25/02/2013
Foto Reuters.
Esce dalle urne, tra le altre cose, un'Italia senza programmi. E non s'intendono, con questo termine, i programmi dei partiti, che al contrario esistono e sono di solito piuttosto abbondanti. Quello del Pd è interminabile e onnicomprensivo, quello del PdL seducente e immaginifico, quello del Movimento 5 Stelle sbrigativo e digeribile.
Pensiamo piuttosto a quei programmi che trasmettono l'idea di sé del Paese, la maniera in cui una nazione si immagina nel futuro prossimo. All'interno dei confini ma anche all'esterno, nei rapporti con il resto del mondo che, nel caso più prossimo e stringente, si chiama Europa. Nei rapporti tra le generazioni. Nel modo di produrre ricchezze, nei criteri con cui dividere i sacrifici e le eventuali ristrettezze. Nella concezione della società, dalla protezione della legittima ricchezza e nell'assistenza alle ingiuste povertà. Nell'accoglienza dei lavoratori stranieri necessari al nostro sviluppo e nel diritto alla cittadinanza.
Insomma: chi siamo? Che Paese è e sarà, il nostro? Qualcuno l'ha detto? Qualcuno l'ha capito? A noi pare di no. E ci pare, appunto, che alla peggiore campagna elettorale della storia sia mancata proprio questa narrazione. Indispensabile, perché possiamo realizzare solo ciò che sappiamo immaginare.
E' prevalso l'interesse elettorale, com'era inevitabile nella caccia all'ultimo voto. Ma è prevalso anche il brevissimo respiro, l'incapacità totale di creare prospettive e di dare un ampio respiro all'idealità degli elettori. Domani, dopo domani al massimo. Di più non ci hanno detto, di più non abbiamo chiesto. In un mondo in cui i colossi, dagli Usa alla Cina fino alla Germania, provano e spesso riescono a progettare ciò che faranno dieci anni dopo, il nostro amore per l'immediato e il provvisorio è quasi una condanna. E chi ora si preoccupa di come eleggeremo il nuovo Presidente della Repubblica fra due mesi, ma non si chiede quanti saranno tra cinque anni i giovani disoccupati (oggi al 37%), aggiunge danno al danno.
Fulvio Scaglione