Reportage, tra i segregati di Gaza

Le macerie delle bombe di novembre sono ancora tutte là. Ora è tregua, si vive "sospesi". Ma i confini sono sempre sigillati, l'acqua salata, la luce due ore al giorno. In attesa...

10/02/2013
Uno dei palazzi distrutti di Gaza city (Foto Siccardi-Sync).
Uno dei palazzi distrutti di Gaza city (Foto Siccardi-Sync).

Striscia di Gaza

La foto è piccola. Ed è tutto ciò che resta di loro. Hanaa Abou Zoor, la mamma, la mostra in silenzio. Era la metà di novembre, «l’ultima guerra», come dicono qui. Quella precedente è stata due anni fa: “Operazione piombo fuso”. Un primo schianto. La paura, la confusione, il parapiglia. Tutti a correre lungo le scale.

La famiglia Abou Zoor, numerosissima come sono tante famiglie palestinesi, si precipita fuori. È il missile d’avvertimento, quello piccolo, lanciato da un drone, i velivoli senza pilota che costantemente sorvolano e sorvegliano la Striscia di Gaza. Entra dal tetto e buca tre piani su quattro. Sapevano di avere due minuti, forse tre. Dopo, sarebbero arrivati gli F-16, i caccia israeliani e avrebbero raso al suolo la palazzina.

Dove vai in tre minuti? Una parte della famiglia raggiunge degli altri parenti. Il resto si rifugia dai vicini di casa. Troppo vicini. Quando sono calati i caccia, le esplosioni hanno devastato anche quella casa: quattro morti, il più grande 21 anni, il minore un bambino di 4. Fra i 36 abitanti della palazzina, altri 12 sono rimasti feriti, fra cui Foade, ancora in ospedale per la ferita alla testa e la conseguente semiparalisi.

«In altri casi», racconta il fratello di Hanaa, «l’arrivo dei missili veniva preannunciato da un Sms: “Evacuate l’abitazione. Tra pochi minuti bombardiamo”». La piccola Hannady, 13 anni, nonostante i pesanti segni sul viso e sul corpo, non ha perso il sorriso né la voglia di raccontare che sta imparando a suonare il pianoforte. Lei è stata investita da schegge e calcinacci: fratturata la mandibola, rotte entrambe le braccia, tre profonde lacerazioni al petto. Cinque interventi chirurgici l’hanno rimessa in sesto. Ma le cicatrici al viso saranno il perenne ricordo di quella tragica notte.

«In caso di bombardamenti di solito la gente scappa. Qui che fai? Gaza è ermeticamente chiusa da tutti i lati. Siamo come topi in trappola», racconta Yousef. Ha moglie e una bambina di due anni. La figlia è nata in Italia, perché la giovane coppia ha vissuto tre anni nel nostro Paese. Poi sono rientrati, per non essere esuli a vita. «Ma dopo la pioggia di missili di novembre non siamo più tanto sicuri di aver fatto la scelta giusta», dice.

La Striscia di Gaza è un rettangolo di 40 chilometri per 10. Un fazzoletto di terra. Basta mezz’ora di auto per vedere gli effetti delle centinaia di missili: le rovine della casa degli Abou Zoor sono a Zeytoun, verso il valico di Herez a Nord; è rasa al suolo la casa del Comune, a Beit Hanoun. A Gaza city sono diversi gli edifici distrutti. Tante le stazioni di polizia e del Governo di Hamas, il movimento politico militare che controlla la Striscia. Ma anche case private, tante, nonostante la precisione delle bombe “intelligenti”. La famiglia Dalu è stata sterminata: nove vittime, tra i 6 e i 65 anni. Al posto della casa c’è un enorme cratere. Nei giorni peggiori il tiro a segno avveniva su qualsiasi cosa si muovesse.

All'ingresso della Striscia, il cartello recita: "Benvenuti a Gaza" (Foto Siccardi-Sync).
All'ingresso della Striscia, il cartello recita: "Benvenuti a Gaza" (Foto Siccardi-Sync).

