Biografia del pastore che si fece Rais

Nato poverissimo, allievo delle scuole islamiche libiche e delle accademie militari inglesi, Muhammar Gheddafi ha dominato 40 anni di storia della libia. Ecco come.

20/10/2011

La tenda, che verrà presto imitata da qualche miliardario snob. Le tuniche, persino più intriganti di quelle del presidente afgano Karzaj, discusse e analizzate in rete dai blog specializzati in ultime mode. Il plotone tutto femminile di guardie del corpo, ragazze molto giovani e carine, sposate con figli, micidiali e prontissime a sacrificare la loro vita per la sua, come pare abbia fatto una di loro nel 1998 ad Atene, uccisa dalla pallottola di un attentatore. Persino i gadget, come la moneta da cinque dinar con lui in effigie, venduta a 125 dollari su E-Bay.


     Il nuovo Gheddafi viene consacrato anche così, con il meccanismo che in Occidente tipicamente certificano il successo di massa: la trasformazione da simbolo del trash in icona pop, da paria in divo. Non male per un uomo nato in piena guerra mondiale (7 giugno 1942, ma si fanno anche date che risalgono fino al 1938), nel deserto (a una ventina di chilometri a Sud di Sirte), in una tenda di pelli di capra, e il cui nome e cognome negli stessi dialetti arabi può essere scritto e pronunciato in 36 modi diversi.   


      Non è un caso, ed è comunque un segno, che tutto questo avvenga proprio nell’anno in cui il Colonnello festeggia i quarant’anni di potere, affermandosi così, dopo la morte del presidente Omar Bongo, padre-padrone del Gabon, come il leader più longevo del mondo, monarchie escluse. E dopo essere stato, a 27 anni, appunto nel 1969, il più giovane Presidente del pianeta. Perché Muhammar Abu Miniar al Gheddafi è specializzato in sopravvivenza, e lo è fin da bambino.

    
     La mitologia del capo (anzi: della Guida Fraterna della Rivoluzione) parla di una famiglia poverissima, di genitori analfabeti e del piccolo Muhammar costretto a pascolare capre e cammelli e a raccogliere orzo e grano ma gratificato, in quanto primo figlio maschio, dallo studio e dalle letture del Corano dispensate da un fgigh, uno dei maestri ambulanti che passavano da un campo beduino all’altro. All’età di sei anni, mentre alle Nazioni Unite, già si parla di una possibile indipendenza per la Libia amministrata da Francia e Gran Bretagna, Gheddafi la scampa per la prima volta: una mina lasciata dagli italiani esplode e gli porta via due cugini, lasciandogli una profonda cicatrice sul braccio destro.

      Il ragazzo guarisce e cresce e nel 1956 s’iscrive alle scuole islamiche di Sebha, capoluogo del Fezzan, la regione più desertica. Cresce anche la Libia, che nel 1950 convoca la prima Assemblea nazionale e nel 1951 dichiara l’indipendenza come monarchia costituzionale sotto re Idris I. Sono gli anni della fine del colonialismo e dell’esempio di Ghamal Abdel Nasser, che nel 1952 rovescia re Faruk, nel 1956 nazionalizza il canale di Suez andando allo scontro con Francia e Gran Bretagna e nel 1967, sotto le insegne del panarabismo, va persino alla guerra disastrosa contro Israele.

     Quando si spegne l’astro di Nasser, sorge quello di Gheddafi. Addestrato alla scuola militare libica di Bengasi e affinato in quella inglese di Beaconsfield, il capitano Gheddafi (il grado più alto verrà col potere) raduna un gruppo di ufficiali, come lui cresciuti alle scuole coraniche, e approfitta dell’assenza del re (Idris I era alle terme con un seguito di 40 persone) per un colpo di Stato incruento.

     

Gheddafi con Nelson Mandela in Sudafrica nel 1999.
Gheddafi con Nelson Mandela in Sudafrica nel 1999.

     Repubblica libera e democratica

     La Libia aveva allora 2 milioni di abitanti (oggi poco più di 6) e la “repubblica araba libera e democratica” proclamata da Gheddafi fu presto riconosciuta anche da Urss, Usa, Gran Bretagna, Francia e Italia. Tragica ironia, per il nostro Paese: il petrolio che gli ingegneri italiani avevano per primi rinvenuto nel 1914 nelle sabbie di Sidi Mesri servì per rinsaldare il nuovo regime che raddoppiò i salari minimi, vietò l’insegnamento delle lingue straniere, restaurò la shari’a (legge islamica) e nel 1970 espulse tutti gli italiani (20 mila) dal Paese, confiscando i loro beni e salvando solo i rapporti con l’Eni e con la Fiat. Di quest’ultima nel 1976, per 415 milioni di petrodollari, il Governo libico diventerà anche azionista al 10%.

