Lavoro, via dai luoghi comuni

Al primo "Lunedì in famiglia" organizzato, tra gli altri, da Famiglia Cristiana, il sociologo Diotallevi ha parlato di giovani e lavoro. Sgombrando il campo da alcuni equivoci.

17/01/2012
Il sociologo Luca Diotallevi durante l'incontro moderato dalla giornalista di Telenova  Annamaria Braccini (a destra nella foto).
Il sociologo Luca Diotallevi durante l'incontro moderato dalla giornalista di Telenova Annamaria Braccini (a destra nella foto).

«Ci sentiamo spesso dire, o diciamo noi stessi, che oggi la situazione è peggiore del passato o che la colpa della crisi è della politica o degli imprenditori o, ancora, che se la famiglia fosse al centro della vita sociale le cose andrebbero meglio: bene questi sono luoghi comuni assolutamente inadeguati a spiegare la realtà in cui oggi viviamo e non ci fanno prendere coscienza della vera realtà delle cose». Il sociologo Luca Diotallevi ha aperto con queste considerazioni forti il primo incontro del ciclo dei “Lunedì in famiglia” dal titolo “Fare famiglia con il lavoro che non c’è. Giovani e lavoro” all’Auditorium Giacomo Alberione di Via Giotto 36 a Milano, organizzati da Famiglia Cristiana in collaborazione con la diocesi di Milano, il Centro Internazionale Studi Famiglia, le Acli e il Movimento Cristiano lavoratori.

Diotallevi, professore di sociologia all’Università di Roma Tre, vicepresidente del Comitato organizzatore della 46.ma Settimana sociale dei cattolici italiani che si è celebrata a Reggio Calabria nell’ottobre 2010, ha ormai un’esperienza trasversale dei fenomeni legati al mondo del lavoro: «Girando per le diocesi italiane spesso mi viene posta la domanda sull’attuale situazione italiana e credo che occorra essere schietti su alcuni punti, che diventano altrettanti luoghi comuni». Semplice il percorso fatto nella serata dallo studioso,  sfatare questi “luoghi comuni” sul lavoro e sulla società per capire come agire di fronte ai preoccupanti dati che vedono la disoccupazione giovanile (15-24 anni) in Italia attestata al 30%, cioè il doppio della media dei Paesi Ocse, e i giovani “Neet” (che non lavorano né studiano ma semplicemente “aspettano”) addirittura al 21% (il dato più alto dell’Ocse).

Una giovane impegnata in un call-center.
Una giovane impegnata in un call-center.

E allora via con i luoghi comuni, “dolce veleno” per giustificarci di fronte a una realtà altrimenti inspiegabile. Il “posto di lavoro sicuro“ è il mito degli italiani da sempre, un qualcosa che dovremmo derubricare in fretta: «Il posto di lavoro è un bene molto sofisticato che va creato, non esiste in natura», ha spiegato Diotallevi. «Più esso è stabile più è sofisticato perché è il risultato complesso di un’impresa che ha successo». Risultato: «Chiedere semplicemente il posto di lavoro significa affrontare la crisi in modo ingenuo o truffaldino: se vogliamo lavoro ci servono imprese che sappiano produrre qualcosa che  il mercato si aspetta».

Nessun diritto e nessuna soluzione a priori, dunque, ma una sola parola d’ordine: rimboccarsi le maniche. Un luogo comune, quello del posto di lavoro, che va rivisto, a partire dagli ambienti ecclesiali: «Soprattutto al Centro-Sud la posizione della chiesa di fronte alla crisi riflette un atteggiamento generoso ma non adeguato perché fa riferimento a un qualcuno che “deve darci il lavoro”», cosa che, ha ricordato il sociologo, «nemmeno la dottrina sociale della Chiesa intende in questo senso così semplificato». E qui scatta il secondo luogo comune: l’attesa che lo Stato si attivi per creare “posti di lavoro”. «La Dottrina sociale della Chiesa parla della dimensione plurale della società», ha precisato Diotallevi: «Il bene comune, e quindi anche il lavoro, è prodotto da diversi soggetti – imprese, famiglia, Stato, sindacati, partiti, etc – ma ciascuno con procedimenti diversi, con modalità che gli sono proprie». Conclusione: «Non possiamo rivolgerci alla politica per chiedere cose che sono fuori dal suo compito».

