Quel che resta della vergogna

Un interessante saggio di Gabriella Turnaturi indaga la più sociale delle emozioni, che, a dispetto delle apparenze, non è affatto scomparsa: ha solo cambiato forma.

17/01/2013
Gabriella Turnaturi insegna Sociologia all'Università di Bologna. È autrice di vari saggi sulla vita quotidiana e la sociologia delle emozioni.
Gabriella Turnaturi insegna Sociologia all'Università di Bologna. È autrice di vari saggi sulla vita quotidiana e la sociologia delle emozioni.

L'ALFABETO DELL'ETICA
7. Vergogna


Il dialogo con la sociologa Gabriella Turnaturi sulle forme contemporanee della vergogna continua la serie "L'alfabeto dell'etica", un'indagine sulle parole e i concetti da riscoprire per orientarsi di fronte alle sfide del nostro tempo. La serie è stata inaugurata dalla conversazione con Laura Boella sull'immaginazione come facoltà morale ed è continuata con l'intervista a Richard Sennett sulla collaborazione quale modalità vincente della convivenza. Poi ha offerto il resoconto della lezione del Dalai Lama sull'"egoismo saggio" e l'intervista a Marc Augé, che identificava nella conoscenza la vocazione più alta dell'uomo. Edgar Morin ha indagato il significato di sviluppo, Roberto Mordacci, infine, quello di rispetto.

«Le metamorfosi della vergogna,
 il suo essersi celata,
corrisponde alla perdita di consapevolezza
 dell'interdipedenza,  dell'intersoggettività,
 corrisponde all'affermazione
 patetica e illusoria di un Io solo,
 autonomo e senza limiti».
(Gabriella Turnaturi, Vergogna, Feltrinelli)

D'istinto diremmo che la vergogna non è più di questo mondo: come una straniera indesiderata ha raccolto le sue cose e se ne è andata. Non sembra, infatti, che essa sia tenuta in grande considerazione nei discorsi e soprattutto nelle pratiche di questi tempi. A trionfare sono spudoratezza, sfrontatezza, convinzione di poter fare qualunque cosa in nome del proprio personale interesse. Quante volte, di fronte all'ennesima e clamorosa negazione di ogni pudore morale, ci siamo trovati a pensare: "Non c'è più vergogna...".

Sbaglia chi pensa di trovare una scontata conferma di questo stato d'animo nel saggio di Gabriella Turnaturi. La sociologa, docente all'Università di Bologna, studiosa delle emozioni, ha pubblicato un saggio di grande interesse sul tema: Vergogna (Feltrinelli). Già il sottotitolo, però, lascia intendere che l'approccio non è affatto ovvio: "Metamorfosi di un'emozione". Insieme a lei proviamo a compiere un viaggio attorno a questa emozione, in apparenza così inattuale e fuori moda.

Un sentire comune, piuttosto diffuso, afferma che "Oggi non c'è più vergogna". L'indecente spattacolo a cui il cittadino assiste, offerto ad esempio dalla politica e dai politici,  accredita tale sentimento. La sua tesi, invece, è che la vergogna non è scomparsa, si è solo trasformata. Ci può spiegare come e dove è possibile rinvenirne qualche traccia?
«Come studiosa delle emozioni, sostengo che esse non scompaiono mai, tutt'al più si trasformano, assumendo una diversa rilevanza sociale e culturale a seconda dei contesti storici. Che ne è dunque della vergogna oggi? Non è scomparsa, ma è diminuita la sua rivelanza sociale e culturale, sia a livello pubblico che a livello privato. È un'emozione che non viene più esibita, semmai nascosta. Allora dobbiamo interrogarci su dove possiamo trovarla. Non più nei luoghi e nei comportamenti dove era possibile trovarla in passato, collegata ai concetti di onore e dignità. Ovviamente stiamo facendo delle generalizzazioni, esistono ancora individui e gruppi che provano vergogna in relazione a un certo senso dell'onore, della rispettabilità, dell'amore di sé. La tendenza è però quella di trovarla connessa a condizioni più materiali, mi è parso cioè che fosse legata alla nozione di prestazione. Ci si vergogna di aver dato un cattivo spettacolo di sé, uno spettacolo non approvato, laddove tale approvazione non ha nulla a che vedere con l'etica, bensì, di nuovo, con la società dello spettacolo. Il problema, oggi, è di dare un'immagine di sé come persona che ha successo, disposta a tutto pur di avere un'aria vincente, capace di conquistare una buona posizione come consumatori nel mercato. In sintesi, oggi ci si vergogna molto più di un tempo di essere poveri, di non avere un corpo secondo gli standard codificati dalla pubblicità, di essere malati, deboli, fragili. Viviamo in una cultura - non solo italiana, occidentale - che ci vuole tutti felici, giovani, vincenti e sani. Paradossalmente, ci si vergogna di situazioni per cui non dovremmo vergognarci, perché non dipende soltanto dalla nostra volontà se siamo vecchi, malati, fragili e bisognosi di aiuto. E, specularmente, non ci vergogniamo di cose di cui ci dovremmo vergognare».

