Beato Clemente Marchisio

19/04/2013

Ecco un prete che ha molto da dirci anche se è vissuto nell’Ottocento: possedeva il dono di una parola chiara, accessibile a tutti, capace di incidere nei cuori della gente, soprattutto perché diceva la verità senza paura, anche se ciò poteva costargli caro. Parliamo del beato Clemente Marchisio, fondatore delle Figlie di San Giuseppe.

Nato a Racconigi (Torino) il 1° marzo 1833 da una famiglia povera (il padre faceva il calzolaio), avvertì presto la vocazione al sacerdozio, ma non poté entrare subito in seminario perché il padre voleva che continuasse a lavorare con lui e gli permise di studiare nel ginnasio della città; soltanto grazie all’aiuto di un sacerdote – che gli aveva fatto assegnare dei fondi provenienti da un’eredità familiare – il giovane poté coronare il suo sogno: nel seminario di Bra vestì l’abito clericale nel 1849, e dopo gli studi di filosofia e teologia, nel 1856 fu ordinato sacerdote. Ottenne poi di essere ammesso per due anni nel Convitto Ecclesiastico di Torino dove, sotto la guida illuminata di san Giuseppe Cafasso, approfondì lo studio della morale e si specializzò nell’assistenza ai carcerati e nella predicazione.

Nominato coadiutore a Cambiano, vi fu quasi subito allontanato ad opera del segretario comunale per aver criticato severamente il comportamento dei soldati francesi chiamati per ragioni politiche da Cavour; in realtà, don Clemente «fulminava il vizio in ogni occasione», come riferisce un testimone, e lo faceva senza lasciarsi condizionare da ragioni estranee al suo ministero. Per suggerimento di don Cafasso, si trasferì a Vigone nel 1859, ma per assicurarsi una dimora più stabile partecipò al concorso per la parrocchia vacante di Rivalba e lo vinse. Anche qui, comunque, non ebbe vita facile, per il diffuso anticlericalismo fomentato in tutto il paese dalla massoneria: la sua coraggiosa predicazione dava fastidio e gli provocò maldicenze e persecuzioni da parte di coloro che erano presi di mira per i loro comportamenti poco coerenti con la fede cristiana; alcuni, oltre a disertare le funzioni, arrivarono ai imbrattargli l’ingresso della canonica, a fracassare i vetri delle finestre e a cantargli dalla strada canzoni oscene durante la notte.

Ci volle del tempo perché la bufera cessasse. Don Clemente continuava nel suo ministero, curando in modo speciale la catechesi dei bambini, conquistandoli con suo fare affabile e paterno, e per provvedere alla loro educazione nel 1871 fondò a Rivalba un asilo. Progettava anche di ricostruire la chiesa parrocchiale, che era bassa e piuttosto squallida, ma non poté farlo per l’opposizione delle autorità comunali. Riuscì tuttavia a restaurare alcune cappelle campestri dedicate a san Giovanni Battista, a san Rocco e a san Martino.

Per impedire che le ragazze della parrocchia si recassero a Torino in cerca di lavoro, dove avrebbero corso rischi per la loro moralità, con i circa centomila mattoni che aveva raccolto in precedenza per ricostruire la chiesa, realizzò un laboratorio, attrezzandolo con dei telai, e ne affidò la direzione alla suore Vincenzine dell’Immacolata Concezione, dette “Albertine” perché fondate dal beato Federico Albert (1820-1876). Ma ad un certo punto queste dovettero trasferirsi e don Clemente riunì quattro giovani operaie del laboratorio che avevano deciso di consacrarsi al Signore e per loro acquistò una piccola casa, chiamata “Ospizio di San Luigi”, dove cominciarono a vivere in comunità. La fama di predicatore vedeva don Marchisio sempre più impegnato, in occasioni di novene o di missioni al popolo, anche nei paesi vicini in compagnia di alcuni zelanti sacerdoti, tra cui lo stesso don Albert, e grazie alla sua efficace parola molti tornavano alla pratica religiosa e ricorrevano sempre più numerosi a lui per consiglio.