Tre giovani studentesse dell'Università Cattolica di Milano presenti all'incontro.
Tre giovani studentesse dell'Università Cattolica di Milano presenti all'incontro.

Altro luogo comune: “Oggi si sta peggio di ieri”. «Non bisogna ingannare i giovani», ha chiosato l’esperto. «Non stiamo peggio di ieri, il problema è che ci troviamo davanti a una grande prova data dal fatto che veniamo da 40 anni di errata cultura pedagogica, di adulti che inseguivano i giovani invece che educarli alla prova». Insomma, la crisi ci sta presentando il conto ma siamo senza allenamento alle difficoltà tipiche di questi momenti.

E qui il discorso travalica la sociologia e sfocia nella pedagogia: «Non abbiamo curato la formazione dei nostri giovani all’esercizio della responsabilità, abbiamo applicato un’educazione senza l’esercizio dell’autorità». La colpa ricade evidentemente su due soggetti, la famiglia e la scuola. «L’errore è stato quello di pensare che l’educazione sia solo trasmissione di realtà evidenti, che tutto sia spiegabile», ha spiegato Diotallevi, «invece il tirocinio ha bisogno di autorità e di autorevolezza, che non è dimostrabile ma che alla lunga si dimostra efficace». «Mettere i giovani al centro» rischia così di essere un fatale errore. «I  giovani vanno motivati, formati e messi alla prova con responsabilità. Una società che occulta la prova, la selezione con regole certe e la possibilità del fallimento non funziona».

Annachiara Desiderio e Gennaro Ferraioli del Progetto Policoro.
Annachiara Desiderio e Gennaro Ferraioli del Progetto Policoro.

Un altro luogo comune da combattere è quello del “familismo”, che segna decisamente la società italiana, cioè il prospettare il modello di società come “una grande famiglia”. «Parlare e pensare così significa mentirci», ha commentato Diotallevi, «non possiamo far funzionare tutta la società come la famiglia, perché la pluralità delle forme di aggregazione e di associazione è in sé un valore e significa che ogni soggetto ha regole proprie di azione con un solo obbligo comune: quello di collaborare nelle rispettive competenze, soprattutto tra il soggetto famiglia e il soggetto scuola». La famiglia, infatti, ha il suo specifico ruolo: «Ad essa è affidato il compito di educare la persona ad accogliere la vita, è palestra di libertà e di dialogo, è scuola a relazionarsi all’altro sesso. Ma sono funzioni chiaramente temporanee: una famiglia che non lascia uscire i suoi membri per generare nuove famiglie ha qualcosa che non funziona».

Anche la scuola ha il suo luogo comune da sfatare: il titolo di studio. «Il giovane italiano è abituato a considerare il titolo di studio come sicura caparra di un posto di lavoro e invece nel mondo del lavoro contano anche le capacità personali, la disponibilità alla mobilità sociale per rincorrere il posto stesso là dove si trova». E la scuola stessa ha, secondo il sociologo, due grandi punti di sofferenza: «La scuola deve tornare a essere palestra di responsabilizzazione per i giovani; occorre poi arrivare a una valutazione dei singoli professori per aumentare la qualità del loro insegnamento», ha spiegato il sociologo.

La serata è proseguita con la testimonianza di una giovane coppia di sposi, Annachiara Desiderio e Gennaro Ferraioli, membri del progetto Policoro, un percorso che, come ha detto Annachiara, «cerca di unire giovani, lavoro e Vangelo per un’azione sociale che, sperando non in “qualcosa” ma in “Qualcuno”, cerchi di creare lavoro attraverso un’impresa di successo, cambiando la mentalità sul lavoro dei giovani avendo sempre presente la vocazione territoriale dell’impresa».

Stefano Stimamiglio
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