Insomma ci si continua a vergognare, tuttavia è mutato il codice di riferimento in base al quale si declina la vergogna...
«Esatto. Siamo invitati a non vergognarci di esibire sentimenti, emozioni, vita privata, nudità del corpo, sessualità. In ciò, ricordiamolo, ci può essere anche un contenuto emancipatorio, certo; altra cosa è però l'ostentazione pubblica dell'intimità ridotta a forma di spettacolo. Come vediamo in tante trasmissioni televisive. La nostra è una cultura piena di parodossi: da una lato, come dicevamo, siamo indotti a vergognarci di cose di cui non dovremmo vergognarci e a non provare vergogna rispetto a cose per le quali sarebbe opportuno che ciascuno conservasse un po' di riserbo; dall'altro siamo incoraggiati ad affrancarci da ogni responsabilità, a non sentire il peso delle nostre azioni - eliminando così la vergogna - ma siamo drammaticamente responsabilizzati sul fatto che siamo infelici, depressi, fragili, imperfetti, bisognosi dell'altro... Siamo invitati a vivere allegramente, ma giudicati e condannati se non riusciamo ad esserlo».

Eva nel Giardino dell'Eden di Anna Lea Merritt del 1885 (Corbis).
Eva nel Giardino dell'Eden di Anna Lea Merritt del 1885 (Corbis).

Paradossi non innocui, in quanto insinuano forti dissidi all'interno dell'individuo...
«L'impressionante diffondersi della depressione è dovuta in gran parte a questo doppio paradosso, a questo stimolo ambiguo da cui siamo sollecitati: sei responsabile del fatto che non sei felice, malato, vecchio, non abbastanza bello, dipendente dagli altri. Nell'Occidente si è affermata una cultura, estremo compimento dell'individualismo moderno, secondo la quale ciascuno deve bastare a se stesso. Ecco allora che ci si vergogna di essere fragili, perché ciò implica la dipendenza dagli altri. Definisco questo atteggiamento "la vergogna della dipendenza", intesa come necessità di mettersi in relazione con l'altro anche per chiederne l'aiuto, mentre non ci si vergogna di essere dipendenti da droghe o psicofarmaci».

Un altro fenomeno su cui lei indaga è quello che potremmo definire il "relativismo della vergogna", o, per usare le parole del suo libro, "vergogna situazionista".
«Se noi assumiamo come convincente questa lettura, cioè che la nostra cultura è dominata dall'iper-individualismo, ci rendiamo conto che uno degli effetti collaterali è la caduta dell'autorevolezza delle istituzioni, la famiglia, lo Stato, la Chiesa, la politica, la figura paterna, insomma di ogni principio d'autorità: sostituito dall'io che si eleva a giudice di se stesso. Di conseguenza la vergogna si trasforma da fatto collegato a un giudizio morale in un disagio passeggero, legato a una prestazione specifica, al pubblico che mi sono scelto in quel momento: se voglio fare bella figura, mi vergogno di essere vestito male; se voglio fare carriera, mi vergogno di non essere stato abbastanza furbo... Va sottolineato che questa "vergogna fai da te" si manifesta tanto in ambito privato quanto in ambito pubblico. Credo sia possibile individuare vari esempi di figure pubbliche che applicano la vergogna fai da te, non si vergognano per gesti irresponsabili di fronte alla collettività, mentre si vergognano di non aver approffittato abbastanza, ad esempio nell'evasione fiscale, comportamento che denuncia una perdita di responsabilità rispetto al principio del con-vivere. Mi vergogno solo per qualcosa che io giudico vergognoso, al massimo di fronte alla cerchia del mio gruppo di riferimento. Pensiamo ai ragazzi che vengono assoldati dalla varie mafie e camorre: si vergognano di non essere abbastanza duri, di non saper uccidere...».

