Saba: il mio canto con i Masai

L'artista italo-somala Saba Anglana ha visitato il Kenya con Amref. Da questo viaggio è nato il suo terzo album, "Life changanyisha", ovvero la vita ci mescola.

27/03/2012
Saba Anglana con alcune donne del Kenya, durante il viaggio con Amref.
Saba Anglana con alcune donne del Kenya, durante il viaggio con Amref.

Life changanyisha, la vita ci mescola. Così come si mescolano gli idiomi, inglese e somalo. Ai quali si aggiunge anche il kiswahili, nel terzo album di Saba Anglana, musicista, attrice e doppiatrice italo-somala. «La mescolanza», dice Saba, «è nel destino di ogni uomo che incontra l'altro, senza pregiudizi e senza barriere». Life changanyisha è scaturito da un lungo viaggio che la musicista ha compiuto in Kenya come testimonial della campagna internazionale 2012 "Stand up for African mothers" di Amref, organizzazione medico-sanitaria africana che gestisce 140 progetti in sei Paesi dell'Africa orientale: sei settimane tra la savana e Nairobi, a contatto con le comunità dei villaggi Masai e i ragazzini delle periferie della capitale.

Da questi incontri è nata l'idea di un racconto di viaggio in forma di musica: negli undici brani di Life chankanyisha Saba intreccia linguaggi e tradizioni musicali tipiche dell'Africa orientale, registrate sul campo, in presa diretta, dai cori dei Masai catturati in aperta savana al rap dei giovani delle periferie urbane, dalle voci dei Kayamba Africa, il più famoso gruppo vocale dell'East Africa, a quelle delle Bismillahi Gargar, collettivo femminile somalo, fino ai cori dei bambini della scuola di Olmapinu, sostenuta da Amref. Nata 42 anni a Mogadiscio da padre italiano e madre etiope, Saba vive in Italia da quando aveva 5 anni, è laureata in Storia dell'arte e ha recitato nella fiction della Rai La squadra. Il suo primo disco, Jidka (The line), è uscito tra il 2007 e il 2008 in tutto il mondo e riflette quell'incrocio tra culture che rappresenta il fondamento della sua ricerca musicale. Con il nuovo album, Saba parte ora per un serie di concerti in Italia: il primo sarà il 31 marzo a Bologna.

Saba, in viaggio in Kenya con Amref ti sei davvero mescolata con la popolazione locale, come recita il titolo del tuo album. Ci racconti?                

«In Kenya sono stata parte di una realtà caleidoscopica, che ogni giorno cambiava. E ho voluto dare un significato diverso a questo viaggio, grazie anche a Tommy Simmons, direttore di Amref, che è ancora più visionario di me. Credo che abbiamo dato al termine testimonial il significato vero di testimonianza, vissuta con gli occhi e con il cuore. E ho voluto restituire tutta l'energia ricevuta in quei giorni attraverso la musica. Il primo approccio di benvenuto degli africani avviene attraverso il canto e la danza. Quando incontravo le comunità dei villaggi loro mi accoglievano danzando, muovendosi, cantando e io rispondevo loro mettendomi a cantare a mia volta. Cantavamo in lingue diverse, ma ci intendevamo perfettamente. I canti per gli africani diventano anche strumento di consolazione e di esorcismo del dolore: attraverso la musica ci si può liberare dalla sofferenza, elevandosi dalla realtà avvilente. E quando ho ascoltato queste voci, in aperta savana ma anche negli slum di Nairobi, ho voluto coglierle e inserirle nel disco. I problemi da risolvere sono tanti ed enormi, ma il messaggio dell'album deve essere positivo».


Nell'album hai inserito anche la musica rap: espressione di una cultura giovanile che ormai è diffusa nelle città africane come nel resto del mondo. 

«Certo, se non lo avessi fatto non avrei realizzato un lavoro onesto e aderente alla realtà. Io stessa poi sono figlia, almeno in parte, della cultura rap e hip hop. Del resto non possiamo rimanere legati a una tradizione che va scomparendo. James, un ragazzo di 16 anni del sobborgo Dagoretti di Nairobi, ha cantato un rap, composto da lui, su una base di musica tradizionale che abbiamo registrato in uno dei villaggi visitati con Amref, cantata dalle voci degli anziani. Questa mescolanza tra rap e canti tradizionali è una realtà in Africa».


La vita ci mescola, non solo in Africa... E' un messaggio anche per l'Italia?

«Il mio album in questo senso ha un messaggio politico. In Italia e in Europa assistiamo a un tentativo continuo di definizione e affermazione delle identità. Ma sappiamo che la storia prosegue per cambiamenti, per incontro e scontro tra elementi opposti. La mescolanza è nella storia del passato e in quella del futuro. Chi si sente minacciato è un debole. Se ti mescoli non sparisci, scompari se ti isoli».


Vivi in Italia da quando avevi cinque anni. Ti sei mai sentita straniera qui?

«Mi sono sentita forse più straniera ad Addis Abeba, in Etiopia. E' un po' il destino di tutti noi che siamo a metà tra diverse culture: sentirci stranieri in ogni luogo e allo stesso tempo a casa dovunque. Secondo me, la chiave per sentirsi integrati è possedere un luogo, non essere posseduti. Non dobbiamo dimostrare di appartenere a un posto, dobbiamo appropriarci di un luogo e farlo diventare nostro, parte di noi. Credo che questa sia la prospettiva per sentirsi più italiani». 

Giulia Cerqueti
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