Maestri ed educatori? Ancora troppo pochi

Sono solo il 13 per cento i maschi iscritti ai corsi di laurea per professioni con compiti di cura nel campo dell'insegnamento, campo tipico delle donne.

14/03/2012
Foto Thinkstock
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Maschi poco presenti nei mestieri legati alla cura degli altri. Uomini che si vedono sempre di più sulle passerelle di moda o dall'estetista, sempre di meno nei corsi universitari che formano gli educatori e gli insegnanti (in Italia è maschio solo il 13% del totale degli iscritti), ambiti che restano prerogativa strettamente femminile. Quali le cause? E, soprattutto, in che modo l'esercizio di una professione di cura modifica la rappresentazione della mascolinità che gli uomini hanno di sé stessi? Di questo si discute oggi al convegno “Uomini in educazione”, in corso all'Università Milano-Bicocca, che ospita esperti di pedagogia e studi di genere, operatori e studenti: una giornata di studio organizzata da Stefania Ulivieri, docente di Teorie e modelli della consulenza pedagogica, e Barbara Mapelli docente di Pedagogia delle differenze di genere. Tra i conferenzieri presenti: Duccio Demetrio, docente di Filosofia dell’educazione, Salvatore Guida di Pedagogika, Alessio Miceli di Maschileplurale.

Il rapporto tra maschile e cura educativa è irto di ostacoli», spiega Barbara Mapelli. «La cultura tradizionale ha tenuto gli uomini lontani da questo tema e occorre indagare fino in fondo su quanto il retaggio sia ancora vitale, nonostante la forte richiesta di uomini in alcuni settori lavorativi. Ad esempio, gli educatori di strada si dovrebbero muovere in coppia, ma è sempre più difficile che ciò si realizzi perché mancano i maschi». La causa è dunque da attribuire a una visione culturale di genere ancora ben ancorata al passato, a cui si aggiunono motivazioni più empiriche: «Le professioni di cui si parla sono a basso reddito e non vedono progressione di carriera». Due elementi di pressione sociale molto interiorizzati. «Dunque chi sceglie di iscriversi a una facoltà come Scienze della formazione - prosegue Barbara Mapelli - vede sé stesso come un individuo eccezionale, controcorrente. Si sa di andare incontro a difficoltà, anche successive: le donne, in primis, sono diffidenti nell'affidare a un uomo un compito che nell'immaginario comune non gli appartiene». Si va avanti a colpi di stereotipi che generano circoli viziosi: pochi uomini si prendono cura, i più piccoli vedono in mezzo a loro solo figure femminili adulte e a loro volta avranno l'idea di una netta divisione di compiti per il futuro. La presenza di educatori di entrambi i generi offrirebbe invece a bambini e bambine la possibilità di acquisire una complessità maggiore nella visione del mondo, negli stili di vita, nell'emotività, nella fisicità, nella comunicazione e una maggiore possibilità di scelta.

Ma che cosa ne pensano i diretti interessati? Parlano chiaro i risultati della ricerca svolta all’interno della facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Milano-Bicocca e realizzata con studenti e operatori di sesso maschile attraverso la metodologia del focus group: «Il primo dato che emerge - spiega Stefania Ulivieri - è stato il coinvolgimento e la partecipazione riscontrata nella realizzazione di essa stessa da parte degli uomini, che hanno dimostrato un gran bisogno di diventare protagonisti del proprio percorso». Il lavoro svolto, più qualitativo che quantitativo, ha messo in rilievo soprattutto le dimensioni di senso: «Chi approda qui arriva da un cammino - prosegue Stefania Ulivieri - elabora la propria posizione di ruolo e di un maschile non tradizionale, ma ricco e variegato. Inoltre riconosce che anche nel mondo del sociale e del lavoro l'uomo si ritrova appiccicato addosso un ruolo maschile stereotipato: gli uomini educatori da un lato sono ricercati, ma poi vengono messi a fare cose che si pensano tipicamente maschili, più legate al fare, che impoveriscono le loro possibilità». È un passagio importante quello che percorre chi approda a un mestiere di cura, che non manca di risvolti positivi: «Il mestiere di educatore spesso si porta dietro un ampio spazio riservato all'autonomia professionale, alla decisionalità, a gerarchie paritetiche e più simmetriche, cosa che sta diventando via via sempre più apprezzata e ricercata da molti uomini. Chi sceglie questo ambito di studio non si pensa maschio ma persona a tutto tondo, supera un'idea di genere riduttiva e si apre a nuove opportunità da esplorare». Senza credere che gli uomini e le donne siano intercambiabili: «Le differenze naturalmente ci sono - prosegue Stefania Ulivieri -, ma più sottili e più profonde di quelle a cui siamo abituati. Sarebbe importante integrare queste differenze, mentre si tende spesso a muoversi su due posizioni opposte: o fusione dei ruoli o distanza totale e polarizzazione. Anche il nostro sguardo non tiene conto della complessità: quella di genere è una delle tante differenze che esistono tra le persone».

Infine: quali le prospettive future? qualcosa oggi sta già cambiando? «Un piccolo segnale di miglioramento c'è : si nota un primo passaggio verso la cura di figli e la riscoperta della paternità nel privato, che col tempo si riverserà via via anche all'esterno, nella dimensione pubblica», conclude Stefania Ulivieri. «I tempi sono lunghi, ma oggi gli uomini che fanno questa scelta trovano meno ostacoli di una volta. Occorre sperimentare capacità nuove. Se si generalizza si nota una resistenza maschile, ma poi nel concreto si scopre che ci sono tante persone che hanno il coraggio di rischiare».

Maria Gallelli
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