Beato Giuseppe Allamano

10/02/2013

Il fondatore dei Missionari e delle Missionarie della Consolata era compaesano di san Giovanni Bosco, essendo nato a Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco) il 21 gennaio 1851. Inoltre, era nipote di quello che fu definito «la perla del clero italiano», san Giuseppe Cafasso, fratello di sua madre. Rimasto a soli tre anni orfano di padre, al termine delle elementari nell’autunno 1862 Giuseppe fu accolto a Torino nell’Oratorio Salesiano di Valdocco, rimanendovi quattro anni sotto la guida di Don Bosco. Poi, dopo il ginnasio, proseguì gli studi di filosofia e teologia nel seminario di Torino e venne ordinato sacerdote il 20 settembre 1873.
Un suo condiscepolo, mons. G.B. Ressia, vescovo di Mondovì, nell’elogio funebre dell’Allamano dirà di lui: «Era il nostro modello per il fervore della preghiera,le comunioni frequenti, l’attenzione ai professori, l’applicazione allo studio, la pazienza e l’amabilità con noi, l’obbedienza, lo splendore dell’angelica virtù. Non lo vidi mai turbato o inquieto, sempre in pace, amato da tutti. Anche quando, ogni quindici giorni, era assalito da una emicrania così forte che non gli lasciava fare nulla».
Durante il secondo anno di teologia aveva deciso di farsi missionario, ma ne era stato dissuaso dai superiori a motivo della sua malferma salute. Dopo l’ordinazione, conseguì la laurea in teologia e nel 1876, essendo dotato di una maturità eccezionale, nonostante l’ancor giovane età fu nominato direttore spirituale del seminario diocesano, confermando la sua spiccata sensibilità come formatore di sacerdoti; inoltre, entrò a far parte del collegio dei docenti della Facoltà teologica torinese, istituita pochi anni prima dall’arcivescovo Lorenzo Gastaldi.

Nel 1880 fu nominato Rettore del santuario delle Consolata, punto di riferimento per eccellenza della devozione mariana dei torinesi. Egli infuse nuova vitalità alla istituzione, risollevandone le precarie condizioni finanziarie e promuovendovi lavori di restauro nella parte esterna e di abbellimento all’interno. All’architetto Conte Ceppi che gli faceva notare l’elevato costo di tali lavori, per i quali non sarebbe bastato un milione (cifra enorme per quei tempi), don Giuseppe rispose: «Ne metteremo due, tre, perché Torino abbia un santuario degno della sua Patrona». E come sempre succede ai santi, la Provvidenza gli venne incontro: infatti, oltre ad attingere al suo patrimonio privato, per finanziare l’impresa ottenne contributi dalla nobiltà e dalla borghesia torinesi, di cui egli era considerato il consigliere, anzi l’oracolo.
Fece rivivere e rifiorire, all’ombra del santuario, anche l’annesso Convitto Ecclesiastico che san Giuseppe Cafasso aveva illustrato con la sua sapienza e la sua virtù e che, a causa delle diatribe teologiche dovute a influenze gianseniste, era stato chiuso nel 1878 dall’arcivescovo. L’Allamano lo riaprì con il suo consenso, impegnandosi nuovamente nella formazione del clero e approfondendo ulteriormente gli insegnamenti della vita e delle opere dello zio.
Per diffondere più efficacemente le devozione verso la Vergine e sollecitare la generosità dei fedeli, fondò nel 1904 la rivista La Consolata, che incontrò subito il favore di un gran numero di lettori. Sotto la sua direzione, il santuario era aperto al pubblico dalle prime luci dell’alba fino alla sera e i fedeli potevano accostarsi ai sacramenti e seguire le numerose Messe che vi si celebravano. Dal canto suo, il Rettore passava lunghe ore in confessionale, dove oltre ai laici accorrevano sacerdoti, religiosi e anche vescovi, attratti dal dono del consiglio che egli possedeva in grado eminente.

