Il giardino delle donne

In Afghanistan, a Kabul, c'è un luogo in cui il burka non è più segno di sottomissione

15/04/2010
Alcune ragazze di Kabul che partecipano al progetto "Il Giardino delle donne"
Alcune ragazze di Kabul che partecipano al progetto "Il Giardino delle donne"

A Kabul le contraddizioni non devicercarle: ti si parano davanticon tutta la loro sfrontatezza. Succede quando vedi una donna copertacon un burqa che maschera ogni particolare, la spersonalizza e la uniforma ai colori della città. Sotto, però, si intravedono delle scarpe elegantissime, taccoalto e camminata regale. Succede anche che il burqa non sia sempre strumentodi oppressione, ma che al contrariopossa rappresentare una protezione. Molte donne lo tengono nella borsetta e se la situazione si mette male o se devonoattraversare quartieri pericolosilo indossano per passare inosservate. Essere donna a Kabul significa conviverecon una società che non riconoscediritti, ma che per contrasto impedisce qualsiasi controllo fisico su una donna che indossi un velo. Check-point o aeroporto non c’è differenza, la donna passae nessuno controlla. Motivo per cui se è un uomo a indossare un velo per mascherarsida donna, magari con intentiterroristici, viene ucciso sul posto. Nessun processo, nessun tribunale.


A Kabul ci si può imbattere in qualsiasi tipo di bazar, mercatino o bancarella dove vendere burqa è una normalità, come da noi vendere canottiere. L’abito tradizionale solitamente blu può anche assumere colori diversi, o diventare unarredo per la casa, come il miniburqa copri bottiglie, per apparecchiare la tavola con eleganza. Contraddizioni econtrasti, libertà presunte e costrizionireali che viaggiano a braccetto per la città,inconsapevoli le une delle altre. Eppure anche a Kabul esistono posti in cui la vita sembra aver ripreso un corsoa noi più comprensibile. Il bene e ilmale, la libertà e la speranza hanno trovatomodo di mettere radici e personedisposte ad annaffiare il germoglio nascente. Nel centro di Kabul c’è un luogosingolare, si chiama il ”Giardino delledonne”. Dall’esterno niente di speciale: il solito cancello con le solite guardiearmate a controllare chi va e chi viene.Ma una volta varcata la soglia si capisceperché quel luogo sia tanto speciale.Dentro non ci sono armi, nessun filospinato, niente che ricordi ciò che fuoriè la norma. Ci si dimentica di stare inuna città devastata dalla guerra e si cominciaa passeggiare in un giardino vero. L’ingresso è consentito solo alle donnee ai bambini. Gli uomini qui, per unavolta, non comandano.

Burqa, velo, chador o hijab qui non significano nulla. Diventano un ornamento come un altro, ritornano a essere dei pezzi di stoffa colorata.Le donne sono libere di sostare, passeggiare, chiacchierare.Il “Giardino delle donne” è uno spazioaperto, ma anche il primo e unicoluogo in città dove si fanno veri e propriesperimenti di libertà. Cinquantadonne sono state scelte, dopo aver ottenutoil permesso delle famiglie, per lavorare nelle manifatture interne. Un edificio basso contiene una piccolaofficina di assemblaggio di lampade,un laboratorio di riparazione di telefonicellulari e uno per la lavorazione dellepietre da ornamento. La conquista più grande, però, non è rappresentata dal lavorodignitoso che svolgono. Nemmeno dallo stipendio che possono, in una minima parte, tenere per sé dopo averlo condiviso con la famiglia. Il vero successo è stato ottenuto quando ci si è resi conto che questa iniziativa stava cambiando la mentalità della gente. A un certo punto ci si è accortiche i mariti iniziavano e non temere il nuovo status delle loro compagne, persino a concedere loro di spendere isoldi che si erano guadagnate. Poi a cambiare atteggiamento sono state intere famiglie, cellule di società che pocoalla volta, giorno dopo giorno, sono riuscite a condividere un progetto al di là delle tradizioni, delle religioni, dell’opinionedi chi non era d’accordo.

Una giovane donna intenta a intagliare bellissime pietre blu spiega di essere arrivata lì quasi per caso, sfiduciata ecorrosa dalle difficoltà che comporta viverea Kabul. Poi i contrasti con la famiglia,le liti e la voglia di iniziare una nuovavita. Ora, dice orgogliosa: «Sono ingrado di lavorare queste pietre preziosee vado fiera del mio lavoro. Non avrei mai pensato di poter arrivare a tanto, e di poter persino tenere per me parte dei soldi che guadagno». Qui la naturalezza e la spontaneità sonola norma, niente a che vedere conquanto accade poco fuori, di là dal muro.Nel piccolo bar del “Giardino” le donneprendono il tè con le amiche, ridono,scambiano opinioni sulla giornata e sullavoro. Il burqa è là, sulle sedie, o sollevatodietro la testa. Gli sguardi non sono puntati in basso come fuori, l’atteggiamentonon è remissivo e sottomesso, ma fiero e dignitoso. Il “Giardino delle donne” è un vero fiore nel fango di Kabul, una cittàsenz’alberi, misera e distrutta dalla guerra.

Ma ora la speranzaha messo radici, la libertà ha trovato modo di incunearsi tra le lamelle del filospinato. Ora deve solo allargare la propria influenza.Kabul è un luogo magicodove la buona volontà e lacostanza non restano terminiastratti. Possono diventaremattoni, classi, lavagne egessetti. È il caso del Pbk,acronimo per la scuola ProBambini di Kabul, un centrodiurno per bambini conritardo fisico e mentale. Il progetto nascenel Natale del 2001 quando GiovanniPaolo II lanciò un grido: i bambini sonoil futuro del mondo, salviamo i bambinidi Kabul. Da allora diverse congregazionireligiose hanno fatto confluire iloro sforzi per buttare un salvagentenel mare di naufraghi della capitale afghana.Oggi quattro suore e diverse insegnantitengono vivo il centro e aiutanouna trentina di bambini con difficoltàa ottenere quel minimo di conoscenzache consenta loro di poter frequentarela scuola statale. I bambini vengonoaccompagnati alla mattina dalle famiglie,imparano l’alfabeto, mangiano insiemee giocano. Possono essere bambini,possono dimenticare quello che c’èoltre il muro della scuola.Suor Michela gestisce il centro con altretre religiose di diverse congregazioni.«Prendiamo tutto noi, facciamo laspesa e cuciniamo», ci racconta. «I soldatiprima volevano vedere i permessiogni giorno; ormai però la gente ha imparatoa conoscerci», aggiunge la religiosa,«e si fidano di noi». Di nuovo, il cambio più importantenon è avvenuto con i mattoni, con i fucilio con il denaro. Il punto di svolta è statala fiducia, la costanza.

«La mentalità delle famiglie è cambiata», prosegue suor Michela; «prima alcune non riconoscevano i loro bambini disabilicome tali, e quelli con difficoltàerano destinati a peggiorare la loro situazione.A volte non venivano a prenderlia scuola, erano trascurati oltreogni misura. Oggi può succedere chesia il fratello grande che viene a prenderela sorellina, o la famiglia insieme». La costanza di queste quattro suoreha influito più che mille discorsi. Il fattoche l’intero Paese sia gestito secondoi dettami della religione musulmana è un dettaglioche ormai la gente non consideranel caso del Pbk: lesuore hanno fatto breccianei cuori, nell’animo di chibasa i propri rapporti sullafiducia tra le persone.I bambini al Pbk sonocontenti, adesso sono bambiniveri in una città di piccoli uomini e donne costrettia diventare granditroppo in fretta.

Stefano Fumagalli
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