"Yoolé", il sacrificio dei giovani migranti

Al Festival del cinema africano di Milano il regista senegalese Moussa Sene Absa, in concorso con un documentario, critica la politica del suo Paese e le promesse non mantenute.

25/03/2011
Il regista senegalese Moussa Sene Absa.
Il regista senegalese Moussa Sene Absa.

    Partono perché non hanno più sogni nella loro terra. Partono perché non sopportano più l'idea di restare a casa, mantenuti dai loro genitori o dai fratelli più piccoli che magari un lavoro ce l'hanno. Partono perché le promesse politiche di chi sta al governo nel loro Paese si sono rivelate menzogne e li hanno disgustati, perché i politici non fanno che litigare, discutere, senza arrivare a nessuna soluzione, perché all'orizzonte non vedono altro che disoccupazione. Spesso sono le madri, oppure le zie, che raccolgono i soldi per il loro viaggio e li spingono a prendere il largo. Perché magari i conoscenti, i figli di altre famiglie l'hanno già fatto. E restare a casa, allora, diventa quasi una vergogna, un segno di viltà. Alcuni lasciano una fidanzata incinta di pochi mesi; altri si imbarcano per accompagnare un fratello che ha deciso di emigrare.

     E' l'odissea dei giovani migranti, dei ragazzi senegalesi che si affidano alle barche nell'Oceano per raggiungere le coste della Spagna, il miraggio dell'Europa. Noi siamo abituati a guardare il dramma dell'immigrazione nella sua fase finale, quando i barconi carichi di uomini e donne - sempre che siano riusciti a vincere il mare, la fame e la sete - arrivano sulle nostre coste.  Il regista senegalese Moussa Sene Absa, che oggi vive e insegna cinema sull'isola Barbados, ci mostra invece il punto di partenza, la genesi del viaggio e i motivi che muovono i giovani senegalesi a tentare la via del mare, sfidando la morte tra le onde, per raggiungere il nostro continente.

     Il film-documentario che Absa ha presentato al Festival del cinema africano, d'Asia e America latina a Milano si intitola Yoolé, ovvero "sacrificio", e prende avvio da una tragedia del mare: nel 2004 sulle coste di Barbados, tra il Mar dei Caraibi e l'Oceano atlantico, viene trovata alla deriva un'imbarcazione con undici cadaveri. La barca era partita quattro mesi prima dal Senegal, trasportando con sé i sogni e le illusioni di un gruppo di giovani che volevano arrivare in Spagna, in Europa. Per comprendere quella tragedia Absa è tornato in Senegal da solo, armato di una piccola videocamera, ha incontrato i giovani connazionali, li ha intervistati chiedendo loro di esprimersi sulla politica del presidente Abdoulaye Wade, sulle loro speranze e le loro disillusioni.

     Yoolé è un documentario di grande urgenza, perché oggi, quando si parla di Africa, è impossibile non pensare al problema delle migrazioni. Per noi ma anche per i registi africani. «Tra il 2005 e il 2006 sono morti nel mare più di 12mila giovani senegalesi», dice il regista, «per me questo film è molto importante: è un colpo al cuore e un pugno nello stomaco. Non volevo fare un film politico, ma un regista che non si interessa dei problemi del suo popolo non è un buon regista. Un artista deve guardare in faccia la sue gente e raccontare loro cosa sono».

    La tragedia dei migranti a Barbados aveva aperto il campo a molte domande: perché in Senegal, dove non c'è la guerra, dove esiste la libertà religiosa, dove si vive meglio che in altri Paesi africani, i giovani vogliono scappare via? La risposta di Absa è un atto di accusa verso il presidente Wade, una critica molto forte e senza mezzi termini verso chi detiene il potere nel suo Paese, verso l'incapacità della politica di rispondere alle frustrazioni della nuova generazione. «L'emigrazione è un problema politico», spiega il regista, «il presidente Wade ha 85 anni, ha un passaporto francese, sua moglie è francese, i suoi figli sono francesi. In fondo, loro cos'hanno da perdere? I giovani che partono sono vittime di una menzogna. La soluzione del problema della migrazione può essere solo un cambiamento politico e istituzionale». Yoolé non è arrivato nelle sale cinematografiche senegalesi ma, dice il regista, «alle alte sfere della politica certamente non è sfuggito». 

     Giorni fa il Senegal è sceso in piazza. Il 19 marzo, undicesimo anniversario dell'elezione di Wade alla presidenza, a Dakar tra 4.000 e 5.000 senegalesi hanno manifestato per le strade contro il Governo. Il Paese vive un momento di profonda tensione socio-politica in vista delle elezioni presidenziali del 2012: Wade, che è in carica dal 2000 ed è stato rieletto nel 2007 (dopo la riforma constituzionale che ha portato da sette a cinque anni il mandato presidenziale), vuole ripresentarsi per la terza volta il prossimo anno, ma l'opposizione è decisa a impedirglielo perché un terzo mandato sarebbe incostituzionale (i sostenitori di Wade dicono che il periodo in carica andrebbe conteggiato a partire dal 2007).

    In Senegal domina un clima di malcontento per i frequenti tagli alla corrente elettrica che mettono in crisi l'economia. E nelle periferie di Dakar i giovani da mesi manifestano per esprimere la mancanza di speranza in un Paese dove il tasso disoccupazione è arrivato al 40 per cento. Nessuno si aspetta che le proteste di piazza portino a una rivoluzione come nel Maghreb, in un Paese abituato alla transizione politica pacifica. Ma forse qualcosa si sta muovendo. «I giovani ormai sono arrivati all'esasperazione», commenta Moussa Sene Absa, «se nel Paese ci sarà mai una rivolta, non sarà qualcosa di pianificato, sarà una rivolta spontanea e violenta».   

Giulia Cerqueti
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