Quale rapporto sussiste fra il senso della vergogna così come è stato qui definito e il neoliberismo?

«Un forte legame. Se la cultura vincente è quella dell'individualismo ipertrofico, per cui conta solo la realizzazione individuale, per ottenere la quale ognuno è libero di fare qualunque cosa, viene alla luce come la vergogna per la debolezza o per essere al di sotto di determinati standard, sia figlia del neoliberismo. Il quale, si badi bene, dal campo economico si è esteso a quello sociale, politico, fino a quello dei sentimenti. Pertanto vale il sillogismo: se l'essenziale è che io raggiunga il successo, e non solo nel mercato economico, ma anche nella sfera privata, allora non mi vergogno di nulla, tutto è lecito».

Si ha la sensazione che il sogno, per gli adepti di questo credo, sia un mondo senza vergogna, senza responsabilità...
«Senza doveri. Ogni volta che si è levato un richiamo a comportamenti rispettosi non dico di valori, ma della collettività e dell'esistenza degli altri, quindi dei doveri civici, esso è stato allontanato con fastidio e tacciato di moralismo e buonismo. Il sogno è una vita senza vincoli: e qui torniamo all'intuizione formulata da Marco Recalcati in L'uomo senza inconscio dell'esautorazione del padre».

Lei istituisce una differenza fra l'attitudine a vergognarsi di e vergognarsi per...
«Il "mi vergogno di" esrpime una presa di distanza, tanto che ho bisogno di marcare una volontà di separazione da un'appartenenza, sia essa amicale, amorosa, nazionale, politica... Mentre "mi vergogno per" esprime una relazione ancora forte e un'assunzione di responsabilità; denota vergogna per un'appartenezanza che percepiamo ancora viva, ma che vorremmo venisse declinata in maniera diversa. Il "mi vergogno di" è una forma dolorosa di vergogna: vergognarsi della propria famiglia o della propria nazione fa male».

A più riprese lei insiste sul fatto che la vergogna è la più sociale delle emozioni: è un sentimento a cui è connaturata la relazione e che, quindi, rivela molto del nostro rapporto con gli altri. Alla luce delle trasformazioni della vergogna, come è cambiato il nostro rapporto con l'altro?
«Tutte le emozioni sono sociali, la vergogna lo è più di tutte, perché si prova in relazione a un altro, che sia presente o assente non fa grossa differenza. Se infatti ci si vergogna rispetto a un'idea alta che si ha di sé, ci si vergogna non meno per il giudizio che ci immaginiamo che gli altri daranno di noi. La vergogna si forma sempre rispetto all'esistenza dell'altro. Partendo da qui, notiamo come uno degli elementi caratterizzanti della cultura contemporanea sia la cancellazione dell'altro. Come potrebbe essere altrimenti se l'altro è vissuto come un impedimento alla nostra realizzazione? Qui neoliberismo, individualismo, senso moderno della vergogna e cancellazione dell'altro si tengono assieme: conta l'affermazione narcisistica di sé, non c'è spazio per la vergogna. Poiché la vergogna fa da sentinella alla solidità del legame sociale, ci dice quanto forte esso sia, deduciamo che oggi esso è molto indebolito. Il che non significa che si debba tornare alla società della gogna e che non vadano respinti metodi come quello dello shaming, il marchiare visibilmente chi è reo di certi reati, affiggendo cartelli sull'auto o sulla casa».

