SE NE DISCUTE IN PARLAMENTO/L'audizione Istat e il mutamento di scenario socio-familiare

05/05/2025

Il primo aprile 2025 la Commissione parlamentare d'inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica ha avuto un importante confronto con l’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT). La seduta, presieduta dall’onorevole Elena Bonetti, ha presentato una situazione demografica estremamente preoccupante, ma offrendo allo stesso tempo dati e strumenti molto importanti per comprendere le complesse dinamiche in atto in Italia. I dati raccolti costituiscono non solo uno strumento essenziale per l’analisi demografica, ma anche una “base conoscitiva solida per il contrasto alle disuguaglianze territoriali e la gestione sostenibile delle migrazioni”.

         Il presidente dell’Istituto Francesco Maria Chelli ha inquadrato la complessa dinamica demografica italiana lungo tre direttrici fortemente interdipendenti. La prima riguarda il miglioramento della speranza di vita, in ripresa dopo i difficili anni della pandemia. Un dato che, però, va valutato in relazione ad altri fenomeni paralleli e opposti per certi versi.

         La seconda direttrice, infatti, riguarda il profondo calo della natalità che caratterizza il Paese ormai da diversi anni. Nel 2024 si sono registrate meno di 370 mila nascite, con una fecondità media inferiore a 1,20 figli per donna, una delle più basse in Europa. Questo declino rappresenta una tendenza generalizzata, ma allo stesso tempo è ulteriormente aggravato dalla riduzione del numero dei genitori potenziali. A sostegno di questo basti osservare che le donne considerate in età riproduttiva sono passate da oltre 14 milioni nel 1995 a circa 11 nel 2025. Il calo della natalità non può essere valutato indipendentemente dal contesto economico e sociale in cui vivono le nuove generazioni. In particolare, i fattori che maggiormente contribuiscono al calo delle nascite sono l’allungarsi dei tempi di formazione e di uscita dal nucleo familiare di origine da parte dei giovani, le loro difficoltà nel trovare un lavoro stabile, il problematico accesso al mercato abitativo e, non ultima, la scelta volontaria di rinunciare o, comunque, posticipare il voler diventare genitori.

Il caso italiano non è comunque isolato all’interno del panorama europeo. Persino i Paesi considerati più fecondi come la Francia sono coinvolti in questa tendenza demografica tanto che si può parlare di una “terza transizione demografica” (la prima, determinata dalla rivoluzione industriale tra il XVIII e il XIX secolo, fu caratterizzata da un aumento della longevità e da una diminuzione del tasso di mortalità; la seconda, descritta negli anni ’80, vide un forte calo del tasso di natalità; la terza transizione, invece, è contraddistinta da una bassa fecondità e da popolazioni tendenzialmente in decrescita, se non per il contributo positivo delle migrazioni internazionali).

La terza direttrice concerne l’analisi delle dinamiche migratorie, le quali rappresentano un fenomeno altrettanto delicato in grado di influenzare l’equilibrio demografico. Tra il 2014 e il 2024 l’Italia ha registrato oltre 1,2 milioni di espatri a dispetto dei 573 mila rimpatri, con un saldo negativo pari a 670 mila unità. Il fenomeno migratorio è rilevante anche per effetti che riguardano le trasformazioni strutturali del Paese in riferimento, da una parte, alla mobilità nazionale che contribuisce a ridefinire la distribuzione della popolazione con effetti sull’urbanizzazione del territorio e, dall’altra, alla grande affluenza di immigrati dall’estero (circa 400 mila tra stranieri e italiani di rientro nell’ultimo anno) che contribuiscono alla diversificazione culturale del Paese. Particolarmente allarmante è il fenomeno della cosiddetta “brain drain”: nell’ultimo decennio, gran parte degli emigrati aveva tra i 25 e i 34 anni, la maggior parte dei quali era in possesso di un titolo universitario. Questo processo, che colpisce soprattutto il Mezzogiorno, ha particolare rilievo per la dimensione economico-sociale perché l’erosione di capitale umano riduce la capacità di sviluppo e crescita del Paese.

