Cinema: Cannes secondo noi

Il Palmarès di Famiglia Cristiana. Prima che la giuria ufficiale si pronunci (il 26 maggio alle 20). E anche dopo: per verificare se si è stati buoni profeti o se i gusti divergono.

Tante delusioni, ma anche tanti buoni film

26/05/2013
Emmanuelle Seigner in una scena di Venere in pelliccia di Roman Polanski.
Emmanuelle Seigner in una scena di Venere in pelliccia di Roman Polanski.

Segnali confortanti per il cinema. Quest'anno, la Croisette è stata affollata più del solito: segno che, malgrado la crisi, c'è voglia di reazione. Da tempo poi non si vedevano così tante buone pellicole come nella selezione ufficiale di questo 66° Festival di Cannes. Per carità, le delusioni non sono mancate. Uno su tutti, il danese Nicolas Winding Refn che, celebrato frettolosamente come un maestro dopo il successo di Drive, è tornato col suo attore feticcio Ryan Gosling presentando in concorso Only God Forgives: bellissima fotografia ma storia di sconcertante banalità, tra vendicatori e giustizieri che si inseguono nei vicoli notturni e nei locali labirintici di Bangkok. Una via di mezzo tra certi film asiatici oggi di moda, tutti kick-boxing e kung-fu, e gli stilemi del cinema di Tarantino. Senza però l'ironia di fondo di Quentin. Risultato? Un gelido guazzabuglio di sangue e mutilazioni.

Ecco, il dato che emerge prepotente dalle immagini di tanti film sulla Croisette è la sovrabbondanza di violenza. Una ferocia che attraversa molte delle storie proposte come se, dopo ciò che ci propina ogni giorno la Tv, il cinema non possa far altro che accrescere le dosi per fare effetto sullo spettatore. Si spiegano così le reiterate crudeltà del film olandese Borgman, del giapponese Shield of straw (Scudo di paglia) e perfino del cinese A touch of sin (anche se Jia Zhangke le utilizza per narrare il diffuso disagio di una Cina che rischia di perdere i suoi valori nella corsa sfrenata verso il benessere capitalista). Altro dato spiazzante la diffusa presenza di scene di sesso, prolungate ed esplicite, fin quasi a sfibrare la resistenza dello spettatore. Nel film Jeune & Jolie del francese François Ozon: storia di una ragazza borghese che si prostituisce ma non per soldi. In L'inconnu du lac del'altro francese Alain Guiraudie: in gara nella sezione Un certain Régard ma capace con  dell'ace di mettere a disagio l'intero festival con un'ora e mezza di dettagli nei rapporti omosessuali tra maschi. E anche ne La via d'Adèle del franco-tunisino Abdellatif Kechiche: qui almeno non c'è volgarità, anche se l'intensa storia d'amore tra due ragazze indugia fin troppo su tenerezze e particolari anatomici facendo deragliare il film dal realismo emotivo al sospetto voyeurismo.

Messo da parte il ciarpame, nella rete del festival sono comunque rimasti impigliati tanti buoni titoli, capaci di affrontare con durezza la realtà puntando sulla brutalità dei sentimenti o della loro assenza. La grande bellezza, di cui abbiam detto, è piaciuto alla critica internazionale e magari potrebbe tornare a casa col premio per la miglior regia (viste le personalissime scelte stilistiche di Sorrentino). Diamo poi per scontato il premio del miglior attore a Michael Douglas, funambolico e toccante nell'interpretare il pianista Liberace in Behind the candelabra di Steven Soderbergh (magari ex aequo con Matt Damon, che gli fa da degna spalla).

Purtroppo, quasi altrettanto scontato il premio della migliore interpretazione femminile a Léa Seidoux e Adèle Exarchopoulos per il film scandalo La via d'Adèle, osannato dai cinefili. In realtà, per noi l'attrice più meritevole è di gran lunga Emmanuelle Seigner in Venere in pelliccia, il nuovo film di Roman Polanski che ha chiuso in bellezza il concorso: due personaggi in scena, un intellettualoide regista di teatro (Mathieu Amalric) e un'attricetta male in arnese, presentatasi perfino fuori tempo massimo alla fatidica audizione. In un crescendo di duelli verbali e di tensione emotiva, l'audizione si svolgerà lo stesso, in piena notte. Per il malcapitato regista sarà memorabile. Una sorta di Carnage a due voci, invece che quattro. Un pezzo di bravura che dovrebbe valere a Polanski almeno il premio per la migliore sceneggiatura.

I tre premi maggiori del Palmarès, se esiste una logica nel lavoro di una giuria, cosa non garantita neppure se a guidarla è Steven Spielberg (nella foto di copertina di questo servizio), dovrebbero però andare ai film più belli che si sono visti sulla Croisette: Nebraska di Alexander Payne, Inside Llewyn Davis dei fratelli Coen e Le passé dell'iraniano Ashgar Farhadi. Ecco come li attribuiremmo noi, alla vigilia: il nostro personalissimo Palmarès.

Maurizio Turrioni
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