Il sentimento della vergogna ha la peculiarità di istruirci su molti aspetti del nostro vivere e sentire. Ad esempio, rivela come è mutato il rapporto con il nostro corpo.
«Ormai il corpo non è più un oggetto, bensì un soggetto. Lo chiamo l'"io-corpo". Quasi come se fossimo interamente corpo, tutte le attenzioni e tensioni e cause di felicità e infelicità sono depositate in esso, che deve essere sempre a norma, secondo canoni decisi altrove. In tale esasperante attenzione e costruzione del corpo non vi è differenza fra maschi e femmine. Si è diffusa una patologia prometeica da onnipotenza, in forza della quale il corpo viene delegato a parlare per noi. Sempre più afasici, lasciamo che sia il corpo a mandare segnali. Attraverso il corpo viene alla luce un altro dei paradossi odierni: nella società che esalta la realizzazione assoluta dell'io, nulla è più conformista di tale idea di realizzazione. Siamo chiamati a costruire un corpo "a norma", la felictà stessa è costruita secondo diktat, secondo standard, in base a quella che chiamo "autenticità standardizzata". Paradossalmente l'individualismo esasperato conduce al massimo del conformismo. Infatti il titolo del libro doveva essere originariamente Così fan tutti».

"Caino" di Henri Vidal (Marka).
"Caino" di Henri Vidal (Marka).

Veniamo a un altro risvolto della vergogna: laddove la società è fortemente coesa, il senso delle vergogna viene codificato, fino ad essere utilizzato come strumento di dominio e oppressione da parte del potere. Il "secolo breve" ha provveduto a fornire una vasta casistica in questo senso...
«E succede ancora oggi nelle società totalitarie. La vergogna può sempre comportare una relazione con il potere, in gradazioni diverse. Accade anche quando l'adulto dice al bambino "Dovresti vergognarti!": sta educando, certo, ma anche esercitando il potere. Gli Stati totalitari, definendo autoritariamente i confini di ciò di cui bisogna vergognarsi, e ricorrendo a strumenti di umiliazione pubblica, di esibizione della vergogna, ne hanno fatto uno strumento di dominio. Contro gli omossessuali, le minoranze, le etnie, chi dissente... È una situazione che si crea negli Stati etici, allorché lo Stato assume su di sé l'autorità di dettare legge nella vita privata e nelle coscienze delle persone».

Chi deve decidere di che cosa ci dobbiamo vergognare?
«Non lo Stato, né può essere un'autorità esterna, né può essere stabilito una volta per tutte. Credo che nel farsi quotidiano delle pratiche sociali, nel vivere insieme si scelgano i confini, i limiti dentro cui una collettività può agire nel rispetto dell'altro. Lo costruiamo assieme il senso della vergogna, dentro i mutamenti sociali e culturali, nel convivere e nel confronto pubblico. Nel saggio faccio un richiamo alla "società decente", che non è quella in cui tutti si comportano decentemente, bensì quella dove si ritiene indecente l'umiliazione dell'altro, fondata sul rispetto».

Quale ruolo va assegnato alla figura paterna, in quanto simbolo di autorevolezza, nella formazione del sentimento della vergogna?
«Massimo Recalcati parla di evaporazione della figura paterna. E non allude al singolo padre, bensì a ogni principio di autorità. Le posso fare un esempio tratto dalla mia esperienza personale: i genitori degli studenti universitari intervengono sempre più spesso per difendere i loro figli... Guai se io avessi parlato male dei miei insegnanti con i miei genitori. Tutto ciò indebolisce la figura paterna, nel senso lato dell'istituzione, nel caso specifico quella della scuola, perché determina una complicità con il figlio».

C'è anche una dimensione costruttiva della vergogna. Essa è infatti un sentimento ambivalente, che in alcune circostanze porta all'invidia e al risentimento, in altre è "aspirazionale", per dirla con Martha Nussbaum, punta cioè al miglioramento della persona.
«La vergogna è positiva quando, anziché farci sprofondare nella depressione, induce a riflettere. Essendo un'emozione accompagnata dal dolore, ha una funzione deterrente, preventiva, fa sì che non vogliamo provarla nuovamente con il suo carico di sofferenza. Se ripeto quel comportamento starò male... Un altro uso buono è quello che rompe con un vecchio modo di essere se stessi e genera un rinnovamento, soprattutto quando non agiamo in difesa degli altri, fingiamo di non vedere l'oppressione, la miseria, l'ingiustizia. Si può trasformare in agire insieme agli altri. Allora la vergogna ci spinge fuori dalle nostre case e si coniuga con un'altra emozione fondamentale, l'indignazione, trasformando noi stessi ma anche ciò che ci sta intorno. Non a caso in tutti i movimenti di protesta - dagli indignados a Occupy Wall Street - è la parola pià invocata».