Il presidente dell’Istituto ha poi presentato tre scenari previsionali futuri: uno favorevole, uno mediano e uno meno ottimistico. In ognuna delle tre ipotesi, la popolazione italiana è destinata a diminuire seppure nel contesto di scenari economici e sociali differenti. Per fare un esempio, la previsione intermedia prevede un calo di 439 mila individui tra il 2023 e il 2030; mentre, tra il 2030 e il 2050, la diminuzione della popolazione risulterebbe più accentuata (da 58,6 milioni attuali a 54,8 milioni); entro il 2080, la popolazione scenderebbe a 46,1 milioni, diminuendo di ulteriori 8,8 milioni rispetto al 2050.

La terza transizione demografica non rappresenta solo un processo di mutamento delle caratteristiche della popolazione, ma ha implicazioni sociali ed economiche estremamente rilevanti. Il progressivo squilibrio tra popolazione attiva e inattiva comporterà un aumento considerevole della spesa in ambito sanitario, previdenziale e assistenziale con possibili ripercussioni negative sulle risorse da destinare alle famiglie con figli e sulla già scarsa mobilità sociale e intergenerazionale che contraddistingue il nostro Paese. Le dinamiche sociodemografiche determineranno complessivamente un aumento del numero di famiglie. Tuttavia, questo aumento sarà legato in larga misura all’incremento delle famiglie “senza nuclei”, cioè composte da persone conviventi ma senza legami di coppia o parentali  (+16%), e delle famiglie monocomponente (micro-famiglie). Le famiglie con nuclei (composte invece da persone coabitanti legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o affettivi), invece, sono destinate a diminuire. L’invecchiamento della popolazione legato all’aumento della speranza di vita, genera infatti, un maggior numero di persone sole, il prolungato calo della natalità incrementa il numero di persone senza figli, mentre l'aumento dell'instabilità coniugale e il maggior numero di scioglimenti di legami di coppia determinano un numero crescente di individui soli e di monogenitori.

Questi dati dimostrano che i processi demografici in atto determinano forti mutamenti nella struttura complessiva del Paese, generando effetti di vasta portata che si traducono in un circolo vizioso autoalimentato, il quale rende sempre più arduo, se non impossibile, invertire la rotta. La Commissione parlamentare ha manifestato grande preoccupazione per la gravità della situazione, sottolineando l’importanza fondamentale dell’ISTAT nel fornire dati scientifici e attendibili, così come la necessità di un maggiore coordinamento tra istituzioni per la messa in pratica di politiche in grado di fronteggiare quella che è stata definita come una vera e propria emergenza nazionale.

         In ultima analisi, i dati raccolti portano a riflettere sulle condizioni generali del benessere della società perché mettono in evidenza il forte legame esistente tra aspetti quantitativi e qualitativi della realtà sociale. Il progressivo ridimensionamento della popolazione nazionale è accompagnato, infatti, da un processo di miniaturizzazione dei legami sociali primari. La trasformazione delle caratteristiche strutturali della popolazione non produce solo cambiamenti demografici, ma ha profonde conseguenze sull’economia, sui rapporti intergenerazionali e sullo stesso senso di appartenenza alla comunità.

La difficoltà principale che è stata rilevata, ma forse non messa sufficientemente a tema, riguarda il carattere sistemico della terza transizione demografica. Quest’ultima non è un fenomeno unitario, ma una crisi complessa che riguarda l’intreccio di più fenomeni interconnessi. I dati relativi al calo della natalità, all’invecchiamento della popolazione, all’emigrazione giovanile non possono essere trattati separatamente, né possono essere interpretati attraverso spiegazioni unilaterali. Ogni tentativo di spiegazione univoca appare riduttivo e inefficace; perciò, l’ipercomplessità – per usare un’espressione del filosofo Edgar Morin – che caratterizza questi processi rende difficile pensare e individuare soluzioni tecniche o settoriali. È importante, quindi, ripensare radicalmente non solo il rapporto tra decisioni istituzionali e architettura sociale e culturale che sostiene i percorsi di vita delle nuove generazioni, ma anche saper individuare quale è l’obiettivo principale verso cui far confluire le scelte politiche per affrontare la crisi demografica nel migliore dei modi.

 

Approfondimento a cura di

Carmine Marcacci, laureato in Filosofia e Forme del Sapere, dottorando in Economia Civile con la Borsa di studio "Economia Civile, Famiglia e Natalità” Lumsa-Cisf

 

 


 

 

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