27/11/2012
Lezione in una scuola media negli anni Sessanta (Olycom).
Oggi si parla di “precari della scuola”, un termine che negli anni ’60 ancora non si usava. Si diceva, più semplicemente, “supplenti”. Il supplente si intitola un bellissimo romanzo autobiografico di Fabrizio Puccinelli, pubblicato per la prima volta nel 1972 da Franco Maria Ricci e ora riproposto da et al./edizioni (postfazione di Giovanni Mariotti, pagine 104, euro 10,00).
L’autore, lucchese, era nato nel 1936 ed è morto nel 1992. Il supplente è l’unico volume pubblicato da lui in vita: per il resto, uscirono soltanto alcuni racconti in rivista, mentre postumo verrà edito Gabbie (Marsilio 2006), testimonianza di un soggiorno di alcuni mesi in una clinica psichiatrica.
Diario di un professore di montagna
Il supplente è la narrazione di due anni di insegnamento nelle scuole medie dell’Appennino toscano all’indomani dell’istituzione della media unificata. Allora fu necessario reclutare molti giovani “professorini”, a volte prima ancora della laurea. Docenti proiettati dalle città in scuole ancora deamicisiane. Come la prima a cui approda Puccinelli: “Tutte le aule sono riscaldate con stufette di terracotta. I ragazzi vanno su e giù tutto l’inverno, dalle aule alla cantina, scavano una caverna nel mucchio e portano la legna”.
Il protagonista del libro di Puccinelli si interroga su come avvicinare alla cultura i ragazzi di paesini sperduti, spesso provenienti da famiglie nelle quali essi sono la prima generazione ad accostarsi agli studi. Per rendersi conto da dove vengano i suoi scolari, Puccinelli gira per i monti e i paesini da cui provengono. Cercando di comprendere la loro visione del mondo, legata a quella dei genitori e delle persone che hanno conosciuto. E poi si chiede: “Come si può eliminare la loro timidezza? Come possono fare figli di contadini e pastori a liberarsi della maschera dell’assoggettamento che gli sta sul volto da secoli?”.
Aldo Fabrizi in "Mio figlio professore" del 1946 (Olycom).
Sono le domande che in quegli stessi anni si poneva a Barbiana don
Lorenzo Milani.
L’insegnante vede di fronte a sé ragazzi “impauriti”, che sentono la
scuola “estranea”, quando non addirittura “minacciosa e nemica”. Ma la
disponibilità umana del docente e l’interesse per le nuove metodologie
pedagogiche (recepite e utilizzate senza eccessi ideologici, ma
all’insegna di un concreto buon senso) riescono a colmare il divario che
lo divide dalle sue classi.
Ad esempio, non impone temi su argomenti percepiti dai ragazzi come
astrusi o lontani, ma li spinge a scrivere di ciò che vogliono, dando
loro pochi consigli, secondo una moderna didattica della scrittura
creativa. E anche della lettura, di cui il protagonista intuisce tutta
la forza: “La lettura stacca i ragazzi dalla dipendenza dagli altri,
soprattutto dalla dipendenza spirituale”.
Il libro ha un importante valore di documento. Ma si segnala anche per
una grande forza stilistica, giocata tutta sull’essenzialità. Sul
“romanzo del maestro” si innesta una riflessione esistenziale, che
talora scaturisce dal rapporto con il paesaggio: “In certi mesi di
inverno […] a stare tra quelle gole, la disperazione scende nel petto
appena calano le ombre”. Una disperazione lenita dal quotidiano contatto
del professore con i “suoi” ragazzi.
Roberto Carnero