccupati per mancanza di cibo, la sua parola ricordò che la ricerca del Regno passa per le strade del pane spartito: «Voi stessi date loro da mangiare» (Lc 9,13). Uno strettissimo legame sussiste tra il memoriale eucaristico e la condivisione compassionevole, tra l’offerta, il sacrificio e la misericordia. Difficile avvicinarsi all’offerta senza praticare le vie della giustizia.
Le strade in festa attendono il passaggio del Corpus Domini, dietro di lui, se gli occhi non si lasceranno ingannare, i poveri di Dio in corteo: ciechi, storpi, affamati, perseguitati. Allora riconosceremo il Signore nel corteo dei cristi crocifissi e tutto sarà chiaro: «Voi stessi date loro da mangiare».
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