Con gli aiuti italiani sotto le bombe

04/06/2013
Bambini siriani nel campo profughi di Bab al-Salam (foto R. Gobbo).
Bambini siriani nel campo profughi di Bab al-Salam (foto R. Gobbo).

Bab al-Salam (Siria)

E' una strana sensazione entrare in Siria quando tutto ti dice di non farlo. Soprattutto la Farnesina, che ti ricorda che questo Paese non è tenero con i giornalisti. Infatti, dal 9 aprile non si hanno notizie dell'inviato della Stampa, Domenico Quirico, e del collega belga, Pierre Piccinin. Girano bande armate, sottolinea via sms il Ministero degli esteri, con nulla da perdere, pronte a rapire stranieri per scambiarli con un po' di quattrini.

In realtà, entrare non è difficile. Il confine turco si presta. Sembra che passino armi, miliziani ed esplosivi. I valichi tra la Turchia e la Siria sono tredici. Noi passiamo da Kilis, nell'Anatolia meridionale. Sono con i volontari dell'associazione italiana Time4Life, che porta oltre 1.000 chili di latte in polvere da distribuire nel campo profughi di Bab al-Salam, appena dopo il confine, e parecchi scatoloni di medicinali. Le guardie non si scompongono più di tanto. Per il timbro sul passaporto, basta qualche minuto. Poi, ci fanno aprire il portabagagli di una delle auto, ma sembra più un pro-forma.

Case distrutte dall'aviazione siriana (foto R. Gobbo).
Case distrutte dall'aviazione siriana (foto R. Gobbo).

Bab al-Salam sta appena al di là del confine. Alle spalle il cartello della Siria libera. Di fronte, 15mila persone, ammassate sotto tende donate dall'Alto Commissariato dei rifugiati, dalla mezza Luna Rossa di Doha, mentre i pasti vengono forniti da una Ong turca. E' gente arrivata da tutta la Siria, scappata ai combattimenti, speranzosa di andarsene in Turchia. Ma la maggior parte è priva di passaporto, perché Ambasciate e Consolati non funzionano da quando la guerra è cominciata. Chi se n'è andato è perché con i soldi si è potuto comprare un documento, oppure se n'è andato clandestinamente, di notte, rischiando, attraversando le zone minate. 

Le condizioni di vita al campo sono molto dure: non c'è alcun tipo di sistema idrico stabile o infrastrutture indispensabili, come le latrine; c'è una specie di dispensario, ma non sufficiente. D'altra parte, questo campo è sorto in maniera casuale, non c'è un'organizzazione governativa che se ne occupi. I medicinali che Time4Life porta due volte al mese sono un toccasana.Tuttavia, qui almeno un qualche tetto sulla testa la gente ce l'ha; è peggio per chi è fuggito nei villaggi e nelle campagne interne; lì davvero sono privi di tutto. Sono luoghi difficili da raggiungere anche per chi porta aiuti umanitari. Bab la-Salam è abbastanza tranquillo, ma poco lontano, ad appena tre chilometri, c'è A'zaz, una delle città più bombardate. 

E' spettrale. Sappiamo che bisogna passare velocemente. Ma la sorte decide diversamente; il furgone carico di medicinali si ferma, manca l'acqua nel radiatore. Stiamo lì, fermi, con lo sguardo all'in su, perché il pericolo viene dal cielo. L'aviazione siriana prende di mira indistintamente case, scuole e infrastrutture. Mezz'ora sembra non passare mai. La nostra guida è un ragazzo siriano, che studia in Italia, ma che non si tira mai indietro quando si tratta di portare qualcuno nel suo Paese. La sua famiglia combatte dalla parte dei ribelli. I suoi viaggi servono anche a tenere i contatti con i familiari e gli amici. Qualche cicatrice sul suo corpo mi dice che lui non è solo una guida. La sua familiarità con il territorio fa sì che la sua percezione del pericolo sia molto inferiore alla nostra. E' vero che questa è zona liberata, ma dalla strada, lungo la campagna, si vede una bella cortina di fumo, un fronte di almeno dieci chilometri. Si combatte ancora. 

