Morvillo: poi quella telefonata...

Alfredo Morvillo, fratello di Francesca e cognato di Falcone, ricorda il giorno della strage. E sulla lotta alla mafia...

22/05/2012
Alfredo Morvillo con Maria Falcone (foto Ansa).
Alfredo Morvillo con Maria Falcone (foto Ansa).

Esattamente vent’anni dopo, il nome di Francesca Morvillo è tornato drammaticamente in primo piano nella cronaca italiana. La scuola di Brindisi, dove ha perso la vita Melissa Bassi, è intitolata infatti alla moglie di Giovanni Falcone che alle 17.58 del 23 maggio 1992 saltò in aria a Capaci insieme al marito e ai tre agenti della scorta Rocco Di Cillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro. Francesca, 47 anni, era magistrato come il marito e il fratello Alfredo che, dopo otto anni da aggiunto a Palermo, ora è procuratore a Termini Imerese.

Nell’anniversario della strage Alfredo Morvillo mette in guardia dall’“antimafia delle parole” e rilancia: «Bisogna scindere la questione giudiziaria da quella etica».

- Che cosa significa?

«La prima riguarda le sanzioni verso i mafiosi che con le loro azioni hanno già causato danni alla collettività. Nella seconda, invece, si tratta di proteggere le istituzioni dal pericolo di essere inquinate in futuro da presenze mafiose o vicine alla mafia».

- In concreto, quindi, cosa si deve fare?

«Per prima cosa modificare l’articolo 416-ter sullo scambio elettorale politico-mafioso. Oggi viene punito solo chi chiede voti promettendo in cambio denaro. Ma la mafia non ha bisogno di offrire soldi per far votare chi piace a lei. Spesso, è l’esperienza delle inchieste a dirlo, i cittadini votano secondo le indicazioni dei boss senza ricevere denaro ma favori o promesse d’altro genere. Ecco, la legge dovrebbe sanzionare anche questo tipo di scambi».

- E la seconda cosa?

«Estendere la norma varata nel ‘91 sullo scioglimento dei comuni infiltrati dalla mafia a tutte le cariche elettive e non elettive, dal Parlamento ai consigli provinciali e regionali fino alle autorità di controllo. Se si arriva a sciogliere un intero consiglio comunale perché uno dei suoi membri ha rapporti diretti o indiretti con le cosche, perché non estendere questo principio anche alle persone in odor di mafia che si candidano ad occupare quei posti?».

- Più facile a dirsi…

«Appunto. In Parlamento ci sono alcune proposte di legge che vanno in senso contrario e vorrebbero depotenziare la norma sulle infiltrazioni negli enti locali».

- Torniamo a Giovanni Falcone. Suo cognato era un uomo solo?

«Dal punto di vista umano no, da quello istituzionale sì. È vero: a Palermo c’era un gruppo di colleghi, da Guarnotta a Di Lello fino ad Ayala, che lo supportava molto. Purtroppo però molti, per invidia o perché si sentivano messi in ombra, boicottavano le sue indagini soprattutto quando aveva capito che il fenomeno mafioso è unitario e va combattuto con due armi: giudici specializzati e centralizzazione a Roma come fece quando propose di creare la Procura nazionale antimafia».

- Quale fu il momento di maggiore delusione?

«Ce ne sono tanti. Uno, all’apparenza minore, è però significativo. Quando Falcone si occupò delle rivelazioni del pentito Antonino Calderone che parlava di Cosa Nostra come di un fenomeno unitario, il procedimento venne smembrato e diviso in vari filoni per sottrarglielo. Fu un boicottaggio in piena regola. In futuro, fior di studiosi confermeranno quello che lui aveva capito benissimo, che la mafia, cioè, è una sola, e come tale va combattuta da parte dello Stato, e che la sua vera forza risiede nelle relazioni esterne».

- La metafora della piovra.

«Già. Senza le relazioni esterne Cosa Nostra sarebbe una banda di spacciatori ed estorsori con un po’ di forza militare e basta. Quel che la rende potente sono tutte quelle persone che nella politica, nel mondo degli affari, in particolare in quello degli appalti, e nelle istituzioni si fa garante dei suoi interessi. Ecco perché i successi giudiziari e repressivi, che pure ci sono stati in questi anni, non bastano per sconfiggere la mafia. Occorre tornare alla questione etica e ragionare anzitutto in termini di prevenzione».

- Il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso ha detto che il governo Berlusconi meriterebbe un premio perché con le sue leggi ha consentito di sequestrare beni ai mafiosi per circa 40 miliardi di euro. È d’accordo?

«Grasso ha preso atto di ciò che tutti sappiamo, ossia che le leggi sulla confisca dei beni ai clan si sono rivelate molto efficaci. Questo, insieme all’attività di repressione, sono due patrimoni acquisiti dell’antimafia. Oggi quasi tutti i capi delle cosche sono stati arrestati e processati. Purtroppo però non basta».

- Che idea si è fatto sulla trattativa Stato-mafia?

«Non abbiamo prove concrete per affermare che ci sia stata. Dalle indagini della Procura di Caltanissetta emergerebbe che alle pressioni di Cosa Nostra per avere benefici carcerari per i boss alcuni uomini dello Stato avrebbero risposto senza opporre una netta chiusura. Siamo ben lontani però dal poter dire con certezza che ci fu una vera e propria trattativa con decisioni precise».

- Che ricordo ha di quel 23 maggio del ’92?

«Ero in Procura. Avevo appena parlato con un agente della Squadra Mobile perché seguivo un sequestro. Aspettavo che mi richiamasse. Invece arrivò un’altra telefonata…».

Antonio Sanfrancesco
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