Le potenzialità buone della violenza

La violenza è positiva, se porta comunque a instaurare una relazione. O negativa, se annichilisce l'altro. Ne abbiamo parlato con il professor Paolo Mottana a margine di un convegno.

23/11/2011
Il professor Paolo Mottana, docente di filosofia dell'educazione all'Università Bicocca di Milano.
Il professor Paolo Mottana, docente di filosofia dell'educazione all'Università Bicocca di Milano.

“Spacco tutto! Violenza e educazione. È possibile esprimere la rabbia in forme non distruttive?” è il titolo di un convegno che avrà luogo da domani, 24 novembre, fino a venerdì 25 all’Università Bicocca di Milano. Come interpretare la violenza del branco, il bullismo e altri comportamenti dei giovani ispirati dall’aggressività? È un’anomalia di oggi? Quante forme di violenza esistono? Come valutare la violenza? E come educarla? Di questo e di altro parleranno fra gli altri relatori come René Schérer, don Andrea Gallo, Laura Formenti e Paolo Mottana, docente di filosofia dell’educazione, che ha organizzato il convegno. Con quest’ultimo abbiamo parlato del tema della violenza.

- Professor Mottana, da dove è partita l’idea del convegno?
«L’idea è quella di dare un contributo per risvegliare l’odierna pedagogia, che è a mio avviso ancora troppo autoreferenziale – cioè ancora molto legata a elementi tecnici e specialistici come la relazione, il curriculum, la valutazione, etc. ­– e di farlo attraverso un tema come la violenza, che è una delle grandi questioni del nostro tempo, di enorme impatto sociale e civile, con un notevole fascino comunicativo e una capacità di impressionare il pubblico. Sulla violenza, soprattutto quella giovanile, non si scorgono però ancora problematizzazioni significative».
- I ragazzi sono più o meno violenti di qualche decennio fa?
«Non credo che i giovani siano più violenti oggi di ieri. La violenza è un fattore strutturante e imprescindibile della vita umana, ancor prima dell’esperienza culturale. È una nozione problematica, che ha assunto nella storia varie forme. Pensiamo all’idea positiva che ne ha ad esempio l’Iliade, una delle grandi narrazioni della cultura greca, dove la violenza bellica fa da sottofondo a tutto il poema. Nella nostra società la forma della violenza non ha invece più uno “spazio psichico” capace di recepire i suoi volti e le sue forme. La nostra società si dice pacifista, anche se poi alimenta guerre ovunque. L’evento bellico è considerato come qualcosa che deve scomparire, sparire dalla nostra vista. Io ritengo invece che la violenza abbia bisogno di una sua elaborazione e oggi, purtroppo, dobbiamo constatare che ci troviamo nella situazione in cui non abbiamo più un codice simbolico con cui interpretarla. Nelle culture del passato l’educazione aveva nel suo orizzonte e per sua natura la dimensione della violenza. Pensiamo, solo a titolo di esempio, al ruolo delle arti marziali nelle civiltà orientali e alla consapevolezza delle loro implicazioni valoriali, etiche, narrative e letterarie che fanno ancor oggi da costellazione alla violenza che esprimono. La nostra società ha invece scisso il tema, riservando ad alcuni l’esercizio della guerra e sottraendo agli altri la possibilità di dialogare con questa dimensione della violenza».
- Cos’è allora la "violenza"?
«La violenza, nella sua valenza positiva, è una forma di affermazione dell’energia molto forte nell’infanzia e nella gioventù e si esprime con la provocazione, la rottura, il conflitto, la schermaglia. Tutto questo però senza mai annichilire l’altro. Ma può assumere anche una forma negativa, quella della brutalità, della repressione sistematica inscritta, ad esempio, nei dispositivi di potere del nostro sistema, che conduce poi a reazioni di violenza altrettanto brutale. Questo secondo tipo di violenza diventa alla fine una forma di negazione dell’altro, completamente incapace di riconoscere l’alterità, di vedere nell’altro qualcuno dotato di una propria soggettività».
