11/12/2011
Suor Natalina Isella, da 30 anni in Congo.
Le Cenerentole di Bukavu hanno visi angelici ma alla fine non incontrano il principe azzurro, il loro destino è più duro. A salvarle c'è però sempre una Fata Smemorina, che deve trasformarle da streghe in bambine. Sono ragazze che nella maggior parte dei casi hanno perso la loro mamma, vivono con il papà e con la matrigna, e vengono accusate di essere streghe. Umiliate, picchiate e cacciate di casa. Ad accoglierle è una suora italiana, Natalina Isella, da 30 anni in Congo, che ha fondato Ek'Abana, casa famiglia per bambine accusate di stregoneria.
Natalina è la loro fata buona: «Abbiamo 32 bambine. Ma dal 2002 ne sono
passate di qui più di 300, dai 5 anni ai 15 anni. Di solito la loro
mamma è morta o è stata cacciata di casa dal padre, e il fenomeno si è
acuito con le guerre e gli stupri seriali degli ultimi anni. Il papà s'è
risposato e la loro matrigna inizia ad accusare strumentalmente le
bambine, che non sono sue figlie. Le bimbe si sentono non amate e
diventano anche un po' disubbidienti. Da qui all'accusa di stregoneria
il passo è breve: qui in tanti usano questo misticismo cattivo per
spiegarsi sofferenze e dolori. Ma per le bambine la vita diventa
impossibile: nessuno parla con loro, non si beve l'acqua se è stata toccata
da loro, vengono picchiate, ferite, o addirittura bruciano le buste di
plastica e gli fanno cadere gocce infuocate sulla pelle. Poi le
cacciano. A quel punto spesso è la polizia portarcele».
Emily, 13 anni.
Emily ha 13 anni. Dopo la morte della mamma, la matrigna ha iniziato a darle la colpa di tutte le cose brutte che accadevano, anche se non era vero. Ogni volta che il papà tornava a casa erano botte dopo il resoconto sulle sue presunte malefatte. Il padre allora decide di cacciarla di casa, poi la perdona. Dopo qualche tempo accade l'irreparabile: «La matrigna mi dice di occuparmi di suo figlio piccolo, il mio fratellastro. Siamo andati dalla zia, ma il bimbo piangeva, allora lo abbiamo riportato a casa. Stava male e siamo andati a pregare per lui e per me. Poi la matrigna ha deciso di portarlo dal dottore. Ma sulla strada il fratellino è morto. Il pastore della chiesa ha detto che ero io la strega e la matrigna ha confermato che dovevo essere stata io a ucciderlo. Allora papà mi ha mandata via. Non sapevo dove andare, mi sono messa a piangere su un sasso dove mi ha trovato una signora, che mi ha portata qui. Adesso però mi sento libera, perché vivo come una bambina in famiglia».
Neema è una bimba di 12 anni, il suo nome in swaili vuol dire la grazia,
ma lei racconta un'altra storia: «Vivevamo a casa dei nonni,
la mamma si è ammalata al seno e hanno iniziato a dire che era colpa
mia: mi portavano a pregare perché dicevano che ero posseduta. Poi la
nonna mi ha voluto allontanare. Sono stata portata a Bukavu da uno zio,
che mi ha tenuta solo una notte. Dopo qualche tempo mi hanno detto che
la mamma era morta e che era colpa mia perché sono una strega. Qui ho
imparato tante cose e anche se nessuno della mia famiglia mi passa a
trovare so che non è vero: non posso avere ucciso mia madre».
Una strada della città di Bukavu, in Congo.
Natalina queste bimbe le accoglie come in famiglia, le veste, le manda a scuola, insegna loro i mestieri di casa utili a tutte le donne congolesi. E cerca soprattutto di farle capire che quello che veniva detto di loro non è vero. Che sono innocenti, non sono delle streghe. Poi tenta di riavvicinarle alla famiglia per farle tornare a casa. A volte riesce. A volte no, perché la cultura profonda che ha prodotto queste emarginazioni può essere troppo forte da rimuovere. L'ultima bimba che abbiamo sentito si vergognava di parlare di quello che le era successo, era come aprire una ferita non rimarginata. Ha detto solo: «Qui, adesso, ho imparato a perdonare». Per queste bambine di Bukavu il perdono è l'unica strada per salvarsi dall'accusa infamante che le ha colpite, dal marchio di streghe. Ma comunque per loro la favola di Cenerentola non finisce con il sogno del matrimonio reale. Prosegue tutti i giorni con lo sforzo di accettare e superare dentro di sé la sofferenza subita in famiglia.
Jacopo Arbarello