Coniugata all'indignazione, la vergogna assume una connotazione civile e politica?
«La annovero fra le passioni civili. L'indignazione in questione va distinta dall'ira e dalla collera, è piuttosto affine all'ira giusta, generosa. Non a caso nella cultura greca, e non solo in quella, fra le malattie dell'anima veniva ritenuta l'unica giustificata. Tommaso d'Aquino la considerava una passione suscitata dal male, quindi una sorta di legittima difesa. Nel Medioevo si parla si santa ira, la ribellione del giusto. Ho trovato pagine meravigliose nello Zibaldone di Leopardi, in cui si incita il popolo italiano a indignarsi. L'indignazione fa parte delle passioni timotiche, quelle che spingono alla domanda di giustizia, all'azione. La vergogna coniugata con l'indignazione favorisce il mutamento, perciò è una passione dell'innovazione. Riguarda la polis, lo stare con gli altri. Intreccia amore di sé e senso della communitas, individualismo e solidarismo. È una passione dell'uguaglianza».

Un buon uso della vergogna è anche quello che, riflettendo sul passato, spinge a ridefinire il presente e a impostare in maniera nuova il futuro...
«È la vergogna collettiva. Se attraverso un dibattito pubblico un popolo tematizza quella che è stata una vergogna nazionale, il risultato può essere non semplicemente la memoria di ciò che è stato, in luogo dell'oblio, ma anche la possibilità di immaginare insieme un futuro alternativo. Dove manca questa operazione di assunzione di responsabilità del passato, inclusa l'accettazione della vergogna, si fatica a dipingere un futuro comune e senza ombre. L'Italia, ad esempio, non ha mai tematizzato la vergogna delle leggi razziali, ha sempre cercato di minimizzare la portata dell'evento, con l'effetto di non creare una forma di tutela dalla possibile rinascita di altre forme di razzismo. Diffido dei riti collettivi di espiazione, mentre è necessaria una elaborazione culturale, sincera, nella quale ciascuno si assume le proprie responsabilità».

Paolo Perazzolo
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Postato da Andrea Annibale il 17/01/2013 13:20

Ho apprezzato moltissimo questa intervista di Paolo Perazzolo a Gabriella Turnaturi. Mi vengono in mente alcune idee che espongo brevemente. Nella società pre-liberista la relazione con l’altro non era tanto di competizione perché la mobilità sociale era scarsa. Oggi, viviamo nella convinzione (illusione?) – almeno sino ad una certa età – che tutte le strade ci siano aperte grazie alla società liberista. Cioè, conseguendo il giusto titolo di studio, trovando la opportuna “raccomandazione” (di cui si va avidamente a caccia), possiamo arrivare non dico ovunque, ma perlomeno dove la nostra fantasia più o meno ingenua ci suggerisce. Se il rapporto con l’altro è ridotto a competizione, non c’è molto spazio se non per una felicità che già sul piano dei fini esclude la vergogna perché il fine da raggiungere giustifica i mezzi. Questo ampliamento dello spazio di libertà e di felicità individualista che la società mobile ha portato è più o meno reale? La realtà della vergogna è dispiacere di non essere stati sufficientemente bravi, competitivi ed efficienti. Se invece ci facciamo trasformare dall’altro positivamente, scopriamo che la relazione con il prossimo è una straordinaria occasione di crescita. La vergogna nella responsabilità e nella verità su noi stessi ci introduce al giusto concetto di autorità morale, che, gradino dopo gradino, risale a Dio. L’incontro con l’altro diviene incontro con l’Altro nella fede. Nella Bibbia c’è una dicotomia precisa: il popolo di Dio cammina nella luce mentre il mondo è abbandonato sotto il potere del Maligno (1Giovanni 5, 19). Ci ha redenti la Croce e la Resurrezione di Cristo, che è il Signore della Storia, ma l’ingresso nel Regno dei Cieli richiede di farsi come bambini, cioè di provare un sentimento di pietà come primo mattone per edificare una società della pietas anziché una società della libido narcisistica indifferente, egoista e spietata. Non credo che esista una forma di Stato o di società o una ideologica che sradichi il potere del demonio, ma esiste un potente antidoto nella diffusione della religione che ci lega ad un’autorità paterna comune che rimanda al suo volta al concetto di una fratellanza universale. Facebook: AAnnibaleChiodi; Twitter: @AAnnibale.

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