Quel filo rosso tra il Vaticano II e il Papa

Gianni Valente: «L'interpretazione che vuole Ratzinger progressista da giovane teologo e conservatore da anziano Papa è schematica e riduttiva»."

15/02/2013
Un giovane Joseph Ratzinger al tempo del Concilio Vaticano II.
Un giovane Joseph Ratzinger al tempo del Concilio Vaticano II.

«Nessun Concilio, per quanto grande sia il suo impeto, può di per se portare il innovamento della cristianità. Esso è piuttosto il punto di partenza, l’impulso iniziale, che deve prolungarsi nella ordinarietà della vita cristiana quotidiana. Un concilio non porta da nessuna parte, se poi ognuno di noi non vive della fede, della speranza e della carità».

In questa citazione, che riflette il pensiero di Joseph Ratzinger, allora giovane teologo al culmine dell’esperienza conciliare, c’è senso del filo rosso del Concilio che attraversa l’intera storia del futuro Papa. Questa frase, sintetizza meglio di tanti complicati discorsi, secondo Gianni Valente, autore del saggio in uscita per San Paolo Ratzinger  e il Vaticano II, la posizione mai cambiata Joseph Ratzinger su quell’esperienza.


- Chi legge il giovane Ratzinger che traspare dalle sue pagine un po’ si sorprende, perché apparentemente si discosta dall’immagine esterna, più tradizionale che riformista, che molti hanno avuto del suo papato. E’ così?

«In effetti in questi anni è stato sport diffuso il gioco di ricercare la coerenza tra le posizioni onciliari del giovane teologo, consigliere molto ascoltato del cardinale Frings, e quelle di Benedetto XVI. Io direi è ovvio che ci siano stati cambiamenti e assestamenti, valutazioni riviste, perché è naturale che ciò accada nel corso degli anni, quando la realtà attorno cambia: un conto è la Chiesa degli anni Cinquanta in cui Ratziger cresce, un altro conto è la Chiesa post conciliare, un altro conto ancora è la Chiesa durante il papato di Wojtyla, ma mi pare lo sguardo di fondo di Ratzinger sia  rimasto fermo. La prospettiva secondo cui sia diventato da progressista conservatore, mi sembra schematica e riduttiva. Basterebbe leggere quello che diceva a proposito di conservatori e progressisti all’interno e al tempo del concilio: « Non ci sono  “conservatori” in ansia per la Tradizione e “progressisti” condizionati da pulsioni moderniste. Le cose stanno esattamente al contrario: sono quelli etichettati come “progressisti”, o perlomeno  «la parte prevalente di loro» che aspira a un «ritorno all’ampiezza e alla ricchezza della Tradizione cristiana». Essi ritrovano le sorgenti del rinnovamento da loro auspicato proprio nella «larghezza intrinseca propria della Chiesa».


- Questo sguardo si riverbera in qualche modo anche sull’ultima decisione del suo pontificato?

«In qualche modo mi sembra di sì. Lo sguardo che si evidenzia, seguendo Ratzinger in tutto il suo percorso alla luce del Concilio, illumina anche questa sua ultima decisione: il suo approccio alla Chiesa, anche prima del Concilio è sempre stato radicato nella convinzione che la Chiesa sia di Cristo, che sia Cristo a operare nella Chiesa e che la Chiesa non sia una questione di organizzazione o il prodotto di strategie ecclesiali. Se seguiamo questo filo rosso, nella vita del teologo, del vescovo, del cardinale, del Papa capiamo forse di più anche il momento finale, che sembra dire: stiamo tranquilli, vince Cristo, indipendentemente dalle persone che passano. In questo modo anche questa decisione, pur potenzialmente traumatica, può non essere percepita come destabilizzante. Ed è questo il concetto che attraversa tutto il suo percorso, anche nei singoli interventi di Ratzinger persino sui temi potenzialmente divisivi del Concilio».


- La liturgia, per esempio, quella per la quale Benedetto XVI è stato anche ritenuto riformatore da giovane teologo e tradizionalista da Papa?

«In realtà non c’è stata frattura tra un prima e un dopo. In fatto di liturgia Joseph Ratzinger ha sempre ragionato in termini di recupero dell’essenzialità, di sfrondamento dei sovraccarichi teatrali. È sempre stato favorevole all’uso delle lingue moderne perché il messaggio non riuscisse incomprensibile, ma non ha mai pensato che rivedere la liturgia volesse dire aprirla alla fantasia e che ogni sacerdote potesse liberamente manipolare per adattarla ai tempi. In questo senso dobbiamo leggere anche il fatto che non gli è mai dispiaciuta l’idea che il sacerdote fosse rivolto all’altare, ma non perché dovesse dare le spalle all’assemblea, quanto piuttosto perché non venisse messo in una posizione di protagonismo rispetto all’altare. Ma non è certo tra quelli che autorizzerebbero il ritorno della Cappa Magna».


- C’è stata, se non frattura rispetto al passato, una evoluzione nel modo di relazionarsi alla Curia romana?

«Di certo lo sguardo un po’ rigido, con cui da giovane sacerdote tedesco formato lontano dall’Accademia romana , guardava alla Curia ha avuto un’evoluzione. Stando tanto a Roma ha sicuramente smussato certi angoli, cominciando ad apprezzare di più una certa tipica magnanimità, un certo lasciar decantare le vicende. Se però come Curia intendiamo il luogo dei giochi di cordata, l’estraneità è rimasta. Io credo che in quarant’anni a Roma abbia ammorbidito certe rigidezze iniziali verso le accademie pontificie, aprendosi di più alla duttilità, alla flessibilità nella comprensione della anime diverse che stanno dentro la Chiesa, ma di sicuro non è mai stato uomo di Curia, se intendiamo con l’essere di Curia intendiamo l’espressione nella sua accezione deteriore».

 

 

 

 

 

Elisa Chiari
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