13/01/2013
La copertina del libro, Fazi editore.
Nudo e crudo. In senso proprio e metaforico. E' così che Luca Pancalli si racconta nel libro autobiografico Lo specchio di Luca (Fazi). Una storia di caduta, da cavallo durante una gara di pentathlon, di faticosa risalita, a tratti di disperazione e di rabbia, alla fine di serenità e di successo. Una storia di vita, che a un certo punto riparte da un punto di vista e da un'immagine diversa. Ma riparte fino al successo della completezza, della realizzazione nella famiglia, nel lavoro, nello sport. Una storia individuale e corale. Perché non si diventa da soli, nel bene e nel male, quello che si è.
Avvocato Pancalli, sottolineo "avvocato", c'è lo specchio nel titolo e non sembra un caso. O lo è?
«Non lo è. Lo specchio è stato in un preciso momento la presa di coscienza del prima e del dopo. Ricordavo il ragazzo atletico che ero prima e ho visto un ragazzino, rinsecchito da mesi di letto, su una carrozzina. Un po' brutalmente lo specchio mi ha restituito la percezione della realtà. Quel momento ritorna ogni mattina mentre mi faccio la barba, perché lo specchio mi ricorda quella presa di coscienza, ma lo specchio mi rende anche, mentre mi rado -non è stato da subito certo che la compressione midollare consentisse di recuperare la funzionalità delle mani ndr.- , testimonianza della mia autonomia riconquistata».
Lo specchio è la metafora che ciascuno di noi usa per misurare la relazione che ha con sé stesso, il disagio o la soddisfazione con cui ciascuno di noi guarda la persona che è. Pensava anche a questo con quel titolo?
«Direi di no, ma è vero che oggi lo specchio mi rimanda l'immagine di una persona serena, che è diversa da come si era immaginata, ma realizzata».
Perché ha deciso di mettersi a nudo, e così tanto, proprio ora?
«Ci ho pensato tante volte, ci ho anche provato tante volte e poi lasciato perdere. Ma mi avvicino ai 50 anni ed è tempo di bilanci. Si scrive prima di tutto per sé stessi, per fare ordine, ma ha aiutato il rapporto di collaborazione nato con Giacomo Crosa, la sintonia in un lavoro a quattro mani è fondamentale. E poi mia madre me l'ha chiesto tante volte. Una sollecitazione continua».
Sua madre è molto presente nel libro e la sollecitazione, insieme complicata e preziosa, sembra la cifra del vostro rapporto. O no?
«Sì, gran rompiscatole (ride) lo dico sempre, ma se non lo fosse stata, io non sarei avvocato, visto che mi ha praticamente costretto a far l'esame anche se ho messo il titolo in un cassetto, ma anche non sarei come e dove sono. Mi ha sempre messo davanti al bivio tra mollare e andare avanti. Se sono andato sempre avanti è stato anche per merito suo».
E' un libro pieno di famiglia, un modo di dire che la sua cicogna ha scelto bene dove atterrare?
«Sicuramente sì, sono stato fortunato: ho avuto alle spalle genitori che quando a 17 anni mi sono ritrovato in carrozzina hanno continuato a educarmi come hanno fatto con i miei fratelli, aiutandomi in tutti i modi, ma non stravolgendo le regole della casa. In questo modo mi hanno insegnato anche con l'esempio che la vita si vive affrontando le sfide e le difficoltà che arrivano. Poi so bene che ci sono tante persone più sfortunate di me, che non hanno la possibilità di conquistare l'autonomia che io sono riuscito a ritrovare, che stanno peggio di me. Mi sono raccontato con umiltà, pensando che potesse anche essere utile a chi non è abituato a tener conto delle difficoltà di quelli cui le cose sono andate meno bene».
L'avvocato Luca Pancalli.
Ha scritto di aver imparato a leggere gli sguardi. Ammesso che si
possa generalizzare che cosa vi legge più spesso e che cosa vorrebbe
leggervi di più?
