24/04/2012
Il telescopio spaziale Hubble
È stato un clamoroso successo, un caso unico nella scienza, quello di uno strumento che ha saputo rigenerare sé stesso. Eppure all’inizio, nel 1990, l’impresa sembrava destinata a un angoscioso fallimento. Stiamo parlando del telescopio spaziale, battezzato Hubble, in onore dello scienziato che scoprì come l’universo si sta espandendo. Di questo telescopio spaziale, in vent’anni, abbiamo scritto tanto anche su queste pagine sia perché ci ha letteralmente portato l’universo in casa, sia per il ruolo che vi hanno giocato gli italiani. Per molti anni infatti è stato direttore di questo progetto il premio Nobel Roberto Giacconi ed ora ne è responsabile scientifico la veneziana Antonella Nota.
Lo specchio di Hubble ha un diametro di 2,4 metri, un nulla rispetto agli 8 metri dei grandi telescopi basati a Terra. Suo esclusivo è però il vantaggio di librarsi sopra l’atmosfera e tutti i disturbi che questa ha sempre comportato per gli astronomi. Ci si aspettavano pertanto immagini nitide come non mai, invece le prime si rivelarono fosche e tutti i tentativi di focalizzare il telescopio si mostrarono vani.
«La disperazione», ricorda Antonella Nota, «si trasformò in sfida. Si approfittò di un’altra particolarità dello Space telescope: era stato progettato per essere riparato in orbita e gli astronauti avrebbero potuto andarci per cambiare strumenti ed eseguire modifiche. Maniglie erano state collocate all’esterno per dare una presa, i vari strumenti erano modulari ed estraibili, una serie di portelloni rendeva facile l’accesso».
Dal 1990 Hubble è stato “ricondizionato” cinque volte da 16 astronauti, per un totale di 23 passeggiate spaziali, al costo di 9,6 miliardi di dollari (fonte Nasa). Il telescopio è stato così mantenuto sulle frontiere della scienza perché quasi tutte le sue parti sono state sostituite e aggiornate. Non solo: sono stati rimodulati da terra il software e le interfacce di accesso agli archivi sicché oggi è possibile esaminare con occhi assai più potenti immagini ottenute magari 15 anni fa.
Il nuovo spettrografo, installato nell’ultima missione del 2009, potrebbe addirittura rivelarci la natura di quella materia oscura che avvolgerebbe l’universo e che è ancora poco compresa. «Dopo oltre vent’anni», conclude la dottoressa Nota, «possiamo dire che Hubble ci ha insegnato a trasformare un fallimento in vittoria. E quindi anche a guardare meglio dentro noi stessi».
Ida Molinari