20/10/2021
James Suzman, Lavoro. Una storia culturale e sociale, ilSaggiatore, Milano 2021, p.378, € 36,00
“Lavoriamo per vivere e viviamo per lavorare”, cita James Suzman nell’introduzione a questo straordinario saggio che guarda le prospettive dell’uomo nell’ambito del lavoro da un punto di vista del tutto originale, quello del nostro “destino antropologico”. Siamo davvero geneticamente legati al lavoro, come dimensione di senso della nostra esistenza? Era così anche in era primitiva? Quali rivoluzioni hanno cambiato il nostro rapporto con il lavoro, dall’epoca della caccia/raccolta?
Non sono domande di poco conto, che Suzman – antropologo sudafricano direttore di Anthropos, una piattaforma che applica i metodi antropologici alla soluzione delle problematiche sociali ed economiche contemporanee – affronta con uno sguardo diacronico, partendo dalla situazione che viviamo oggi, che ha tutto il sapore del controsenso.
Nella nostra epoca l’automazione dovrebbe in qualche modo alleggerire, semplificare e fornire maggiore tempo libero all’essere umano. In realtà, questa rappresenta da un lato una (grave) preoccupazione per tutti i lavoratori le cui funzioni saranno affidate a intelligenze artificiali (per non parlare degli abitanti di luoghi - spesso poveri - nel mondo in cui l’alleanza tra tecnologie di frontiera e capitali genera ben pochi posti di lavoro). Dall’altro lato, tutti coloro che possono ancora in qualche modo “restare in sella” e avere un posto nei processi di produzione e di servizi del sistema economico mondiale non lavorano affatto di meno. Anzi: la maggior parte di noi, sottolinea l’autore, continua a lavorare quanto i nostri nonni e bisnonni, e lo sguardo dei nostri governi rimane fisso sulla crescita economica, mentre i fondi pensione scricchiolano sotto il peso di una popolazione sempre più anziana, a cui si chiede di lavorare quasi dieci anni di più rispetto a mezzo secolo fa.
Nonostante i progressi senza precedenti, anche nei paesi più avanzati del mondo si muore letteralmente di lavoro. Come può essere? In qualche modo, spiega Suzman, noi (e i nostri governi) abbiamo fondato il nostro rapporto con il lavoro sulla visione keynesiana della scarsità, per cui lavoriamo per ridurre il divario tra i nostri desideri infiniti e le risorse limitate.
Questo, evidentemente, alla lunga non sarà un approccio sostenibile. Ma la chiave per vivere bene, al di là della necessità di moderare le nostre aspirazioni materiali, non è facile da trovare. Da più parti si avverte il bisogno di un cambiamento di sistema, confermato da proposte e interventi sempre più influenti che si indirizzano su modelli di “postcapitalismo” (reddito universale, tassazione della ricchezza anziché del reddito, estensione dei diritti fondamentali anche agli ecosistemi e agli habitat e molto altro).
Le strade possibili sono tante, dice l’autore, ma resta un fatto straordinario, dal punto di vista antropologico: il nostro rapporto con il lavoro è essenziale, ci ha definiti fin dall’inizio dei tempi, ha messo insieme la nostra infinita abilità e l’intenzionalità, ci permette di trovare soddisfazione individuale e sociale, ci offre oggi la possibilità di far leva su questo enorme potenziale per plasmare il nostro destino, superare le vecchie logiche per combattere l’egoismo e le disuguaglianze.
(Benedetta Verrini)