Brizzi: il lungo viaggio dello scrittore

Appena uscito il libro sul pellegrinaggio della via Francigena, il bolognese Enrico Brizzi è ora alle prese con un percorso di 2.191 km attraverso l'Italia. Per festeggiare l'Unità.

02/07/2010
Lo scrittore Enrico Brizzi al Gran San Bernardo.
Lo scrittore Enrico Brizzi al Gran San Bernardo.

A spanne, sforna un libro ogni duemila chilometri. È l’unico scrittore italiano di cui si possa misurare la fecondità artistica contando le miglia che ha percorso. A piedi, s’intende. Di strada ne ha fatta tanta, in tutti i sensi, Enrico Brizzi, 37 anni, bolognese, arrivato alla notorietà appena ventenne con il romanzo- rivelazione Jack Frusciante è uscito dal gruppo, folgorante esordio che ha sedotto un’intera generazione di giovani. Ebbene, il più on the road (sulla strada) degli autori italiani non ha nessuna intenzione di appendere lo zaino al chiodo. Anzi. Lo incrociamo proprio in una pausa dell’ennesimo viaggio in corso, stavolta lungo lo Stivale, che dall’altoatesina Vetta d’Italia lo sta portando fino a Capo Passero, l’estremità più “africana” d’Italia. L’avventura pedatoria stavolta si chiama “Italica 150”: è il suo modo viandante di celebrare l’imminente centocinquantesimo compleanno del nostro Paese. Quasi un affettuoso rammendo, in punta di scarpa da trekking, delle pezze un po’ sfilacciate che compongono quel grande patchwork colorato che è l’Italia. E mentre Brizzi marcia alla ricerca di unità tra mille campanili, esce in questi giorni per Ediciclo Editore I diari della via Francigena, la sua ultima fatica, che narra di un altro affascinante percorso, realizzato nel 2006, lungo l’antico itinerario che porta da Canterbury a Roma: 1.600 chilometri in 72 giorni, sulle orme di Sigerico, l’arcivescovo di Canterbury che per primo, nel 990, segnò questa via.

Ma da dove ha origine questo “scatenamento itinerante”, per dirla a modo suo? Questa voglia di camminare che ha fatto uscire Brizzi “dal gruppo” e lo ha trasformato in viandante?
«In realtà ho sempre camminato. Poi, da ragazzo, l’esperienza dello scoutismo ha fatto il resto. L’andare a piedi mi affascina perché mi rimette in contatto con la realtà. Forse m’illudo, ma mi pare di arricchirmi di più che viaggiando in Frecciarossa. A volte capita che ti tuffi nel lavoro e senza rendertene conto inizi a girare a vuoto, e magari per paura della fatica eviti i viaggi fondamentali».

Allude all’esperienza del pellegrinaggio?
«Sì. È un’esperienza che si ripete dal Medioevo. Si tratta di viaggi che un uomo non può fare molte volte nella vita, ma se non ci prendiamo dei momenti speciali per ripensare a tutto quello che stiamo facendo, rischiamo di perdere il senso della nostra vita, di girare nella ruota come dei criceti».

Quindi non è un viaggio d’evasione...
«Non è un viaggio dentro me stesso, in senso psicologistico. Camminando voglio sapere qual è il mio posto nel mondo, non conoscere il mio carattere o i miei traumi rimossi da bambino. Comunque, la persona che arriva è sempre molto diversa da quella che parte».

E come s’è trasformato Enrico Brizzi alla fine della via Francigena?
«Sono partito viandante e sono giunto pellegrino ».

Cosa si aspetta quando carica sulle spalle lo zaino e si mette per via?
«Tanta fatica. Ma spero di tornare migliore, più tollerante, in grado di insegnare qualcosa a chi m’aspetta a casa, alle mie figlie».

A proposito, lei è sposato e ha tre bambine, una di sei anni e due gemelle di cinque. Cammina anche in famiglia?
«D’estate facciamo trekking sempre insieme lungo i sentieri tra l’Alpe di Siusi e la Valgardena, i miei luoghi dell’anima, perché ci andavo in vacanza da bambino. L’estate scorsa le mie figlie hanno percorso anche una ventina di chilometri al giorno. Senza zaino, ovviamente».

Lei sta ultimando “Italica 150”, una camminata di 2.191 chilometri attraverso la Penisola. Quello dell’anniversario dell’Unità d’Italia è stato solo un pretesto per l’ennesima avventura a piedi, o c’è di più?
«Molto di più. È da due anni che penso a questa ricorrenza. Viviamo tempi in cui i miti in cui era cresciuta la mia generazione, quelli del Risorgimento, di Garibaldi, dell’irredentismo italiano, sono stati dimenticati se non addirittura sbeffeggiati. Questo mi fa rabbia, così ho deciso di dedicare il mio viaggio del 2010 al mio Paese. Non a caso il simbolo di “Italica 150” è una coccarda tricolore».

Scelta “italiana” in chiave antipadana?
«Si mettono in discussione i motivi per i quali da un secolo emezzo si sta assieme, dalla Valle d’Aosta alla Puglia, dal Friuli alla Sardegna. E dimenticare la storia non è mai una buona pratica».

Insomma, il suo è diventato un “viaggio contro”, politicamente poco corretto?
«Un po’ sì. È un viaggio contro chi inneggia a “patrie” più piccole, alla propria valle, o alla contrada, e dimentica che si è tutti sulla stessa barca. Sono fiero di essere italiano. Scrivo e narro in questa lingua ed è inconcepibile per me non sentirmi attaccato a questo Paese e alla sua cultura. La bellezza dell’Italia sta nella diversità delle sue realtà locali, dei suoi dialetti. Detesto la macchietta che mostra sempre il bergamasco incompreso dal toscano, a sua volta non capito dal lucano. È la commedia all’italiana che si perpetua e che questo Paese non si merita».

Alberto Laggia
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