Enrico Giovannini: l'Italia in posa

Il presidente dell’Istat dice che la politica spesso strumentalizza i dati. E invita a collaborare al censimento del 2011: «È la nostra fotografia, dev'essere fedele».

26/10/2010
Il presidente dell'Istat Enrico Giovannini.
Il presidente dell'Istat Enrico Giovannini.

Possiamo scrivere che Enrico Giovannini è uno che dà i numeri con la certezza che non si offenderà: è il presidente dell’Istat, l’Istituto centrale di statistica. Dare i numeri è il suo mestiere.

 Presidente, a cosa servono le statistiche?
«Statistica significa scienza dello Stato, perché nasce per aiutare i politici a prendere decisioni, ma sempre di più abbiamo una funzione pubblica nei confronti di tutti i cittadini. La nostra missione è quella di contribuire a migliorare la conoscenza dei fenomeni economici e sociali. La pagina più visitata del nostro sito è quella dell’aggiornamento dell’indice dei prezzi al consumo, che serve ad esempio per stabilire gli affitti».

Non ci sono in giro troppi dati?
«Può darsi, ma spesso i dati sono chiari, mentre i messaggi che li diffondono sono confusi. I media hanno la responsabilità di trattare con leggerezza tematiche che richiedono un minimo di attenzione. Di recente siamo usciti con dei dati sull’andamento economico del secondo trimestre, mentre l’Ocse ha diffuso i dati per il terzo. Si parlava di cose diverse, ma tanti mi hanno telefonato per chiedermi chi avesse ragione. Poi c’è la confusione fra i sondaggi e le statistiche vere e proprie. Spesso nei talk show si hanno dati che sono dei sondaggi o semplici previsioni. Diventa difficile capire la differenza fra un sondaggio fatto su 100 persone, un’indagine fatta su 30 mila famiglie a trimestre o una previsione sul futuro».

Voi statistici che responsabilità avete nel creare confusione?
«A volte puntiamo troppo sulle medie e poco sulla distribuzione dei fenomeni. In fondo è la storia del pollo di Trilussa. Ricorda? Se una persona mangia due polli e un’altra nessuno, in media hanno mangiato un pollo a testa. Trilussa ci dice: attento, se guardi solo le medie talvolta sbagli perché, se la distribuzione è molto ineguale, la media non vuol dire niente. La nostra sfida è aiutare le persone a riconoscersi nei dati che noi diamo».

E i politici che colpe hanno?
«Che i politici cerchino di usare i dati per avvalorare la loro posizione è normale. Ma il paradosso è che citare dati sbagliati non paga pegno. Nei confronti tra i candidati alla presidenza degli Usa, subito dopo la fine del dibattito c’è un talk show che analizza se i candidati hanno citato numeri a proposito o no. In Italia non c’è nulla del genere. D’altra parte, chi bacchetta il politico? Il giornalista dovrebbe avere le conoscenze per intervenire in tempo reale e non mi sembra praticabile la proposta di avere uno statistico che sta lì in un angoletto e tira fuori la paletta ogni volta che viene citato un dato sbagliato».

Così l’uso strumentale dei dati può determinare politiche sbagliate?
«Il rischio è forte. Prendiamo la sicurezza. Calano i crimini, ma cresce la percezione sulla diffusione della criminalità. Sono tre anni che questi dati vanno esattamente nella direzione opposta. Ma questo fa politica, crea una cultura. Ecco perché la statistica ha a che fare con il funzionamento di una democrazia nella società dell’informazione. Se non ci mettiamo d’accordo su quali sono i fenomeni gravi e quelli buoni, e sulla loro vera dimensione, ogni discussione diventa, come si dice a Roma, “a me me pare”».

La crisi economica si poteva prevedere?
«Qualcuno l’aveva prevista. Non con la palla di vetro, ma leggendo numeri che altri avevano preferito non guardare. Le sofferenze bancarie, a parte il fatto che alcune banche le avevano nascoste, erano cresciute molto, ma l’idea diffusa era che fossero squilibri temporanei. Un ex presidente di una banca italiana mi diceva che quando si troverà davanti a Dio con la lista dei suoi peccati, una delle colpe più gravi sarà l’aver smantellato l’ufficio studi della sua banca».

Le famiglie pagano il prezzo più alto?
«A prezzi costanti, oggi ogni persona ha 360 euro di meno rispetto a quello che aveva nel 2000. C’è una riduzione del reddito pro capite del 2,3%. Abbiamo poi visto che la deprivazione, cioè la quota di famiglie che fa più fatica, non era aumentata nel 2009 rispetto al 2008. Abbiamo pensato che i dati fossero sbagliati. Ma poi abbiamo scoperto che gran parte di chi ha perso il lavoro nel 2009 apparteneva già al 20 per cento più povero della popolazione, quindi era già deprivato».

Come aiutate le persone a capire di più la realtà?
Il vostro sito può servire? «Possiamo dare dati più precisi su occupazione e disoccupazione anche a livello territoriale, possiamo aiutare i giovani che stanno per diplomarsi a capire le prospettive di lavoro nell’area in cui vivono. Attraverso i grafici possiamo dare l’idea di cosa sta accadendo. Rimettere le persone al centro e aiutarle a leggere i dati per autoposizionarsi rispetto al proprio territorio è uno dei passi che il nuovo sito consentirà di fare».

Il 2011 sarà l’anno del censimento: vi aspettate collaborazione o diffidenza?
«Dobbiamo convincere gli italiani a collaborare a questa grande fotografia collettiva, assicurandoli che i dati raccolti restano nei forzieri Istat. Se, a causa della mancata collaborazione al censimento, sbagliassimo le statistiche sulla popolazione, da cui poi ne derivano molte altre, si farebbe il male di questo Paese, perché faremmo prendere scelte sbagliate. Ogni persona che vuole migliorare la propria situazione e quella del Paese ha tutto l’interesse a rispondere correttamente».

Roberto Zichittella
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