Proseguiamo. La vita si sviluppa ai lati della strada. Incontriamo molti ragazzini. Ci osservano. Spesso sono seduti con in vendita bombole di gas, o pacchetti di sigarette. Ma incontriamo anche qualche adolescente con pantaloni verde militare e fucile sulle ginocchia; arruolati come sentinelle quando dovrebbero andare a scuola. E poi famiglie con bambini, vecchi, donne dentro le loro tuniche, alcune col volto coperto. 

Da A'zaz proseguiamo per Hayyan e poi Hreitan, due cittadine alla periferia di Aleppo.
Dappertutto macerie – non avevo mai visto prima gli effetti di uno scud -, condomini tutti uguali, crivellati di colpi, anneriti dal fuoco, con parti crollate sotto i bombardamenti, ma ce ne sono anche alcuni miracolosamente indenni. Superiamo senza difficoltà i posti di blocco dell'Esercito Siriano Libero; la nostra scorta di medicinali e la nostra guida sono un buon lasciapassare. 

La moschea del campo di Bab al-Salam (foto R. Gobbo).
La moschea del campo di Bab al-Salam (foto R. Gobbo).

Ad Hayyan riforniamo un altro dispensario. Madri e padri, con i bambini in braccio, fanno la fila, silenziosamente, per prendere il latte in polvere. Fuori, si forma un nugolo di ragazzini urlanti e festosi; per loro ci sono ciabattine colorate, ma uno degli adulti li zittisce. Non è il caso di farsi troppo notare. Proseguiamo per Hreitan, quartier generale degli anti-governativi. Mi dicono di non fotografare; temono che le immagini rivelino obiettivi per l'esercito regolare. Mangiamo con i membri del Syrian Team for progress and prosperity, un'associazione che cerca di far ripartire la vita nelle zone liberate. Approvvigionano le famiglie con le cisterne perché l'acqua non è potabile, garantiscono la scuola per i bambini e gestiscono una farmacia. 

Time4Life chiedono se non sarebbe possibile che l'Italia li aiutasse a realizzare una sala chirurgica. I medici ci sono. Hanno predisposto alcuni locali nello scantinato in modo che siano sicuri, ma non hanno denaro per acquistare le attrezzature. La presidente di Time4Life, Elisa Fangareggi, dice che ci rifletterà, dovrà sentire i soci e capire la fattibilità di questo progetto. I membri del Syrian Team sono sicuramente animati da buone intenzioni, ma realizzare una chirurgia qui, non sembra molto fattibile. Mentre pranziamo, cadono bombe. Non so dire quanto lontane, ma il rumore cupo delle deflagrazioni si sente perfettamente. Scherziamo, per esorcizzare la paura. 

Non c'è più tempo, bisogna rientrare perché alle 21 chiude la frontiera ed è meglio non lasciarsi sorprendere dalla notte in territorio siriano. Al ritorno, dentro un furgoncino lanciato a gran velocità, sentiamo ancora rumore di raffiche, esplosioni, c'è fumo... Siamo di nuovo al campo. Riesco a fare un altro giro. Viottoli polverosi e fognature a cielo aperto. La gente mi invita a entrare nelle tende, mi fa vedere i bambini, mi lascia scattare foto, mi offre tè o caffè,che cucina su un fuoco acceso bruciando copertoni e sterpaglie. Osservo meglio tutta quell'umanità dolente. Uomini e bambini hanno denti neri e marci perché mangiano, ma ovviamente non assumono tutte le vitamine necessarie. Una donna, gravida di nove mesi, dice che non sente più il bambino, probabilmente è morto. Non possiamo fare nulla, se non cercare di calmarla. Anche perché adesso dobbiamo proprio andarcene. Il sole sta tramontando. Il cielo si è fatto rosso. Sul campo veglia la moschea. 

Romina Gobbo

a cura di Fulvio Scaglione
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