San Giovanni di Dio

12/10/2011

Una vita avventurosa, quella del fondatore dell’ordine ospedaliero dei “Fatebenefratelli”: Juan Cidade o Ciudad, nasce in un paesino del Portogallo, Montemor-o-Novo, nel 1503. A circa otto anni, seguendo uno strano personaggio – un “chierico” come lo definisce il suo primo biografo, Francesco De Castro – il ragazzino si allontana all’insaputa dei genitori per motivi rimasti ignoti: la mamma morirà di crepacuore senza aver saputo più nulla di lui, il padre rimasto vedovo si chiuderà in un convento francescano a Lisbona. Più tardi Juan viene accolto a Oropesa, in Castiglia, a circa 300 km dal suo paese natale, da un certo Francesco Cid, detto il “Mayoral”, cioè sovrintendente del bestiame di un signorotto locale. Lavora come pastore e in casa del padrone gli vogliono un gran bene, tanto che pensano di dargli in moglie la loro unica figlia. Ma il giovanotto, a 22 anni, non sembra inclinato per un legame stabile e nel 1523 parte volontario al seguito di una compagnia per difendere una zona pirenaica di confine occupata dai francesi. Poche settimane dopo, si fa rubare da un commilitone il bottino che il capitano, dopo una vittorioso contro coi nemici, gli aveva affidato. Condannato a morte per impiccagione, mentre ha già la corda al collo è salvato da un notabile che, conosciuta la causa della condanna, intercede per lui. Giovanni torna così a Oropesa ma otto anni più tardi, dopo aver rifiutato l’ennesima proposta di matrimonio, si arruola al soldo del conte di Oropesa diretto a Vienna per partecipare alla grande offensiva contro i turchi.

Al ritorno dalla vittoriosa spedizione, decide di tornare al paese natale, dove però è riconosciuto solo da un vecchio zio che gli racconta la verità: Giovanni ne è sconvolto, in preda ad una forte crisi interiore. Va a Ceuta, In Marocco, al seguito di un nobile decaduto e, per mantenere lui, la moglie e le quattro figlie, lavora come spaccapietre nel cantiere che erige le mura della città. Poi sbarca a Gibilterra e fa una confessione generale, quindi si improvvisa venditore di libri a Granada, a pochi metri dalla porta Elvira, la più importante della città. E qui nel 1538 (egli ha ormai 43 anni) avviene la svolta decisiva: durante una predica di Giovanni d’Avila, l’apostolo dell’Andalusia canonizzato da Paolo VI nel 1970, preso da un accesso di commozione si mette a urlare chiedendo perdono dei propri peccati, buttandosi a terra e strappandosi barba e capelli; poi fa a pezzi tutti i libri non religiosi, gli altri li dà via gratis. Il Maestro Avila, informato degli esiti del suo sermone, confessa Giovanni e intuisce che dietro questa apparente pazzia c’è il segno di Dio; diventa così la sua guida spirituale. Ma lo strano comportamento del Ciudad ne fa ben presto lo zimbello della gente, tanto che alla fine è considerato pazzo e ricoverato nel manicomio fatto costruire da re Ferdinando e lì, davanti al trattamento a cui venivano sottoposti allora i malati di mente – camicia di forza, letto di contenzione e frustate per calmare i nervi – dice: «Dio mi dia il tempo di avere un ospedale dove possa raccogliere questi poveracci e servirli come desiderio io».

