Quando andavamo a la playa

Johnston Righeira ricorda il tormentone estivo che li lanciò 30 anni fa. "Ai nostri concerti la cantano ragazzi che allora non erano nemmeno nati".

26/03/2013
Stefano Righi, uno dei due Righeira, autori di altri tormentoni come "L'estate sta finendo"
Stefano Righi, uno dei due Righeira, autori di altri tormentoni come "L'estate sta finendo"

Estate 1983. Un uragano invade la Penisola e si propaga in tutto il mondo. È Vamos a la playa il tormentone estivo più famoso degli ultimi decenni. La canzone compie quest’anno 30 anni e le rendiamo omaggio con un’intervista al suo autore Johnson Righeira, al secolo Stefano Righi. Una favola musicale che nasce dalle cantine torinesi e finisce in vetta all’hit parade.  

-Chi era Stefano Righi prima di incontrare Stefano Rota e formare i Righeira?
«Un ragazzo che frequentava il liceo scientifico, amava il calcio e la musica. Righeira era il soprannome con cui mi chiamavano i miei amici quando giocavano le partite e Johnson l’ho scelto io per dare un tocco anglofono. In quegli anni, stiamo parlando della fine degli anni Settanta, bazzicavo la scena underground torinese. Al liceo fui bocciato, finii nella classe di Stefano Rota: facemmo amicizia, iniziammo a suonare e ad esibirci insieme. I Righeira sono nati così».  

-Veniamo a Vamos a la playa: come è nata l’idea?

«In una cantina di Torino, esattamente in via Accademia Albertina, dove ci riunivamo a fare musica. Il celebre "Vamos a la playa oh oh oh oh oh!" mi è venuto mentre ero seduto alla tastiera. Nel primo provino della canzone era molto più dark, secondo la moda di quegli anni, anche se aveva già una struttura techno». 
 
-Eri sicuro di avere una canzone destinata a diventare un successo?
«Un successo magari no, ma sentivo di aver avuto una bella idea. La nostra fortuna fu quella di incontrare i fratelli La Bionda, due produttori discografici di gran fiuto. Ci fecero cambiare l’arrangiamento dark con uno più solare che mettesse anche in risalto l’ironia dei Righeira. Incidemmo il disco nella primavera 1983: il resto è storia».  

-Perché quel pezzo era così contagioso?
«Per la sua semplicità, l’immediatezza. Tutte le cose semplici, che poi semplici non sono da scrivere e realizzare, entrano subito dentro. Vamos a la playa al tempo ha venduto 3 milioni di copie in tutto il mondo. Anche in Inghilterra abbiamo sfiorato la prestigiosa Top of the Pop».  

I dischi dei Righeira che nel 1986 parteciparono anche a Sanremo.
I dischi dei Righeira che nel 1986 parteciparono anche a Sanremo.

-Cosa vuol dire all’età di vent’anni passare dall’anonimato alle vette della hit parade? «Abbiamo inciso il disco e siamo partiti per il servizio militare. Approfittavamo delle licenze per andare al Festivalbar o a qualche spettacolo televisivo. Mentre Vamos a la playa svettava in classifica e ci cambiava la vita noi avevamo a che fare con marce e contrappelli. Alla fine della leva eravamo diventati due star senza nemmeno accorgercene».    

-I Righeira erano famosi anche per i loro look egocentrici. Li  inventavate voi? «Assolutamente sì. Eravamo influenzati dalla new wave inglese anche nel look, poi lo personalizzavamo in modo ironico e stravagante». 

-Oggi, nell’era del talent show, sarebbe possibile un successo come quello dei Righeira?
«Due tipi come i Righeira non riuscirebbero a imporsi in un talent show. Adesso è tutto più impostato, si punta molto sulla tecnica. Noi due sapevamo cantare a malapena, ci siamo buttati con passione e incoscienza: forse negli anni Ottanta si poteva, ora non più».

-I Righeira fanno ancora musica, vero?
«Certo, i Righeira suonano ancora. Gli anni Ottanta sono diventati un cult: alle nostre serate vengono ad ascoltarci quelli che erano piccolissimi al tempo di Vamos o magari non erano neanche nati».  

Per finire, a trent’anni di distanza che rapporto hai con Vamos a la playa?
«Allora l’amavo per il piacere di avere azzeccato un’idea di successo. Oggi sono riconoscente a questa canzone perché mi ha aperto la strada nel mondo della musica e mi consente ancora di offrire emozioni a molte persone».  

Giorgio Trichilo
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