13/09/2010
Un'immagine tratta dal film "Somewhere", di Sofia Coppola.
A 36 ore dalla contestata chiusura della 67° Mostra del cinema di Venezia, con tanto di gestaccio del presidente della giuria Quentin Tarantino ai giornalisti che ne contestavano l’operato, non si può dire che il Leone d’oro a Somewhere di Sofia Coppola sia immeritato. Questa storia della redenzione di un giovane attore hollywoodiano, attraverso l’amore per la figlia dodicenne, è un film tanto “pensato” quanto ricco di sfumature e di emozioni. Insomma, merita di essere visto in sala. Ed è stato una delle pellicole migliori viste al Lido, pur nell’ambito di un’annata cinematografica non eccelsa (come già evidenziato dal Festival di Cannes).
Applausi convinti aveva raccolto La versione di Barney, con Paul Giamatti e Dustin Hoffman nei panni dei personaggi dello scrittore canadese Mordecai Richler. Ma i festival sono refrattari alle commedie e chi fa ridere raramente busca un premio. Di meglio, a parer nostro, c’era soltanto il film cileno Post mortem del regista Pablo Larraìn. Pellicola coraggiosa, fredda, a tratti dura ma intrisa di lacerante umanità che racconta i tragici giorni del golpe di Pinochet da un particolare punto di vista: la grigia testimonianza del funzionario, senza qualità, che redige il referto dell’autopsia sul corpo del presidente assassinato Salvador Allende. Negli angusti locali della morgue di Santiago si accatastano centinaia di cadaveri, eppure l’omino ha altro a cui pensare: la passione che prova per la sfiorita ballerina sua vicina di casa, come proteggerla dalla violenza di quelle giornate, come punirla dopo aver scoperto che ama un altro. Intanto, la Storia gli passa accanto. Questa parabola, su come l’uomo chiuso nel proprio “io” lasci che accadano le cose più ignominiose, è stata acquistata a Venezia dalla Archibald, che la distribuirà da noi il prossimo inverno.
Avrebbe certo rastrellato qualche premio Vallanzasca – Gli angeli del male di Michele Placido, che però era fuori concorso. Per le belle prove d’attore di Kim Rossi Stuart, Francesco Scianna, Valeria Solarino, Filippo Timi e per la suggestiva ricostruzione d’epoca di questo gangster’s movie, che offre uno spaccato sociale dell’Italia anni ’70 e di una realtà carceraria che non ammette riabilitazioni. A dimostrazione di come non sia vero, come sostenuto da certi critici disfattisti, che il cinema italiano sia uscito a pezzi da Venezia.
Dei film in gara, solo La pecora nera di Ascanio Celestini è parso al di sotto delle attese. Noi credevamo, kolossal risorgimentale di Mario Martone, è piaciuto per lo sguardo alternativo su vicende tragiche spesso stereotipate sui libri di storia. La Passione di Carlo Mazzacurati ha strappato sorrisi e divertimento grazie alle istrioniche interpretazioni di Silvio Orlando e Giuseppe Battiston. Così come l’interpretazione di Alba Rohrwacher nei panni di Alice basta da sola a giustificare il prezzo del biglietto per La solitudine dei numeri primi.
Se al direttore Marco Müller e al presidente della Biennale Paolo Baratta non si può certo far colpa del modesto livello di tanti film, a loro invece va addossata la responsabilità di un’edizione rabberciata. Atmosfera da "Morte a Venezia" (citando Visconti) più che da gioiosa festa del cinema! Va bene la penuria di finanziamenti rispetto a Cannes, ma i difetti tecnici di tante proiezioni sono imperdonabili. Per non parlare di sovrapposizioni di orario e della inadeguatezza del PalaBiennale: una tensostruttura ormai scricchiolante che soffoca i dialoghi del film quando la pioggia crepita sul tendone.
E poi il cantiere abbandonato del futuro Palazzo del cinema, vero pugno in un occhio: monumento a quel vuoto di cassa che mette a rischio la realizzazione di un’opera che avrebbe dovuto celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia. Mai poi si erano visti così tanti vuoti nei viali attorno al Casinò e all’Excelsior: segno di come una buona parte degli accreditati (3.427 giornalisti con più 17 per cento di spettatori paganti) abbia optato per una presenza tipo “toccata e fuga”, scoraggiati dai costi proibitivi e dalla pochezza dei servizi. Non è insomma questione di concorrenza con Cannes e di polemiche col Festival di Roma: il vero problema è che questa Mostra sembra capace di farsi male da sola con la sua trasandatezza.
Maurizio Turrioni