Mio padre Rostagno

La figlia Maddalena ricorda il genitore, ammazzato dalla mafia il 26 settembre 1988 e di cui si è aperto il processo a Trapani lo scorso febbraio: non un eroe, ma un martire.

22/09/2011
Mauro Rostagno.
Mauro Rostagno.

   A Maddalena Rostagno, figlia di Mauro, ammazzato dalla mafia il 26 settembre 1988 e di cui, dopo ventitré anni e diverse vicissitudini giudiziarie, si è aperto il processo a Trapani lo scorso febbraio, la parola “eroe” non piace affatto. «Sventurato quel paese che ha bisogno di eroi», scriveva Brecht. Spesso, infatti, gli eroi sono accompagnati da un alone di tristezza e malinconia. Quasi vivessero per morire. Tutto il contrario invece del Rostagno allegro e pieno di voglia di vivere raccontato dalla figlia Maddalena e dallo scrittore Andrea Gentile nell’ottimo Il suono di una sola mano – Storia di mio padre Mauro Rostagno (Il Saggiatore, 276 pagine, € 15,00). «Io sono più trapanese di voi perché ho scelto di esserlo», era il motto di quest’intellettuale che dopo tante vite – il Sessantotto, Lotta Continua, Macondo, l'India, l'eccentrica comunità di Saman – aveva scelto quella per cui valeva la pena di vivere (e forse morire): la lotta alla mafia.

   Nella “chiazza” di Trapani, città di picciotti e intrighi misteriosi tra Cosa Nostra, politica e massoneria deviata, Rostagno arriva nel 1986. Vestito di bianco, quasi a rivendicare il candore cui ha diritto anche questa terra martoriata, impugna la telecamera e va in giro per la città: intervista le persone al mercato del pesce, ogni giorno fa il munnezza trekking, incontra Leonardo Sciascia, poi Falcone e Borsellino. Vede e fa vedere, dà voce a chi non ce l’ha. Soprattutto, chiama le cose con il loro nome. E comincia a parlare di mafia, degli incontri occulti tra Licio Gelli e Mariano Agate, il luogotenente della malavita trapanese degli anni Ottanta, dell’ufficio «parallelo e occulto» che gestirebbe il bilancio del comune di Trapani, dell’omicidio del giudice Ciaccio Montalto, della strage di Pizzolungo, del traffico di armi e rifiuti tossici con la Somalia «cogestito da Cosa Nostra e da settori deviati dei servizi segreti».

   Invita alla ribellione la gente onesta quando tutto intorno è uno stagno putrido di complicità e omertà. «Perché la gente dovrebbe ribellarsi alla mafia?», chiede in un’intervista del 29 settembre 1988 il procuratore della Repubblica Antonino Coci, «la mafia qui ha portato soldi, benessere, lavoro e tranquillità». La sentenza di morte non tarda ad arrivare: «Diteci a chiddu ca varva e vistutu di bianco ca finissi di riri minchiati», sbotta Mariano Agate. Rostagno non la smette. E muore. Alla sbarra per il delitto ci sono ora Vincenzo Virga, capomafia di Trapani, e Vito Mazzara, killer della cosca.

   Come si è arrivati all’apertura del processo è una storia nella storia. Esserci riusciti è quasi «un miracolo», come dice Maddalena. C’è il venticello sottile ma efficacissimo della calunnia e dei depistaggi che nel luglio del ’96 porta in carcere a Milano Chicca Roveri, la moglie di Rostagno, accusata dell’omicidio del marito. A Trapani qualcuno ridacchia: «Storia di pilu è, altro che mafia». Ai funerali c’è un «prete incazzato» che impugna il microfono e dice le cose come stanno: «La mafia siciliana, protagonista invisibile, è tornata a colpire», chiosa. È il vescovo Antonino Adragna che pronuncia l’epitaffio più fastidioso per i mafiosi: «Abbiamo bisogno di comuni testimoni nella vita». Mauro Rostagno questo è stato: un martire, cioè un testimone. Della vita, dell’esigenza di giustizia, della necessità di difendere la “dignità dell’uomo”, espressione che al Rostagno leader sessantottino puzzava di ipocrisia borghese. La differenza tra eroi e martiri è proprio questa, che i primi si dimenticano presto, la voce dei secondi invece non tace neanche dopo la loro morte.

Maddalena, la figlia di Rostagno.
Maddalena, la figlia di Rostagno.

   Invita alla ribellione la gente onesta quando tutto intorno è uno stagno putrido di complicità e omertà. «Perché la gente dovrebbe ribellarsi alla mafia?», chiede in un’intervista del 29 settembre 1988 il procuratore della Repubblica Antonino Coci, «la mafia qui ha portato soldi, benessere, lavoro e tranquillità». La sentenza di morte non tarda ad arrivare: «Diteci a chiddu ca varva e vistutu di bianco ca finissi di riri minchiati», sbotta Mariano Agate. Rostagno non la smette. E muore. Alla sbarra per il delitto ci sono ora Vincenzo Virga, capomafia di Trapani, e Vito Mazzara, killer della cosca.

   Come si è arrivati all’apertura del processo è una storia nella storia. Esserci riusciti è quasi «un miracolo», come dice Maddalena. C’è il venticello sottile ma efficacissimo della calunnia e dei depistaggi che nel luglio del ’96 porta in carcere a Milano Chicca Roveri, la moglie di Rostagno, accusata dell’omicidio del marito. A Trapani qualcuno ridacchia: «Storia di pilu è, altro che mafia». Ai funerali c’è un «prete incazzato» che impugna il microfono e dice le cose come stanno: «La mafia siciliana, protagonista invisibile, è tornata a colpire», chiosa. È il vescovo Antonino Adragna che pronuncia l’epitaffio più fastidioso per i mafiosi: «Abbiamo bisogno di comuni testimoni nella vita». Mauro Rostagno questo è stato: un martire, cioè un testimone. Della vita, dell’esigenza di giustizia, della necessità di difendere la “dignità dell’uomo”, espressione che al Rostagno leader sessantottino puzzava di ipocrisia borghese. La differenza tra eroi e martiri è proprio questa, che i primi si dimenticano presto, la voce dei secondi invece non tace neanche dopo la loro morte.

Antonio Sanfrancesco
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