Santa Clelia Barbieri

03/11/2012

Colpisce, in chi conosce per la prima volta questa santa, la più giovane fondatrice della Chiesa, come viene raffigurata: la mano destra alzata e gli occhi indicano il cielo, mentre la mano sinistra stringe al petto il Crocifisso. E poi quel volto giovane, perché Clelia Barbieri è morta a soli 23 anni, ma la fama della sua santità aveva già conquistato tanta gente.

Venne al mondo il 13 febbraio 1847 a Le Budrie, una frazione di San Giovanni in Persiceto presso Bologna. Il padre era un povero bracciante, la madre invece veniva da una famiglia ricca: questo matrimonio un po’ contro corrente era cementato dalla profonda fede cristiana di entrambi i coniugi.

Sappiamo poco dell’infanzia di Clelia, che all’età di otto anni perdette il padre in seguito ad una epidemia di colera e la famiglia traslocò in un casolare vicino alla chiesa parrocchiale e all’abitazione del maestro delle scuole elementari: questo consentì alla ragazzina di prendere qualche lezione nelle ore libere dal lavoro di filatrice e cucitrice e di imparare a leggere e a scrivere anche se non in maniera perfetta. L’8 giugno 1856 ricevette la Cresima e si sentì pervasa dal desiderio di farsi santa, chiedendo spesso alla mamma consigli su come riuscirci.

Alla prima comunione fu ammessa quando aveva solo undici anni (un’eccezione per quei tempi), con un fervore sicuramente superiore alla sua età: la sera prima si mise in ginocchio davanti alla mamma chiedendole perdono dei dispiaceri che poteva averle dato e passò la notte insonne, tutta compresa dell’importanza dell’evento: «Un Dio a me!» ripeteva, «Un Dio a me che sono così povera e miserabile!».

Da quel giorno  il Crocifisso e la Madonna Addolorata ispireranno la sua spiritualità. Sentendo crescere dentro di sé l’impulso a fare del bene al prossimo; cominciò dalle bambine più povere della parrocchia, che spesso venivano trascurate dai genitori impegnati nel duro lavoro dei campi.

Nella Chiesa bolognese, per combattere la noncuranza religiosa, specialmente tra gli uomini, vi erano gli “Operai della dottrina cristiana”; alle Budrie il gruppo era animato da un maestro molto anziano. Clelia volle essere anche lei Operaia della dottrina e sotto la guida del parroco, don Gaetano Guidi, suo confessore, si impegnò a di fare il catechismo ai bambini. Si accostava alla comunione tutti i giorni e si tratteneva in chiesa il più a lungo possibile nei momenti liberi dal lavoro.

Il suo esempio non passò inosservato e tre compagne, seguite spiritualmente dal parroco, si unirono a lei in questa attività: nei giorni di festa raccoglievano le bambine nell’oratorio annesso alla chiesa e le istruivano su come ricevere i sacramenti.

Clelia, nonostante la sua modestissima base culturale, sapeva esprimersi con tale efficacia che presto accorsero ad ascoltarla anche donne sposate e uomini. Di lei colpivano soprattutto la modestia, la semplicità e il luminoso sorriso che le meritarono il soprannome di “angioletto”.

Col passare del tempo cominciò anche ad assistere i malati poveri a domicilio, non vergognandosi di elemosinare per aiutarne le famiglie. Un giovane benestante se ne innamorò, e la mamma desiderava che Clelia lo sposasse anche per migliorare le condizioni precarie in cui versavano, ma lei aveva già deciso di consacrarsi al Signore e rifiutò questa e altre lusinghiere proposte, intensificando la preghiera e l’adorazione eucaristica accompagnata dalla meditazione sulla Passione di Cristo.

Si verificarono in lei anche degli strani fenomeni come svenimenti che duravano anche mezz’ora senza però che il volto impallidisse. In casa pensavano ad una malattia, ma in realtà si trattava di estasi.

Non mancarono però momenti di grande aridità spirituale quando la giovane ebbe la sensazione di avere ingannato col suo comportamento il parroco e le sue compagne, non provando più attrattiva per la preghiera e per i sacramenti.