Animato da un ardente spirito missionario, don Giuseppe pensò alla fondazione di una istituzione per la preparazione di sacerdoti destinati alle missioni estere, nella quale convogliare molte forze sane del numeroso clero piemontese. L’idea era maturata in lui dopo aver conosciuto i 35 anni di missione vissuti nel Vicariato dell’Alta Etiopia dal Servo di Dio Guglielmo Massaia, cappuccino, poi creato cardinale, la cui straordinaria opera era stata interrotta nel 1879 per ordine dell’imperatore abissino Joannes. Con l’approvazione e la benedizione dell’episcopato prealpino, don Giuseppe cominciò a scrivere le regole dell’Istituto, nonché a scegliere e a formarne i candidati.
Nel 1902 i primi quattro Missionari della Consolata - due sacerdoti e due fratelli - dopo aver ricevuto il crocifisso partirono per il Kenya, che nel 1909 sarebbe stato eretto in Vicariato Apostolico. L’arcivescovo di Torino, cardinale Richelmy, prima di impartire loro la benedizione, volle inginocchiarsi per baciare loro i piedi. I sei o sette membri rimasti, preoccupati per il futuro che si prospettava incerto, abbandonarono l’Allamano; ma questi isi recò in santuario e, davanti al quadro della Consolata, pregò dicendo: «L’Istituto delle Missioni è proprietà tua. Pensa tu al suo avvenire». E a poco a poco arrivarono le vocazioni, sempre più numerose.
Inizialmente, per l’appoggio femminile che si dimostrava essenziale per il lavoro dei missionari sul campo, il fondatore si avvalse della collaborazione delle suore fondate da san Giuseppe Benedetto Cottolengo, suo contemporaneo. In seguito, pressato dalle molte richieste che gli giungevano dalle missioni e soprattutto da mons. Filippo Perlo, Vicario Apostolico del Kenya, si decise a fondare l’Istituto delle Suore Missionarie della Consolata. Lo stesso papa Pio X durante un’udienza lo aveva esortato a farlo, e poiché don Giuseppe esitava sostenendo di non averne la vocazione, gli aveva detto deciso: «Se non ce l’avete, ve la do io!». Il 3 novembre 1913 le prime quindici suore partivano anch’esse per il Kenya. Oggi sono diffuse, come i Missionari, in Africa e nelle Americhe.

Pur rimanendo sempre sacerdote secolare, volle per i membri del suo Istituto i voti religiosi perché considerava questa forma di vita lo strumento migliore per favorire l’attività di evangelizzazione dei suoi missionari. Propaganda Fide, il dicastero vaticano che occupa delle missioni, appoggiò fin dall’inizio le due nuove congregazioni, come pure Pio X. Oltre a preoccuparsi dello sviluppo dei suoi istituti, il fondatore si dedicò con zelo indefesso alla formazione dei loro membri con contatti personali e conferenze spirituali. Era solito dire: «Prima santi e poi missionari… non è il numero che conta, ma la qualità, il buono spirito».
L’Allamano contribuì anche efficacemente a condurre a termine il processo di beatificazione dello zio don Cafasso, che fu elevato alla gloria degli altari da Pio XI il 3 maggio 1925. Dopo aver assistito alla cerimonia, egli cantò il suo “nunc dimittis”, perché la sua salute già compromessa peggiorò sensibilmente. A chi pregava per la sua guarigione, egli rispondeva: «Solo questo io voglio, il compimento della volontà di Dio... Paradiso! Paradiso! Oh, sì, fra poco vado alle nozze!». Morì di polmonite il 16 febbraio 1926. Ai suoi funerali prese parte una folla incredibile. Le sue spoglie, traslate dal cimitero torinese dove erano state sepolte dopo la morte, riposano ora nella cappella della casa-madre dei Missionari della Consolata a Torino. Giovanni Paolo II ne riconobbe l’eroicità delle virtù nel 1989 e lo beatificò il 7 ottobre 1990.

Angelo Montonati
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