- Lei diceva che la nostra cultura ha smesso di fare i conti con la violenza. Cosa significa?
«Intendevo dire che non esiste nella nostra società un’elaborazione della rabbia e dell’aggressività espressa dagli uomini e dai giovani. Non riusciamo più a dare loro nome, forma, espressione alla violenza, insomma a parlarne, a fornire un esercizio di elaborazione su questa fondamentale forma dell’esperienza. Questo comporta che, quando poi essa riemerge, lo faccia trasformando questi fatti in mostruosità. Lo stesso vale per tutte le altre esperienze del male, che la nostra cultura ha demonizzato: la morte, la malattia, la sofferenza, la violenza. Anch’esse, quando riemergono, lo fanno in maniera catastrofica. L'aumento dei casi di depressione, forse, è da ascriversi proprio  a questo fenomeno».
- Può essere “integrata” la violenza?
«A mio avviso sì, cercando però di capirla bene e in profondità. Prendiamo ad esempio la manifestazione contro la finanza internazionale del 15 ottobre scorso a Roma. Lì c’erano diverse violenze sul campo: la violenza del sistema finanziario, che crea povertà in tutto il mondo, la violenza dei black bloc, quella della polizia… Questa conflittualità di forze ha una sua legittimazione e andrebbe dibattuta, come ad esempio avveniva negli anni ’70, non semplicemente demonizzata come è successo al contrario in quell'occasione. Non si può insomma vedere il bene tutto da una parte e il male tutto dall’altra».
- Come vede oggi i giovani?
«La questione cruciale, a mio avviso, è che mai come in questo tempo i giovani e i bambini sono "sorvegliati", controllati. E questo succede dalla nascita fino all’età adulta. Le molte agenzie educative e l’organizzazione delle nostre città nega loro uno spazio dove rifugiarsi, stare da soli, sfogare la loro energia in libertà e la loro esuberanza al di fuori dei luoghi convenzionali. Manca insomma la dimensione “selvatica” della vita, la libertà, l’espressività della violenza, che è un elemento intrinseco della vita, oggi però bloccato sul nascere. La violenza dei giovani nella sua forma positiva viene "castrata" in anticipo, con l’irregimentazione, la sublimazione… I giovani dovrebbero invece imparare a esercitare una sorta di “arte della guerra”, intesa nel senso giusto naturalmente. La bellicosità, in definitiva, deve trovare spazi di espressione autentici».
- Da qui il bullismo?
«Credo che il bullismo sia una risposta organica all'attuale organizzazione scolastica, costruita su un sistema disciplinare forte, che però non riesce a farsi capire, a comunicare il suo senso. I bulli secondo me sono ragazzi che più di altri sentono proprio il carattere repressivo della scuola. Sono i più esuberanti, quelli con una personalità più forte che devono esprimere questa aggressività verso i più inermi. Occorrerebbe,a mio avviso, rivedere la qualità dell’esperienza scolastica».
- In che modo?
«Proponendo ad esempio delle esperienze a cui i bambini e i ragazzi possano appassionarsi, che possa coinvolgerli agganciando i loro desideri. La dimensione intellettuale continua nella nostra scuola a dominare i criteri di insegnamento ma credo che sia ormai superata dai fatti: oggi non si apprende più in modo deduttivo e sequenziale ma in modo magmatico, disorganizzato, attraverso centri di interesse che si collegano fra loro in maniera associativa. Tutto questo richiede un enorme sforzo di revisione per abbandonare l’artificialità della scuola: io credo a un tessuto sociale che aiuti a elaborare, a istanze mobili con insegnanti che diventino piuttosto dei facilitatori per i ragazzi, dove viene loro lasciato il giusto spazio a una serie di esperienze corporee, immaginative, creative, espressive... Dove le immagini, le narrazioni, il teatro e l’esercizio - anche dell’aggressività - possano avere, insomma, il loro giusto spazio di elaborazione».

Stefano Stimamiglio
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