Ma soprattutto i fedeli erano conquistati dalla sua vita esemplare: don Clemente dedicava spazio alla preghiera, all’adorazione eucaristica, alla meditazione della parola di Dio, sopportava disagi e privazioni, d’inverno non faceva uso di riscaldamento e il poco denaro che aveva lo destinava ai poveri, cui provvedeva anche le medicine quando erano malati.

E appunto durante queste predicazioni nelle parrocchie dei dintorni, egli notò che non sempre gli altari delle chiese erano adeguatamente attrezzati per le celebrazioni liturgiche. Allora pensò di istituire una famiglia religiosa – le Figlie di San Giuseppe – che avesse il compito di preparare il necessario per la Messa, cioè il vino, le ostie grandi per il celebrante, le particole per la comunione dei fedeli, le candele, le tovaglie, i paramenti sacerdotali e l’incenso per il turibolo. Avuta l’approvazione dell’arcivescovo mons. Gastaldi, le prime suore vestirono l’abito il 16 giugno 1877 e ben presto affluirono vocazioni, per cui il fondatore diede alla comunità una sistemazione definitiva acquistando dal conte Cesare Balbo il castello di Rivalba, che adattò coi dovuti restauri alle nuove esigenze. Da lì le Figlie di San Giuseppe si propagarono in altre città. Purtroppo anche stavolta, come succede ai santi quando inventano qualcosa di nuovo, l’importanza dell’opera non fu subito capita: don Marchisio veniva accusato di fare il negoziante anziché il parroco; alcuni ecclesiastici lo misero in cattiva luce anche presso l’arcivescovo, il quale non gli dava più udienza.

Ma c’era anche chi ne aveva grande stima, come san Leonardo Murialdo che parlava sovente della fede di don Clemente, e il beato Giovanni Battista Scalabrini, che lo riteneva un santo. Il numero delle “Suore delle ostie”, come venivano chiamate dalla gente, aumentava nonostante le opposizioni, e nel 1883 si aprì una loro casa a Roma. Il Papa Leone XIII ricevette in udienza il fondatore con un gruppo di religiose e, riferendosi al carisma della congregazione, esclamò: «Oh, finalmente Nostro Signore Gesù Cristo ha pensato un po’ a se stesso!». Le suore nel 1891 approdarono anche a Venezia. Il Patriarca cardinale Giuseppe Sarto (futuro Pio X) nel far loro visita, disse: «Lo sapete che il vostro fondatore è un santo? Bisogna che facciate sempre grande conto delle sue parole, dei suoi avvisi e dei suoi ricordi». Dal canto suo, don Marchisio seppe dare all’Istituto l’impronta della sua spiritualità salda e concreta nello spirito di povertà, nella laboriosità, nella semplicità e nell’umiltà. Per la santificazione del lavoro, egli dispose che le Figlie di San Giuseppe facessero a turno in cappella l’adorazione eucaristica. Egli poi era sempre pronto ad aiutarle quando c’erano da trasportare sacchi di farina per fare le ostie o le uve da torchiare per ricavarne il vino da Messa: «Ricordatevi», ripeteva loro, «che dovete essere le vittime di Gesù sacramentato».

Nel 1901 l’Istituto fu approvato da Leone XIII e don Clemente ne fu felice. Poiché la sua salute cominciava a peggiorare, egli predisse che sarebbe morto a 70 anni. Nel 1903, già sofferente per una grave forma di otite, si sottopose ad un intervento chirurgico che gli consentì una temporanea ripresa. Ma il 15 dicembre sopravvenne una forte congestione cerebrale che il giorno dopo ne provocò la morte. Le sue spoglie nel 1920 furono traslate nella chiesa parrocchiale di Rivalba. Giovanni Paolo II ha beatificato don Marchisio il 30 settembre 1984.

Angelo Montonati
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