«Vi leggo spesso l'indifferenza o la pietà, vorrei leggervi più attenzione e più rispetto».
Accanto alla sua famiglia d'origine, c'è la sua famiglia attuale, sua
moglie i suoi due figli. Li ha raccontati con meno particolari per
proteggerli?
«Sì, mio figlio e mia figlia sono adolescenti, era giusto non
esporli, anche perché io sono anche se in piccolo una persona pubblica».
Ci poniamo il problema della disabilità, quando ad affrontarla sono i
figli, non parliamo mai delle preoccupazioni che si hanno in quanto
genitori. E' indiscreto chiedere?
«Erano i miei timori, di quando mi chiedevo prima se mai avrei
potuto avere un figlio e poi se "da seduto" sarei stato un padre
all'altezza. Mentre crescevano sono stati loro a insegnarmi che siamo
noi adulti a scrivere le categorie di normalità e diversità, loro da
piccoli non si pongono il problema. Quando giocavo a palla con mio
figlio di due o tre anni per lui era naturalissimo che io gliela tirassi
con le mani. Impossibile dimenticare quando mia figlia mi ha chiesto
quando avrebbe potuto avere una carrozzina come la mia. Siamo padri e
madri con l'esempio che sappiamo dare, con la coerenza tra le cose che
diciamo e le cose che facciamo. L'ho imparato dai miei genitori e provo
ad applicarlo, con i miei limiti, e con la preziosa collaborazione di
mia moglie».
Nel libro c'è molto agonismo, l'agonismo dell'atleta, da pentathleta
prima da nuotatore e campione paralimpico poi, ma anche l'agonismo di
chi prende la vita come una gara. Davvero lo sport insegna qualcosa o è
retorica?
«Nella mia vita lo spirito agonistico è stato utile. Un po' te
lo insegna lo sport, un po' fa parte del carattere. Ci sono sportivi che
lasciano lo sport perché soffrono le gare e studenti che mollano
l'università perché non reggono lo stress dell'esame, ma un certo
spirito agonistico è utile nella vita. Meglio se non limitato alla gara,
se esteso ad altre aspirazioni. Perché spesso dimentichiamo che la
massima parte dello sport non è l'iceberg del professionismo ma la base
che c'è sotto e che il nostro Paese trascura come componente
dell'educazione globale della persona».
Nel libro parla anche del Padreterno, di un rapporto diretto a volte conflittuale con Lui. E' rimasto così quel rapporto?
«Diretto sì, meno conflittuale. Non sono stato capace all'inizio di non
arrabbiarmi con Lui, di non chiedergli conto del perché proprio a
me. Poi ho fatto pace, oggi ho con la fede un rapporto sereno: ho avuto
le mie disgrazie ma chi non le ha, quando ho perso mio padre ho chiesto
altri rabbiosi perché, ma ho avuto anche molto dalla vita. E' giusto
riconoscerlo anche per rispetto di chi non ha avuto altrettanto. Io
avevo 17 anni, ho avuto il tempo di ripensare la mia vita quasi da zero
perché era ancora tutta davanti: ho preso la maturità, la laurea, vinto
le paralimpiadi, costruito una bella famiglia. Sarebbe ingrato non
ammettere che ad altri va peggio».
A suo modo è un libro divertente, perché onesto e autoironico...
«Fa piacere sentirlo dire, le dirò che ci siamo divertiti anche a
scrivere, anche se non è stato sempre facile viaggiare nei ricordi».
I suoi familiari erano avvisati o li ha dati in pasto ai lettori mettendoli di fronte al fatto compiuto?
«L'hanno saputo che era in stampa, ma si sono riconosciuti, solo mia
madre mi ha fatto le pulci sui particolari, ma se non l'avesse fatto non
sarebbe la rompiscatole che è».
E Luca Pancalli non sarebbe dov'è e com'è...
«Senza di lei forse no».
Elisa Chiari