17/11/2010
Se si scorre la biografia di Gustavo Pietropolli
Charmet si apprende che, psicoterapeuta,
docente di Psicologia dinamica
all’Università Bicocca di Milano,
è attualmente presidente dell’Istituto Minotauro
e del Centro aiuto alla famiglia in crisi
e al bambino maltrattato di Milano, ma se
si volesse sintetizzare verrebbe voglia di definirlo
“portavoce degli adolescenti”, o anche
“avvocato difensore”. Lo capisci quando leggi
i suoi libri, come quello scritto con Loredana
Cirillo e pubblicato dalla San Paolo, intitolato
Adolescienza (proprio con la i), e provi
un senso di inadeguatezza per non aver compreso
per tempo quello che lui, invece, vede
con chiarezza. Un po’ di invidia, ammettiamolo,
nei confronti di chi, a 70 anni,
due figli quarantenni e tre nipoti, è più vicino
ai ragazzi d’oggi degli stessi genitori.
Dica la verità, professore, ha fatto sentire
in colpa generazioni di mamme e papà?
«Mi piacerebbe piuttosto essere considerato
un traduttore, un interprete simultaneo
degli enigmi degli adolescenti, uno che dà
senso ai comportamenti insensati».
Ma non sono gli stessi psicologi a tenere
spesso a distanza i genitori?
«Molti anni fa sì, ma ora sappiamo che bisogna
fare l’opposto, perché mamma e papà
possono dare un contributo potente. Solo
identificandosi con le ragioni di tutti si può
favorire un buon “ritrovamento” in modo
che si possa riparlare, dicendo le stesse cose
con le parole, piuttosto che scappando di casa,
spaccando tutto, non andando a scuola».
I genitori quali errori devono evitare?
«Il papà non deve fare il deluso e la mamma
non sentirsi troppo in colpa. Tutti devono
fare un piccolo passettino per organizzare
una pace conveniente. Altrimenti prevarranno
le azioni e i comportamenti violenti».
Per guarire il senso di colpa che ricetta ha?
«Le mamme oggi si sentono così perché
fanno questo mestiere da professioniste. Vogliono
farlo bene: studiano, si consultano, si
impegnano, hanno poco tempo ma ce la mettono
tutta. Hanno generalmente un figlio
unico, pensato a lungo, avuto tardi. Hanno
una grande consapevolezza che il bambino
ha tantissime abilità innate. Quindi pensano
che se le cose non funzionano significa che
sono state loro a sbagliare. Sono crudeli con
sé stesse, quasi implacabili».
Mentre un tempo?
«La mamma era brava per statuto. Oggi, invece,
i figli stessi sentono che lei deve meritarsi
la loro approvazione. Non è più circondata
da un’aureola di sacralità istituzionale.
Ha un ruolo esposto a molti attacchi e critiche
perché deve conquistarsi una sua autorevolezza
tenendo conto di tutte le preoccupazioni:
che il figlio si diverta, sia contento, sia
abbastanza famoso, sia socializzato, sia nella
scuola giusta, nella sezione giusta con i professori
giusti... Quando mai lemamme si ponevano
questi problemi? Se la metti giù così,
è chiaro che il fallimento è sicuro».
E i nuovi padri?
«Ci sono padri più “accuditivi”, relazionali,
coinvolti, meno assenti, meno deleganti. Anche
nei momenti di crisi, quelli in cui entriamo
in gioco noi psicologi, li vediamo sempre
più presenti, e questo rende la risoluzione
dei problemi più semplice. È come se la crisi
provocasse il bisogno del padre e il suo ritorno,
che è fondamentale per la ripresa evolutiva,
altrimenti se non ci sarà lui ci vorrà qualcun
altro “che faccia il padre”, lo psicologo, il
professore di religione o un altro educatore».
Quindi l’importanza del padre per gli adolescenti
non è un mito?