«Vedi, noi siamo sotto assedio politico, prima di tutto», continua Yousef. «La mia famiglia viene da Ashkelon, appena dopo il confine di Herez. Ma io non ci ho mai messo piede, né là né in alcun altro luogo di Israele. Per venire in Italia sono passato dall’Egitto. Quello che ci stanno rubando, dopo 60 anni da rifugiati, è il bene più prezioso che abbiamo: l’identità. Tutti gli altri hanno un luogo all’interno del quale vivono. Noi dobbiamo mantenere viva la patria dentro di noi».

Luogo simbolo di che cos’è oggi Gaza è il valico di Herez, che somiglia più a un carcere di massima sicurezza che a una frontiera. Per passare, dopo i controlli asfissianti, le domande aggressive dei soldati, i tornelli e i cancelli elettrici, si entra nel cosiddetto “tunnel”. In realtà, un camminamento di un chilometro, che attraversa la terra di nessuno, ossia quella fascia di territorio qui chiamata buffer zone, dove, se un palestinese si inoltra, gli israeliani sparano. Un chilometro tutto intorno a Gaza, che costituisce il 34 per cento della terra coltivabile e pascolabile di tutta la Striscia.

Nel tunnel si cammina, trascinando la valigia, nel silenzio irreale. «Ecco, eravamo più o meno qui», racconta Ludovica Socci, di Oxfam Italia. «Hanno cominciato a sparare su qualcuno che aveva violato la buffer zone. Un ragazzino, che forse si era inoltrato a raccogliere rottami di ferro e di cemento, materiali quantomai preziosi perché le importanzioni sono estremamente difficili».

Ludovica, da pochi mesi a Gaza, si è gettata a terra, mani sulla testa, ad aspettare che finisse. È successo poche settimane fa. Un episodio quasi ordinario qui. Benvenuti a Gaza.

In Palestina e nella Striscia il team di Oxfam Italia non si concede riposo. Oltre a Ludovica, lavorano Matteo Crosetti, Marco Ricci, Umiliana Grifoni, Cinzia Massaro e altri. «I loro interventi tanto incisivi li rendono tra i partner più importanti delle realtà locali palestinesi», come dice Abu Bashar, direttore di Uawc, l’ente che si occupa di sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento. «Ci viene impedito il pascolo e la coltivazione», dice Bashar, «perché nella buffer zone ci sparano. Beviamo acqua salata, perché gli israeliani hanno intercettato i tre corsi d’acqua che entrano nella Striscia. I 3.600 pescatori non ce la fanno a sopravvivere, perché le navi da guerra ci cannoneggiano se andiamo oltre 6 miglia dalla costa (gli accordi di Oslo avevano fissato il limite a 20 miglia). L’energia elettrica c’è sì e no cinque o sei ore al giorno. Questa è la vita quotidiana a Gaza».

I progetti traducono in realtà l’ostinata voglia di resistere. Così gli interventi dei veterinari e la distribuzione di foraggio agli allevatori palestinesi e beduini, programmi di Oxfam finanziati da Echo, l’Agenzia europea per l’aiuto umanitario. Così le cooperative di donne che producono formaggi. Così, ancora, i progetti di riciclo delle acque grigie usate per irrigare, perché – come sottolinea Bashar – «l’85 per cento dell’acqua potabile è controllata dagli israeliani».

«L’unico modo per contrastare l’assedio militare ed economico», spiega Ludovica, «è sostenere l’economia e creare sviluppo».

I tramonti di Gaza sono spettacolari. Al porto, il sole basso infuoca il cielo e colora di viola il mare. Un gruppo di pescatori si scalda intorno al fuoco tra la sabbia, mentre altre imbarcazioni rientrano dopo la giornata in mare. I nostri bambini, a scuola, farebbero dei bei disegni con queste istantanee di vita quotidiana. I piccoli palestinesi, invece, disegnano soldati israeliani, ruspe che abbattono case, donne che piangono accanto a dei reticolati. Qui è difficile immaginare la pace.

Luciano Scalettari
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