18/04/2012
“Ho dedicato più tempo a organizzare il mio matrimonio che non ad essere felicemente sposata”, racconta una donna di 32 anni al suo consulente matrimoniale. Prima del matrimonio, aveva convissuto 4 anni con il futuro marito, ma adesso sta cercando un avvocato per mettere fine alla loro storia.
Così inizia l’articolo della psicologa Meg Jay, dell’Università della Virginia, pubblicato questa settimana in prima pagina dal New York Times. La professoressa non è pro o contro la convivenza prima del matrimonio, non da giudizi morali, ma in quanto studiosa osserva i fatti.
Negli Stati Uniti le convivenze sono cresciute del 1500 % negli ultimi cinquant’anni. Attualmente, essa riguarda 7,5 milioni di coppie.
La maggior parte degli giovani fra i venti e trent’anni ha avuto almeno un’esperienza di convivenza con un partner, e più della metà dei matrimoni sono preceduti dalla convivenza.
Si è spesso pensato che questo cambiamento fosse un esito della rivoluzione sessuale, dei cambiamenti nel campo della contraccezione e dei vantaggi economici impliciti nella condivisione di bollette e spese varie.
Ma quando si parla con i giovani, dice Meg Jay, si avverte che spesso si percepisce la convivenza come una sorte di prevenzione del divorzio. Effettivamente due terzi delle persone intervistate durante un’indagine nazionale condotta nel 2002 vedeva la convivenza anche come “prevenzione”.
Ma i dati empirici non confermano questa ipotesi. Le coppie che convivono prima del matrimonio, e specialmente coloro che non sono stati fidanzati o “impegnati” formalmente, tendono ad essere meno soddisfatti del proprio matrimonio, e a divorziare più frequentemente che non le altre coppie.
Si tratta degli “effetti collaterali” della convivenza?
In un primo momento, i ricercatori tendevano ad attribuire questi effetti al fatto che presumibilmente chi convive ha idee meno convenzionali sul matrimonio e di conseguenza anche sul divorzio.
Ma ora che la convivenza è diventata la norma, gli studi mostrano che religione, educazione, idee politiche etc. da sole non spiegano gli “effetti collaterali” della convivenza, e che alcuni rischi sono forse impliciti nella convivenza stessa.
Se si chiede: ”Come siete arrivati alla convivenza?”, la risposta spesso è “ci siamo scivolati dentro, è successo. Stavamo un po’ da lui un po’ da lei, ci piaceva stare insieme ed era più conveniente dividere le spese”.
È quello che gli studiosi chiamano appunto “scivolare dentro” (sliding) invece che decidere (deciding).
Un processo lento, quindi, non segnato da riti quali fedi e cerimonie, e talvolta neppure in seguito ad approfondimento e dialogo.
I ricercatori hanno notato inoltre che i partner spesso hanno delle agende nascoste, perfino a se stesse, e diverse anche fra di loro. Per le donne spesso la convivenza rappresenta una tappa verso il matrimonio, mentre per gli uomini è soprattutto una prova della relazione, utile anche a ritardare impegni più profondi.
Questa asimmetria fra i sessi è collegato ad una comunicazione negativa e a bassi livelli di impegno.
“Scivolare dentro” in una relazione non sarebbe un problema, se“scivolarne fuori” fosse altrettanto facile. Ma così non è.
Spesso i giovani adulti entrano in quello che credono sia una situazione a basso rischio, a basso impegno, per poi trovarsi impossibilitati ad uscirne per mesi o addirittura per anni.
Nell’analisi dei comportamenti economici lo si chiama “mettersi sotto chiave”. Si tratta della decrescente possibilità di cercare, di cambiare, di scegliere opzioni diverse una volta che si è fatto un investimento.
Più grandi sono i costi dell’investimento iniziale, più difficile diventa muoversi verso situazioni nuovi, magari migliori.
Così, convivere può essere piacevole ed economico, e l’investimento sembra non troppo impegnativo.
Ascoltiamo ancora la giovane donna dell’inizio: “Mi sembrava di essere finita in una eterna audizione per valutare se potevo diventare moglie; avevamo tutte queste cose in comune, i nostri cani, gli amici, la famiglia. Tutto ciò rendeva davvero difficile rompere”.
Ci sono tanti giovani che vorrebbero non essere rimasti “intrappolati” in relazioni che sarebbero finiti in pochi mesi, se non avessero cominciato a convivere.
Una vita costruita sul motto del “forse” parte diversamente che non una vita costruita sul “vogliamo”.
Ultimamente, i dati sulla correlazione fra convivenza e “effetti collaterali” sembrano rallentare, e in una ricerca del 2010 (link) due terzi delle persone intervistate vedevano la convivenza come un passo verso il matrimonio. Questa visone di un impegno serio e condiviso potrebbe abbassare gli effetti collaterali di cui si diceva. Le convivenze continueranno ad esistere, ma i giovani possono fare qualcosa per proteggere le loro relazioni dagli effetti collaterali negativi. In questo senso, è importante che essi discutano delle motivazioni e dell’impegno reciproco fra di loro, prima e durante la convivenza.
Conclude Meg Jay: ”Non sono pro o contro, ma vorrei che giovani sapessero che “scivolare” in una convivenza può aumentare le possibilità di fare un errore. Un mio vecchio professore diceva spesso che il periodo migliore per lavorare su un matrimonio è prima che il matrimonio ci sia. Nei nostri tempi, questo potrebbe volere dire prima che inizi la convivenza”
Meg Jay è l’autrice del libro: The Defining Decade: Why you Twenties Matter- and How to Make the Most of Them Now.
Sintesi e traduzione Harma Keen