«Il padre aiuta il processo di separazione
dalla mamma, incrementa il sentimento di
responsabilità, diventa un modello. La simpatia,
e soprattutto la stima profonda del padre,
è una benedizione nei confronti del figlio.
Per un ragazzo è tremendo portarsi dentro
un padre sprezzante, che lo ridicolizza o
lo umilia o non crede in lui».
Ma non sbaglia anche il padre che incita
ad avere chissà quali successi?
«È altrettanto pericoloso, mentre il papà accuditivo
vuol bene, stima, fa affidamento sul
figlio. Anche quelli lontani, che hanno delegato
per dedicarsi solo al lavoro, nelle crisi ritornano.
È il dolore che produce questo avvicinamento.
È bellissimo quando si riesce a
far sì che un padre e un figlio facciano un
viaggettino da soli, mitico, leggendario: è un
momento in cui riprendere a parlarsi, il segno
del ritrovamento».
Possibile che per capire si debba aspettare
la crisi?
«Tutti i sintomi, le droghe, i digiuni, i disturbi
alimentari, i comportamenti antisociali
sono tentativi degli adolescenti di risolvere
il loro dolore e di comunicarlo. Il nostro compito
è proprio quello di recapitare il significato
della condotta trasformata in appello, invito,
richiesta, ma sono ottimista perché vedo
cambiamenti importanti, vedo che il dolore
dei figli e dei genitori spinge a esaudire queste
richieste di presenza, non “dandogliela
vinta”, ma anzi offrendo tanta relazione e vicinanza
piuttosto che tanti regali».
Talvolta non è proprio lo spauracchio di
comportamenti e scelte estreme che porta a
darla vinta ai figli?
«Non c’è dubbio che la quantità di dolore a
scopo educativo che i genitori pensano di poter
somministrare ai figli èmolto bassa. Cercano
di tenere basso il livello del conflitto per
paura che si interrompano i canali di comunicazione
e che i ragazzi possano estrinsecare la
loro frustrazione con reazioni inconsulte, per
esempio drogarsi, scappare di casa, sparire».
Papà e mamma hanno troppa paura del
dolore del figlio?
«Per questo evitano castighi e conflitti,
una situazione da cui nasce la fantasia che ci
sia un’arrendevolezza nei confronti dei ragazzi.
Ma non è che i genitori si arrendano,
che sarebbe lo sbaglio più grande. È che non
sanno bene come fare rispetto alla precocità
sociale, all’intensità della vita di gruppo, alla
funzione che svolge la coppia amorosa
nell’adolescenza. Non sanno bene come regolarsi
rispetto ai competitori, la sottocultura
dei mass media, il narcotraffico, che sono
tutte potenze dalla capacità di penetrazione
enorme».
Ma chi potrebbe dargli torto visti i modelli
di comportamento che offre la sottoculturaspazzatura?
«La verità è che fino a quando la famiglia
può svolgere il suo compito i bambini sono
bellissimi, socievoli, creativi. È dopo che cominciano
i guai perché irrompono modelli
molto persuasivi di fronte alle domande degli
adolescenti desiderosi di capire come si fa
a diventare belli, famosi, molto ma molto visibili.
La sottocultura glielo insegna: dice che
basta imparare la canzoncina, il balletto, essere
magri, sexy... I modelli della pubblicità
e dei consumi non hanno niente a che fare
con la famiglia. Assistiamo a un peggioramento
gravissimo della società».
Di fronte a cui lei rimane ottimista?
«Sì, perché vedo che gli adulti mettono i ragazzi
“in prima serata”, in senso negativo,
ma anche positivo, come è stato decenni fa
per i bambini, quando si è cominciato a studiare
e approfondire i loro bisogni e necessità
favorendo quella cultura attenta che
ha cambiato tante cose. Nello stesso
modo stiamo costruendo una cultura
dell’adolescenza che darà i suoi
frutti nonostante i nemici potenti,
spacciatori di ogni genere di male».
Renata Maderna