03/03/2012
Tutti i romanzi hanno una storia dentro. Solo alcuni ne hanno anche una dietro. Di sicuro ce l’ha Maria Tramaglino, edito da Cortocircuito, piccolo editore nel pavese, se non altro perché non capita tutti i giorni che un professore di Lettere, andando in pensione, scelga di salutare gli studenti di una vita con un romanzo. «Ai miei studenti», si legge nella dedica di Bruno Civardi, dove di solito gli autori esordienti – finora aveva pubblicato racconti e poesie su riviste – dedicano alla moglie, ai figli, ai nipoti…
Proprio perché le occasioni familiari non sarebbero mancate, quella dedica ha un significato preciso: «Sono un professore, non lo faccio, lo sono proprio. E penso che lo resterò, nel modo di pensare non solo nei laboratori di teatro che ancora coltivo. Il romanzo l’ho scritto pensando agli studenti passati nelle mie aule, perché desidero che questo scambio non si interrompa: mi è sembrato che leggerlo e magari discuterne fosse un modo di tenere un filo tra noi. E poi mi sono divertito. Dopo il libro, in effetti, mi hanno scritto in parecchi, alcuni ormai grandi ci hanno anche visto dentro cose belle. Chissà se ci sono davvero. A tante delle domande che mi hanno fatto non ho saputo rispondere. Altri che hanno avuto notizia del libro non hanno reagito. Se hanno pensato “che barba prof” però non hanno osato dirlo».
Il romanzo non è di quelli che strizzano l’occhio ai ragazzi, anche perché gli studenti di una vita nel frattempo sono diventati adulti. Ma nasce da una lettura che agli ex studenti è necessariamente familiare. Lo si evince dal titolo che davvero allude alla bambina nata nelle ultime righe dei Promessi sposi.
A dispetto dell’ingombrante antefatto, il racconto è agile e lieve, delicato di immagini e di parole, accostate con cura: «Far cassetta non era il mio primo scopo, non ci sono sangue, sesso, donne annoiate dalla vita… Mi rendo conto che lo spunto manzoniano potrebbe allontanare proprio i più freschi di scuola: io amo da sempre Manzoni e Dante, ma ai ragazzi del 2012 riescono ostici, un po’ per la lingua, un po’ anche per il loro cattolicesimo. Forse è colpa della mia generazione: non siamo stati bravi a trasmettere ai più giovani il sentimento religioso. Ma per me era importante e, scrivendo, non me ne sono preoccupato. Però ai ragazzi, soprattutto alle ragazze, anche a quelle un po’ cresciute, sembra piacere questa protagonista secentesca molto moderna per il suo tempo: mi rendo conto dai riscontri che la storia attrae lettori che abbiano una sensibilità che definirei femminile, anche se soprattutto le ragazzine più giovani mi rimproverano l’epilogo non abbastanza lieto».
È nato tutto nell’ultima estate da prof, quando davanti non c’era un altro anno da cominciare, con poche certezze all’inizio: «Sapevo che doveva esserci Renzo, ma non Lucia: troppo perfetta. Volevo che ci fosse Agnese e avevo deciso che Maria avrebbe dovuto arrivare nella Napoli di Masaniello. Gli altri personaggi, i non manzoniani, sono venuti da soli, senza preavviso, quando c’è stato bisogno di inventarsi modi per far arrivare a Napoli dalla Lombardia una ragazza sola nel Seicento».
Da espedienti, però, si sono imposti protagonisti agli occhi di chi legge, più di tutti il Comandante Solimòs, illumista ante litteram, in cerca della formula di Dio. Di certo, senza la scuola, sarebbe stato diverso da com’è: “La lettera che scrive e non spedisce a Blaise Pascal, chiedendogli la “formula di Dio” riprende, con qualche rimaneggiamento, lo scritto che un mio studente allora diciassettenne preparò per un concorso”.
E proprio in questo omaggio, più che nelle note e in tutto il resto, c’è la sintesi di una vita di scuola: “Non so dire se praticare scrittura serva a insegnare a scrivere, ci vorrebbe la controprova. Forse saper raccontare serve a insegnare ad ascoltare e il resto viene. Quel che posso dire è che ho sempre trattato i miei studenti come se mi aspettassi da loro cose alte”. Diversamente Maria Tramaglino sarebbe stato un libro per ragazzi. E invece non lo è.
Elisa Chiari