Passata questa crisi, sopravvenne un attacco di tubercolosi, conseguenza anche della insufficiente alimentazione a causa delle ristrettezze familiari; le fu portato il Viatico perché pareva che per lei non ci fosse più nulla da fare, ma Clelia mentre don Guido le stava dando l’Unzione degli Infermi disse alla mamma: «Perché piangi? Stai tranquilla, questa volta il Signore non mi prende: vuole prima qualche altra cosa da me».   Infatti si ristabilì quasi subito e pensò di dar vita ad un “ritiro” in cui vivere insieme alle sue tre compagne; per questo si trasferì nella casa del maestro comunale che, rimasto vedovo, l’aveva lasciata libera.

Ad ostacolare l’iniziativa intervenne lo zio di Clelia, medico condotto del paese, il quale pensava che il “ritiro” non fosse altro che una «concentrazione di monache» e per questo sporse denuncia alla prefettura. Ma le autorità diedero il riconoscimento al ritiro perché presentava carattere laicale e aveva fini sociali. Così il 1° maggio 1868 Clelia e le compagne entrarono nella “Casa del maestro” dando vita a una famiglia religiosa che il cardinale Giacomo Gusmini in seguito chiamerà “Suore Minime dell’Addolorata” per la devozione della Barbieri per S. Antonio di Paola (fondatore dell’Ordine dei Minimi) e perché la Vergine Maria era veneratissima alle Budrie sotto questo titolo.

Il gruppo iniziale lievitò rapidamente e attorno ad esso anche il numero dei poveri, dei malati, idei ragazzi e delle ragazze da catechizzare e istruire. A poco a poco la gente vide in Clelia una guida e una maestra nella fede e cominciò, nonostante avesse solo 22 anni, a chiamarla “Madre”. Le difficoltà economiche erano gravi, ma Clelia sperava nella Provvidenza, nonostante le critiche di certi benpensanti che giudicavano lei e le compagne delle esaltate, e una visione annunciò che un benefattore le avrebbe aiutate. La santa aveva dato l’ordine di cominciare la pratica dei “tredici venerdì” in onore di san Francesco di Paola.

E proprio all’ultimo venerdì si presentò alla canonica un uomo con una lettera per il parroco da parte di Vincenzo Pedrazzi, un ricco proprietari di Anzola nell’Emilia il quale, avendo sentito parlare della povertà in cui viveva la comunità di Clelia, aveva deciso di aiutarla. Avuta conferma da don Guido dei bisogni più urgenti, egli mandò subito un carretto carico di derrate alimentari e promise, per riparare gli sbagli commessi in gioventù, che avrebbe mantenuto dodici suore qualora l’Istituto si fosse affermato. Manterrà la parola fino alla morte, sopraggiunta nel 1899.

Clelia purtroppo non vide il consolidamento dell’opera, essendo stata nuovamente aggredita dalla tubercolosi. Due giorni prima di spirare, si fece trasportare in una stanza predicendo che questa sarebbe stata presto trasformata in una cappella e disse alla mamma e alle sorelle che l’attorniavano: «State di buon animo perché io me ne vado in paradiso; sarò tuttavia sempre con voi e non vi abbandonerò mai».

Il 3 luglio 1870 morì santamente come era vissuta. I suoi funerali furono un trionfo di popolo. Nel primo anniversario della sua scomparsa le Minime capirono il senso delle sue ultime parole: infatti, in occasione del ritiro mensile nella stanzetta trasformata in cappella, mentre pregavano sentirono unirsi al loro una voce squillante, armoniosa, che echeggiava da una parte e dall’altra: era proprio la voce di madre Clelia; e da quel giorno il fenomeno si è ripetuto altre volte tra le sue figlie.

Il 27 ottobre 1968 Paolo VI beatificò la Barbieri e Giovanni Paolo II la canonizzò il 9 aprile 1989. La sua congregazione, sviluppatasi subito soprattutto per l’azione di madre Orsola Donati (serva di Dio, una delle prime compagne di Clelia., considerata la confondatrice), è presente oggi in Italia, in Tanzania e in India.

Angelo Montonati
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