Ru 486, l'aborto privatizzato

Secondo il Minsitero della Salute aumentano i casi di aborto chimico. Un modo per banalizzare e privatizzare un fenomeno che lascia le mamme sempre più sole.

11/10/2012

Uno dei dati che colpisce della Relazione sulla legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza presentata ieri dal ministro Renato Balduzzi è quello relativo all’utilizzo della pillola abortiva Ru486. Dai dati emerge che essa è stata usata nel 2010 in 3.836 casi (il 3,3% del totale delle IVG per il 2010) e in altri 3.404 casi nel solo primo semestre del 2011. Una media mensile in aumento: dai 426 casi del 2010 ai 567 del 2011. Le Regioni in cui è stata maggiormente assunta sono Piemonte, Emilia Romagna e Toscana, quelle che a suo tempo si sono più battute per la sua introduzione. «Un altro dato che colpisce è che sempre l’utilizzo della pillola abortiva Ru 486 è avvenuto con ricovero e dimissione nello stesso giorno, un modo grave di aggirare la legge», commenta Marina Casini, ricercatrice di bioetica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. «Risulta evidente che la Ru 486 è diventata uno strumento per banalizzare e privatizzare l’aborto esasperando al massimo il concetto di “libera scelta”. Andando peraltro contro la stessa legge 194 che, pur nella sua profonda ingiustizia, è stata fatta per contrastare la privatizzazione di questo fenomeno». Fenomeno, per inciso, che avveniva con le famose “mammane” e che proprio la 194 , si disse allora, intendeva combattere. Il riferimento, dunque, è ai colloqui preventivi e all’intervento chirurgico. Con la pillola abortiva questo evidentemente non avviene, se, come risulta dalla Relazione, dopo l’assunzione del primo ritrovato a base di mifepristone (che serve per la soppressione del feto) la donna viene lasciata sola nell’assunzione del secondo (a base di misoprostolo)  e quindi per l’espulsione del feto stesso. «La mamma deve espellere il bambino da sveglia e a casa, senza assistenza, sentendo i crampi e il dolore», aggiunge marina Casini. E provando lo shock di espellere un “corpo solido”, che, in ultima analisi, era il suo bambino. «Esiste poi il rischio di effetti collaterali», prosegue la ricercatrice, «tra cui gravi infezioni dei genitali anche in conseguenza del raschiamento, setticemia seguita da morte, dolore e crampi uterini, sanguinamento, disturbi del sonno, in un caso si è registrato persino un attacco cardiaco».

Un altro tema che la relazione non affronta è quello della cosiddetta “contraccezione d’emergenza”, un falso nome che nasconde una realtà ben diversa. Ci riferiamo alle cosiddette “pillola del giorno dopo” e “dei 5 giorni dopo”. «Viene contrabbandata come contraccezione d’emergenza, in realtà è potenzialmente abortiva perché elimina il possibile frutto di concepimento dopo un rapporto sessuale. Quindi,  se è iniziata la gravidanza, è un aborto». Un dato che, vista l’impossibilità di accertare se vi sia stato o no concepimento, non emergerà mai.

Quale allora la vera prevenzione contro l’aborto? «La vera prevenzione è vedere nell’embrione semplicemente un figlio, e questo è possibile anche grazie all’opera indefessa dei Centri di Aiuto alla Vita e a quella cultura della vita promossa anche dalla chiesa che sta facendo crescere nella popolazione una sensibilità crescente che vede, nella mamma e nel figlio concepito, due soggetti e non uno solo». L’iniziativa promossa, insieme ad altri soggetti europei, dal Movimento per la Vita italiano  e intitolato “Uno di noi” va esattamente in questo senso.

Stefano Stimamiglio
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