    Il 1976 è anche l’anno in cui Gheddafi pubblica il Libro Verde, la summa del suo pensiero politico che, piuttosto curiosamente per un capo che nega ai suoi il multipartitismo e la libertà di voto, recita nelle prime righe: “La lotta politica che si risolve nella vittoria di un candidato che ha ottenuto il 51% dei voti, porta a un sistema dittatoriale sotto le false spoglie della democrazia”. E nel 1977 viene proclama la Jamahiriyya, neologismo gheddafiano che vuol più o meno dire: Repubblica delle masse.

      Gheddafi si vuole nasseriano e, se non panarabista, quasi. Tenta di unire la Libia all’Egitto e alla Sira, poi alla Tunisia, al Ciad e al Marocco. Gli va sempre buca,m affronta qualche guerra ma se la cava sempre. E intanto, con i proventi del petrolio (in quel periodo le estrazioni libiche superano quelle del Kuwait e dell’Iraq), finanzia ogni movimento rivoluzionario o terroristico che si opponga all’Occidente, da Abu nidal a Carlos, lanciando in patria una rivoluzione culturale che aveva lo scopo di ridurre l’influenza potere degli ulema e dei dotti della fede islamica.

     A differenza del presidente egiziano Sadat, ucciso nel 1981 dai Fratelli Musulmani, Gheddafi se la cava come al solito: nel 1979 un pilota dell’aviazione militare si lancia contro le tribune da dove il Colonnello osserva una parata, ma viene abbattuto all’ultimo istante; nel 1980 una guardia del corpo lo ferisce alla spalla con un colpo di pistola. Nasce lì il corpo di belle ragazze chiamate a vegliare sul Colonnello.



     Sono gli Ottanta, però, gli anni di fuoco di Gheddafi
, e c’è anche l’Italia nel suo mirino. Nel 1981 il nostro Parlamento approva l’installazione dei missili Cruise a Comiso e pochi giorni dopo due caccia americani decollati dalla “Nimitz” abbattono due caccia libici che volano minacciosi verso Nord. Da quel momento il colonnello diventa “l’uomo più pericoloso del mondo”, come da copertina di Newsweek. Tra sequestri di pescatori, provocazioni e finanziamenti all’Olp di Arafat, si arriva al 1986. Una bomba esplode a Berlino in una discoteca affollata di soldati Usa, Reagan in una sola intervista definisce Gheddafi “un fanatico”, “un bugiardo” e “un cane pazzo” (insulto sanguinoso per un musulmano), poi dà alle sue portaerei l’ordine di attaccare Tripoli.

     Questa volta non è solo la buona sorte a salvare l’esperto in sopravvivenza: Una buona mano la dà Bettino Craxi, che l’anno prima si era scontrato con  la Casa Bianca per interposti carabinieri, rifiutando agli americani la consegna, a Sigonella, dei dirottatori della nave “Achille Lauro”, e questa volta fa una telefonata a Tripoli per avvertire la Guida Fraterna dell’imminente bombardamento. Due missili Scud partono dalla Libia verso la base americana Loran-C di Lampedusa, ma per fortuna cadono in mare. Nel 1988 è Lockerbie: 270 persone muoiono nel più grave attentato prima dell’11 settembre 2001, abbattute con il Boeing 747 della PanAm su cui stanno viaggiando. A organizzare la strage sono i servizi segreti di Gheddafi.
    
     Proprio nel segno di questo atto orrendo, però, si consuma la svolta del regime libico. Nel 1999 Gheddafi riconosce le responsabilità fino a poco prima negate e nel 2003 accetta di pagare 2,7 miliardi di dollari ai parenti delle vittime. Già sei mesi dopo Tony Blair, primo ministro della Gran Bretagna che, si dice, aveva più volte tentato di farlo assassinare, si reca in visita ufficiale in Libia. Dietro l’ennesima mutazione del Colonnello, passata attraverso la condanna dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1991 e degli attentati dell’11 Settembre, ci sono due personaggi imprevisti e difficili da accostare: l’idealista Nelson Mandela e lo smagato Saif al Islam al Gheddafi, il primo degli otto figli del leader. Uno nel nome della pace, l’altro nel segno degli affari. Incredibile ma vero, funziona.

     Così come, incredibile ma vero, nei giardini di Villa Pamphili si alza una tenda da beduino. Segno dei tempi, e del tempo passato, non è più in pelli di capra ma in tessuti preziosi.

Fulvio Scaglione
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