15/10/2012
Una scena corale dell'"Olandese volante" che ha inaugurato il Regio di Torino.
L’Olandese volante di Wagner che ha inaugurato la stagione del Regio di Torino ha proposto, per la prima volta in Italia, la memorabile regia che Willy Decker aveva creato per l’Opéra Bastille nel 2000. L’allestimento si risolve in un’ampia stanza triangolare tutta bianca, completamente spoglia tranne una grande marina appesa a una parete: è un modo per ridurre drasticamente le spese, consigliabile ai teatri italiani in perpetua crisi finanziaria. In un ambito così ristretto si affollano i sei personaggi, nonché le amiche di Senta e gli equipaggi delle due navi, la cui esistenza si intuisce attraverso una gigantesca porta laterale, aperta tanto sul mare quanto sui misteri dell’inconscio.
Senta, l’eroina dell’opera, dovrebbe essere attratta in maniera ossessiva da un grande quadro riproducente l’Olandese, che però non c’è. Al suo posto c’è un ritrattino che Senta porta con sé come una specie di talismano. La visione di Decker privilegia, per la verità molto discutibilmente, una chiave di lettura onirica e psicanalitica, che, pur stravolgendo il realismo wagneriano, ha comunque il vantaggio di semplificare gesti e comportamenti, anche a costo di sacrificare quasi del tutto la presenza incombente del mare.
Stupisce infine la morte di Senta, che non si sacrifica per la redenzione dell’amato Olandese, bensì più prosaicamente si pianta un coltello in petto. Una sgradevole caduta di stile, che Decker poteva evitare.
Peccato davvero, perché ne è uscita almeno in parte contaminata la sostanziale perfezione di uno spettacolo fra i migliori visti al Regio.
La scena finale dell'opera.
Merito innanzitutto di Gianandrea Noseda, che ha scelto di dare l’opera
in un atto unico e si è rivelato padrone assoluto dell’orchestra,
mantenuta costantemente in un coerente stato di tensione. Molto efficace
il coro condotto da Claudio Fenoglio, salutato alla fine da
un’interminabile ovazione del foltissimo pubblico, estesa senza
eccezione a tutta la compagnia.
In realtà qualche rilievo è d’obbligo: per esempio verso il tenore
Stephen Gould, accettabile nei primi due atti, molto meno nell’ultimo,
dove si è purtroppo avvertita una reiterata tendenza al grido
incontrollato. D’altronde la presenza di Steven Humes risultava
fuorviante, poiché la parte di Daland richiede una voce di autentico
basso non inquinata a spiacevoli inflessioni tenorili. Azzeccata
viceversa la scelta di Mark S. Doss, fisicamente perfetto e vocalmente
felice nel suo canto, se non sufficientemente potente almeno vario nel
fraseggio e pertinente nei momenti lirici. Il gradevole timoniere di
Vicente Ombuena e la non disturbante Mary di Claudia Nicole Bandera
completavano il cast, dominato dall’eccellente vocalità di Adrienne
Pieczonka, una cantante canadese dalla voce intensa di schietto soprano
lirico, salda nel centro caldo e vibrante e svettante nel registro
acuto, messo a dura prova nel tempestoso finale.
Giorgio Gualerzi