Incoraggiato dal Maestro Avila, una volta dimesso dal manicomio, fonda il suo primo ospedale in via Lucena, dove oggi una lapide ricorda l’evento. Di giorno va in giro nei boschi a raccogliere legna, la vende e col ricavato cura i suoi poveri. Quello che manca lo chiede elemosinando con la celebre frase: «Fate bene, fratelli, a voi stessi per amore di Dio». E la gente gli dà generosamente, convinta di avere a che fare con un santo. Lui gira nei quartieri in cerca di straccioni, vecchi, moribondi; se li carica in spalla e li porta nel suo ospedale, dove li assiste con amore; sta al capezzale dei più gravi aiutandoli a morire cristianamente. Con la sua carità senza limiti, arriva dovunque c’è umanità sofferente; entra anche nei postriboli e, a tu per tu con le prostitute, parla loro di Dio e le converte. Una mattina il vescovo di Tuy, presidente della Cancelleria reale di Granada, gli suggerisce l’abito da indossare (un paio di calzoni grigi con sopra una tunica) e gli dice: «D’ora in poi ti chiamerai Giovanni di Dio». Ormai l’edificio di via Lucena non basta più e un gruppo di benefattori gliene compera uno più ampio, nei pressi dell’Alhambra: Giovanni vi trasferisce i suoi poveri, a cui non fa mancare nulla, forte dell’aiuto della Provvidenza e della generosità dei buoni.

Ed ecco, nel 1546, la svolta finale della vicenda, protagonisti tre personaggi: Anton Martin, Pedro Velasco e Giovanni di Dio. Il Velasco aveva assassinato il fratello di Anton, e questi era venuto a Granada per sollecitarne la condanna o per far giustizia di persona. Il Martin conosce Giovanni il quale, dopo un drammatico colloquio, lo convince a perdonare: il Velasco viene liberato e i due diventano incredibilmente le colonne dell’Ordine Ospedaliero dei Fatebenefratelli. Il 3 luglio 1549, durante un furioso incendio all’ospedale reale, il santo rischia la vita per salvare tutti i ricoverati e la città gli dice pubblicamente grazie.

Nel frattempo ha fatto un viaggio a Valladolid, per chiedere a Filippo II aiuti per la sua opera; e là ha scandalizzato la Corte rivolgendosi al Principe con queste parole: «Non saprei chiamarti con altro nome che quello di fratello in Gesù Cristo». Questi viaggi e le fatiche sostenute per i poveri lo distruggono lentamente. Ad affrettarne la morte sarà un suo gesto umanissimo: nel 1550 durante la piena del fiume Genil, egli si butta in acqua per salvare un giovane che era stato travolto dalla corrente, ma inutilmente perché il poveretto affoga. Il santo, tornato a casa, è colpito da una gravissima polmonite. All’arcivescovo che va a trovarlo mette in mano il libro contabile coi debiti, facendosi promettere che pagherà tutto. Poco dopo chiede di essere lasciato solo per un po’ nella stanza, si veste e, dopo essersi inginocchiato sul pavimento, muore stringendo fra le mani il crocifisso. In quella posizione, stecchito, lo troveranno un paio d’ore dopo i padroni di casa. Lascia ai suoi discepoli solo l’ospedale con 200 poveri: infatti non aveva fondato formalmente l’Ordine. Sarà san Pio V nel 1572 a dare la regola di sant’Agostino ai suoi discepoli, i quali sapranno imprimere all’opera un rapido sviluppo: dopo appena un secolo, i Fatebenefratelli gestiranno già 224 ospedali. Dal ‘600 ad oggi ne hanno fondato circa 650, contribuendo in modo rilevante al progresso sanitario di molti Paesi, in particolare della Spagna, del Portogallo, dell’Italia e dell’America Latina.

Una così imponente diffusione si spiega con l’ideale di dedizione totale proposto dal santo ai suoi seguaci, ma anche con le sue concezioni igieniche assistenziali, basate sul rispetto assoluto della personalità del malato: per questo Giovanni di Dio, secondo la celebre definizione dello studioso Cesare Lombroso, è considerato il «creatore dell’ospedale moderno». La Chiesa, dopo averlo canonizzato nel 1690, lo ha proclamato, insieme a san Camillo de Lellis, patrono degli ospedali e degli infermi (nel 1866) e patrono degli infermieri e delle loro associazioni (nel 1930). Oggi i Fatebenefratelli sono oltre 1500, disseminati nei cinque continenti e in più di 200 istituti assistono ogni giorno circa 40.000 tra malati, minorati fisici e psichici, anziani e minori abbandonati.

Angelo Montonati
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