La 'ndrangheta? Si può battere

Parola del maresciallo Nino Maressa, fra gli uomini del Ros che catturarono il boss Giuseppe Morabito. «Ma la magistratura da sola non basta, serve più Stato»

28/10/2012
Nino Maressa, maresciallo dei carabinieri, con il libro scritto con Flavia Piccinni.
Nino Maressa, maresciallo dei carabinieri, con il libro scritto con Flavia Piccinni.

Quando con la sua squadra di carabinieri del Ros nel 2004 ha partecipato alla cattura di Giuseppe Morabito, il boss dei boss della ‘ndrangheta, con stupore si è trovato di fronte «un vecchio sdentato, che tremava di fronte a noi. Lo stesso mi è capitato con gli altri latitanti che abbiamo preso». Il maresciallo Nino Maressa si è raccontato in La mala vita (Sperling & Kupfer) «proprio per mostrare che gli ’ndranghetisti non sono superuomini e che lo Stato c’è e vince».

Ha scritto il libro Flavia Piccinni, che ha vinto il Premio Campiello Giovani. Perché questa scelta?
«Flavia prima di incontrarmi non conosceva la ’ndrangheta e quindi è riuscita a trasformare senza filtri i miei appunti e i miei racconti in una materia narrativa appassionante, senza nulla togliere alla verità».

Però il suo vecchio comandante “Folgore” ha duramente polemizzato con lei, sostenendo di aver romanzato la cattura di Morabito.

«Premesso che considero “Folgore” uno dei più grandi investigatori che abbia mai conosciuto, confermo quanto scritto a proposito dei dubbi che tutti noi avemmo sul ritardo con cui venne dato l’ordine per il blitz che portò alla cattura».

Dubbi accentuati da una telefonata intercettata subito dopo l’arresto del boss fra due sue parenti che sembra addirittura alludere al tradimento di un accordo fra ‘ndrangheta e Stato, che gli garantì fino a quel momento la libertà.
«Ho voluto accennare a quella telefonata per amore di verità. Magari non significa nulla, ma è un punto interrogativo che dopo tanti anni rimane». 

Racconta che un killer della ‘ndrangheta, Giuseppe D’Agostino, un uomo con dieci omicidi sulle spalle, subito dopo l’arresto le confidò: «In un’altra vita, forse, saremmo stati amici». Cosa voleva dire?
«Che ci sono aree della Calabria in cui sembra che non ci siano alternative alla criminalità. A San Luca non ci sono strade o campi di calcio dove i bambini possono giocare, ma solo cartelli bucati dai proiettili. E poi voleva dire che la loro vita, nei fatti, è molto simile alla nostra: con i miei compagni abbiamo passato i migliori anni della nostra vita nascosti in mezzo alle montagne, lontano per settimane o per mesi dai nostri cari. Ma io alla fine sono riuscito a costruirmi un’esistenza normale. Un n’dranghetista invece o viene ucciso o è costretto a vivere da latitante in squallidi bunker, condannando alla sofferenza i familiari che non possono stargli vicino per poi alla fine, ben che gli vada, finire i suoi giorni in carcere».

Eppure, nonostante i suoi capi storici siano finiti tutti dietro le sbarre, la 'ndrangheta è ancora fortissima. Perché?
«Questi criminali sono convinti di essere nel giusto. Pensano che lo Stato non ci sia e che quindi solo grazie a loro i calabresi riescono a trovare una casa e un lavoro. Sono calabrese pure io e so bene quanto questa mentalità sia diffusa. Spetta allo Stato dimostrare che si sbagliano, realizzando infrastrutture e servizi, altrimenti godranno sempre di un consenso sociale. L’opera delle forze dell’ordine e della magistratura, da sola non basta».

Ha lasciato i Ros e la Calabria nel 2009 e ora lavora in Toscana. Ci torna spesso?
«Sì, è un legame troppo forte verso una terra meravigliosa. Più volte ho sognato di trovarmi in una piazza e di parlare della ’ndrangheta a voce alta, come di una vecchia leggenda che appartiene al passato».

Eugenio Arcidiacono
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