Il lavoro minorile è sfruttamento

Save the children e Associazione Bruno Trentin presentano i dati provvisori dell'indagine "Game over": in Italia oltre 260mila under 16 coinvolti

11/06/2013

Sono più di 1 su 20 i minori sotto i 16 anni coinvolti nel lavoro minorile in Italia: il 5,2% della fascia 7-15 anni per un totale di circa 260mila giovani. È la prima fotografia scattata da "Game over", indagine condotta da Save the children e Associazione Bruno Trentin e presentata oggi a Roma alla presenza del ministro del lavoro e delle politiche sociali Enrico Giovannini, del sottosegretetario all'istruzione Marco Rossi Doria, del segretario della Cgil Susanna Camusso. Già, perché oltre a chi un lavoro non ce l'ha, in Italia c'è anche il problema di un lavoro ce l'ha ma non dovrebbe averlo: ragazzi sfruttati, "costretti" a lavorare per "paghe" ridicole, senza alcuna tutela o garanzia.

Si tratta di un quadro disarmante: sono almeno 30mila i 14-15enni a rischio di sfruttamento. E il sistema non li aiuta. Provengono da famiglie disastrate, rassegnate al peggio nella migliore della ipotesi. Ragazzi di strada, di fatto. Abbandonati a un destino contro cui un Paese civile dovrebbe impiegare ogni risorsa possibile per cambiarlo. Studi, divertimento, riposo sono soccombono di fronte alla "necessità" di lavori pericolosi per la salute, la sicurezza o l'integrità morale, spesso di notte o in modo continuativo.

Una prima mappatura del lavoro minorile in Italia ci consegna un Paese fortemente spaccato: al centro e al nord il rischio spazia da "molto basso" (e Roma e Milano) a "medio", al sud e nelle isole, diventa "alto" e "molto alto" con i picchi più alti in Sicilia e nelle province di Foggia e Vibo Valentia.

Secondo i dati del 2011, il 18% dei giovani tra i 18 e i 24 anni in Italia hanno conseguito al massimo il titolo di scuola media: si tratta di un tasso molto alto, soprattutto se confrontato con gli standard del resto d'Europa, e, si può dire, viaggia in parallelo con la diffusione del lavoro minorile.

Entrando più nello specifico, emerge come quasi tre ragazzi su quattro lavorano per la famiglia, aiutando i genitori nelle loro attività professionali (41%) o, comunque, dando il loro contributo nei lavori di casa (33%: ma questa "categoria" non è stata oggetto di analisi). Del rimanente 26%, c'è chi lavora per parenti e amici (12,8%) e chi invece è al servizio di "altri" (13,8%). 

Tre le esperienze lavorative più frequenti: ristorazione (18,7%), in qualità di baristi, camerieri, aiuto-cuoco, in pasticceria o in panificio ecc.; attività di vendita (14,7%), anche ambulanti, come commessi o come aiuto generico; attività in campagna (13,6%), dalla coltivazione al lavoro con gli animali. Seguono le attività artigianali (8,9%), l'intrattenimento di bambini estranei alla famiglia (4%), lavoretti d'ufficio (2,8%) e aiuto nei cantieri (1,5%).   

Quasi il 45% ha dichiarato di ricevere un compenso per le opere prestate, ma la percentuale si alza se l'attività è svolta in ambito familiare. 1 ragazzo su 4 che viene pagato lavora per altre persone. È curioso come nella percezione dei ragazzi l'esperienza lavorativa sia facilmente conciliabile con lo studio: solo il 23% lo considera stancante ma comunque fattibile e l'11 lo trova logorante al punto da trovarsi a dover scegliere il lavoro quando la fatica diventa insopportabile. Per il 65,5%, non c'è problema.

Considerando come pericolose le attività lavorative che vengono svolte nelle fasce serali e notturne (a partire dalle ore 20.00) e quelle continuative (che comportano l'interruzione o comunque interferenze con gli studi, non lasciano tempo libero per divertirsi e riposare), l'indagine rivela che corrispondono a queste condizioni circa il 15% dei 14-15enni che oggi lavorano: circa 30mila ragazzi sono a rischio sfruttamento

«Al di là dei numeri che descrivono un fenomeno non marginale e in continuità da un punto di vista quantitativo con gli ultimi dati che risalgono ormai al 2002, l’indagine mette in evidenza come la crisi economica in atto rende ancora meno negoziabili le condizioni di lavoro dei minori, esponendoli ad ulteriori rischi» ha dichiarato Raffaela Milano, Direttore Programmi Italia-Europa di Save the Children. «Dalle voci dei ragazzi raccolte con la ricerca partecipata, emerge il forte legame tra lavoro minorile, disaffezione scolastica e reti familiari e sociali, che si trasforma in una  vera trappola  quando l’opportunità di soldi facili arriva a coinvolgere i minori in attività criminali». 

E ancora: «Nonostante orari in alcuni casi pesantissimi, paghe risibili e rischi per la salute, come nel caso di chi lavora dalle 4 e mezzo di mattina alle 3 di pomeriggio con le mani nel ghiaccio per un pescivendolo ricavandone a mala pena 60 euro a settimana, la maggioranza dei minori raggiunti con la ricerca partecipata non ha la consapevolezza di essere sfruttata, e non sa nemmeno che cos’è un contratto di lavoro».

«Nell’indagine è stata ricostruita una mappatura delle aree a maggior rischio di lavoro minorile in Italia: il rischio più elevato è concentrato nel Mezzogiorno, ma non sono escluse zone del Centro-nord - ha dichiarato Raffaele Minelli, Responsabile Divisione Ricerca dell’Associazione Bruno Trentin - Il lavoro minorile è una misura del crescente disagio sociale che le politiche restrittive del welfare hanno prodotto, in concomitanza con l’ampliamento dell’area della povertà, delle attività irregolari e in nero e della scomparsa di migliaia di piccole aziende.  

«Abbiamo accolto con soddisfazione l’iniziativa di questa indagine che ha raccolto intorno ad un tavolo, insieme all’ILO, diversi attori istituzionali e non, e ci auguriamo che rappresenti l'inizio di un dialogo sociale sul tema specifico del contrasto allo sfruttamento del lavoro minorile in Italia - ha dichiarato Lorenzo Guarcello, Senior Statistical Analyst dell’ILO, a nome del Comitato Scientifico che ha supervisionato l’attività di ricerca - Incoraggiamo governo e parti sociali, ad utilizzare e a perfezionare questa buona pratica metodologica in vista di un monitoraggio statistico del lavoro minorile regolare e continuativo a livello nazionale, anche per facilitare l’adozione di un piano per monitorare e combattere il fenomeno, come previsto dalla Convenzione n. 182, che l’Italia ha sottoscritto impegnandosi ad adottare un piano d'azione “con procedure d’urgenza"».


Alberto Picci
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