15/04/2010
Può uno Stato, che si dice laico, usare simboli della fede per suggellare scelte non coerenti con il Vangelo (aborto, guerra)
in nome di un’identità culturale?
Lettera firmata
Per fare chiarezza, forse è bene distinguere
due problemi: se uno Stato
laico possa utilizzare segni religiosi, e
quanto siano credibili persone che parlano
di un’identità culturale fondata
sul cattolicesimo, e poi condividono
scelte poco coerenti con il Vangelo, e in
alcuni casi si autodefiniscono atei, ma
cristiani.
Non è facile dare un senso preciso
alla laicità e ai suoi contenuti.
Non
pochi pensano che esista una definizione
di laicità applicabile a tutti i Paesi europei,
dimenticando che ogni Paese ha
una sua storia e una sua cultura.
In teoria,
uno Stato laico non dovrebbe utilizzare,
all’interno delle sue strutture, segni
religiosi. In pratica, spesso questi sono
giustificati da lunghi processi storici,
che non si possono modificare in
tempi brevi. Questo significa che uno
Stato laico può anche ammettere che
vengano accettati segni religiosi, senza
pretendere di regolamentare tutto.
Il secondo problema è più chiaro:
sono troppi coloro che utilizzano la religione
in funzione dei loro interessi,
svuotandola dei suoi significati più importanti.
Non si tratta solo, da parte dei
legislatori, di ammettere, nelle leggi,
scelte non sempre coerenti con il Vangelo,
come l’aborto, il divorzio ecc.
Vi
sono casi in cui si è costretti a scegliere
il male minore, e proprio perché uno
Stato è laico, non si può chiedere ai legislatori,
anche se cristiani, di trasformare
in leggi dello Stato certi valori evangelici.
Ciò che invece è più discutibile è
che molti uomini politici rivendichino
un’identità cristiana la cui definizione è
inaccettabile, dal momento che sta a indicare
un semplice riferimento storico
e culturale, prescindendo da quei valori
evangelici che dovrebbero essere il
fondamento di ogni forma di cristianesimo.
Si tratta in altri termini di un cristianesimo
funzionale alla conservazione
del potere, e che prescinde dal
Vangelo: al punto che, come ricordavo,
alcuni non esitano a definirsi atei cristiani,
cioè inseriti in una storia e in una
cultura considerata cristiana ma che
prescinde dall’esistenza di Dio.
I sociologi inglesi definiscono tale
situazione con dei termini significativi:
una volta molti si dichiaravano credenti
senza appartenenza (credo in Dio
ma non mi dichiaro appartenente alla
Chiesa), oggi molti si dichiarano appartenenti
senza credenza (mi sento cristiano
e appartenente alla Chiesa che mi fonda
la mia identità, ma non credo in Dio). Si
tratta di un fenomeno in parte nuovo,
diffuso nella nostra classe dirigente. Mi
pare quindi che il problema, e l’inaccettabile
anomalia, sia questa seconda, più
che l’esposizione di simboli cristiani da
parte di uno Stato laico.
Nessuno di noi si sente un bravo cristiano,
tutti annunciamo la parola di
Dio, non la nostra. Vi è quindi qualcosa
che vale per tutti nella parola del Vangelo:
«Fate quello che dicono e non quello
che fanno». Di fronte a certi comportamenti
“privati” non molto esemplari,
qualche cattolico ha ricordato, per giustificarli,
proprio quella frase di Gesù. Ma
forse sarà il caso di ricordarci che Gesù
la utilizza parlando dei farisei.
Maurilio Guasco