Maalouf: impariamo a convivere

Lo scrittore, già vincitore del Goncourt, con il romanzo "I disorientati" torna per la prima volta nel suo Paese d'origine, il Libano: «Non abbiamo un mondo di scorta».

27/03/2013
Amin Maalouf, scrittore di origini libanesi, già vincitore del premio Goncourt (Jerome Bonnet).
Amin Maalouf, scrittore di origini libanesi, già vincitore del premio Goncourt (Jerome Bonnet).

È appena uscito per Bompiani I disorientati di Amin Maalouf, lo scrittore, libanese di nascita, che ha vinto il Premio Goncourt, il più importante riconoscimento narrativo francese. Nel romanzo, in forma di ritorno al Paese natale, Maalouf affronta i temi che gli sono cari – l’esilio, l’identità, l’incontro tra culture e religioni – e lancia un ponte tra due mondi, l’Oriente e l’Occidente, che spesso sono separati e di cui lui piuttosto incarna l’incontro.

Cittadino del mondo, illuminista arabo, rappresentante della narrativa francofona di origine levantina, sono tante le definizioni date per questo scrittore. Forse un fatto le riassume: nel 2011, ha ricevuto la spada di accademico francese, diventando uno dei 40 “Immortali” dell’istituzione fondata dal cardinal Richelieu per codificare e salvaguardare la lingua francese. In quell’occasione, ha fatto incidere sulla lama i simboli della sua doppia identità: la Marianna della République su un lato e il cedro del Libano sull’altro.

Ma solo ora Maalouf, pur senza mai nominarlo, torna a parlare del paese in cui nacque e che lasciò nel 1976 all’inizio della guerra.
Con un romanzo corale, il ritratto di un’intera generazione che dà al conflitto una fibra tutta umana, provando a sbrogliare la trama libanese. Adam, il protagonista che assomiglia molto a Maalouf, è spinto da una chiamata inattesa, l’annuncio della morte dell’ex amico fraterno Mourad, a tornare in Libano dopo venticinque anni di esilio parigino. Tutto è rimasto identico, il tempo non è trascorso per i luoghi che frequentava. Quel “paradiso perduto” si accompagna ai nomi dei suoi amici di gioventù, il Circolo dei Bizantini, che volevano cambiare il mondo e hanno invece finito per essere cambiati da una guerra che li ha separati e spinti ognuno verso una strada diversa. Alcuni hanno scelto di vivere all’estero, altri sono rimasti in patria, venendo coinvolti nella guerra civile, nelle faide tribali e religiose, nella corruzione politica.

Adam, il “disertore onesto”, deve fare i conti con le scelte di chi come lui se ne è andato e di chi come Mourad è rimasto in Libano “sporcandosi le mani”. Ma chi è, in fondo, lui per giudicare da lontano, dal suo esilio “dorato”, mentre loro sono stati travolti da un destino ineluttabile? Con l’aiuto dell’amica Semiramis, rimasta sempre bella e ribelle, Adam cerca di riunire i suoi vecchi compagni. Almeno i sopravvissuti. Fra loro ci sono incomprensioni e rancori, ma anche il desiderio di tornare a confrontarsi con la sincerità della gioventù, un confronto che cambierà per sempre il presente di Adam.

Il libro di Amin Maalouf.
Il libro di Amin Maalouf.

Maalouf, come mai dopo tanti anni affronta di petto il suo passato?
«Forse servivano i capelli bianchi… Per tanti anni, mi sentivo in colpa e volevo scrivere di tutto tranne che del Libano. Ad un certo punto, però, non potevo più rimandare».

Adam è un personaggio autobiografico?
«Lo sguardo di Adam è il mio, le sue ragioni sono le mie, ma la sua biografia è diversa. I personaggi sono inventati, ma il clima intellettuale che descrivo è quello della mia gioventù, della “civiltà levantina”, quel cosmopolitismo che univa Beirut a città come Istanbul e Alessandria. Ho sempre avuto amici di diverse religioni, ci confrontavamo con schiettezza, ci prendevamo anche in giro, ma con affetto. Non avrei mai pensato che quella fluidità culturale, che mi sembrava normale, fosse così fragile».

Descrivendo la sua generazione, dice: “Entravamo nella vita studentesca con un bicchiere di vita in mano e la ribellione nel cuore”. Con lo scoppio della guerra, colpisce il senso di impotenza di questi giovani.

«Sì, eravamo giovani legati alle università europee e ai movimenti del periodo; negli anni ’70, il Libano era chiamato la “Svizzera del Medio Oriente” e aveva un livello economico e culturale molto alto. Inizialmente, ci vergognavamo a introdurre i nostri ragionamenti e decisioni dicendo “in quanto maronita”, “sunnita”, “sciita”, “ebreo”… Poi siamo stati travolti dalla crescita del tribalismo e da 15 anni di guerra (1975-90). Abbiamo sbagliato a creare il sistema delle quote esplicite: il primo ministro a una comunità, il presidente a un’altra,… Abbiamo cristallizzato le differenze e favorito il comunitarismo».

Lei quando ha deciso di lasciare il Libano?

«La guerra è iniziata il 13 aprile 1975, di domenica, con due massacri. Uno, la sparatoria contro l’autobus dei militanti palestinesi in un quartiere di Beirut, è avvenuto sotto la finestra di casa mia, a trenta metri. Ero un giornalista appena tornato dal Vietnam, ma ricordo con terrore quella decina di secondi, appoggiato al muro per proteggermi, che causarono oltre venti morti. Non volevo far crescere i miei figli in un posto dove a 14 anni si può prendere il fucile per ammazzare una persona».

Il finale del libro sembra pessimista. La “civiltà del convivere” ha futuro?

«Mi definisco un ottimista inquieto… La vera questione non è se comunità differenti potranno vivere insieme, ma come. Non abbiamo un pianeta di scorta. Non c’è scelta: malgrado tutti i dolori e le difficoltà, bisognerà prima o poi apprendere a vivere insieme».

Stefano Pasta
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