26/10/2010
Il presidente dell'Istat Enrico Giovannini.
Possiamo scrivere che Enrico Giovannini
è uno che dà i numeri con la certezza
che non si offenderà: è il presidente
dell’Istat, l’Istituto centrale di statistica.
Dare i numeri è il suo mestiere.
Presidente, a cosa servono le statistiche?
«Statistica significa scienza dello Stato, perché
nasce per aiutare i politici a prendere decisioni,
ma sempre di più abbiamo una funzione
pubblica nei confronti di tutti i cittadini.
La nostra missione è quella di contribuire
a migliorare la conoscenza dei fenomeni economici
e sociali. La pagina più visitata del nostro
sito è quella dell’aggiornamento dell’indice
dei prezzi al consumo, che serve ad
esempio per stabilire gli affitti».
Non ci sono in giro troppi dati?
«Può darsi, ma spesso i dati sono chiari,
mentre i messaggi che li diffondono sono
confusi. I media hanno la responsabilità di
trattare con leggerezza tematiche che richiedono
un minimo di attenzione. Di recente
siamo usciti con dei dati sull’andamento economico
del secondo trimestre, mentre l’Ocse
ha diffuso i dati per il terzo. Si parlava di cose
diverse, ma tanti mi hanno telefonato per
chiedermi chi avesse ragione. Poi c’è la confusione
fra i sondaggi e le statistiche vere e proprie.
Spesso nei talk show si hanno dati che
sono dei sondaggi o semplici previsioni. Diventa
difficile capire la differenza fra un sondaggio
fatto su 100 persone, un’indagine fatta
su 30 mila famiglie a trimestre o una previsione
sul futuro».
Voi statistici che responsabilità avete nel
creare confusione?
«A volte puntiamo troppo sulle medie e poco
sulla distribuzione dei fenomeni. In fondo
è la storia del pollo di Trilussa. Ricorda?
Se una persona mangia due polli e
un’altra nessuno, in media hanno
mangiato un pollo a testa. Trilussa
ci dice: attento, se guardi solo le
medie talvolta sbagli perché, se la
distribuzione è molto ineguale, la
media non vuol dire niente. La nostra
sfida è aiutare le persone a riconoscersi
nei dati che noi diamo».
E i politici che colpe hanno?
«Che i politici cerchino di usare i dati per
avvalorare la loro posizione è normale. Ma il
paradosso è che citare dati sbagliati non paga
pegno. Nei confronti tra i candidati alla
presidenza degli Usa, subito dopo la fine del
dibattito c’è un talk show che analizza se i
candidati hanno citato numeri a proposito o
no. In Italia non c’è nulla del genere. D’altra
parte, chi bacchetta il politico? Il giornalista
dovrebbe avere le conoscenze per intervenire
in tempo reale e non mi sembra praticabile
la proposta di avere uno statistico che sta
lì in un angoletto e tira fuori la paletta ogni
volta che viene citato un dato sbagliato».
Così l’uso strumentale dei dati può determinare
politiche sbagliate?
«Il rischio è forte. Prendiamo la sicurezza.
Calano i crimini, ma cresce la percezione sulla
diffusione della criminalità. Sono tre anni
che questi dati vanno esattamente nella direzione
opposta. Ma questo fa politica, crea
una cultura. Ecco perché la statistica ha a che
fare con il funzionamento di una democrazia
nella società dell’informazione. Se non ci
mettiamo d’accordo su quali sono i fenomeni
gravi e quelli buoni, e sulla loro vera dimensione,
ogni discussione diventa, come si
dice a Roma, “a me me pare”».
La crisi economica si poteva prevedere?
«Qualcuno l’aveva prevista. Non con la palla
di vetro, ma leggendo numeri che altri avevano
preferito non guardare. Le sofferenze
bancarie, a parte il fatto che alcune banche
le avevano nascoste, erano cresciute molto,
ma l’idea diffusa era che fossero squilibri
temporanei. Un ex presidente di una banca
italiana mi diceva che quando si troverà davanti
a Dio con la lista dei suoi peccati, una
delle colpe più gravi sarà l’aver smantellato
l’ufficio studi della sua banca».
Le famiglie pagano il prezzo più alto?
«A prezzi costanti, oggi ogni persona ha
360 euro di meno rispetto a quello che aveva
nel 2000. C’è una riduzione del reddito pro
capite del 2,3%. Abbiamo poi visto che la deprivazione,
cioè la quota di famiglie che fa
più fatica, non era aumentata nel 2009 rispetto
al 2008. Abbiamo pensato che i dati fossero
sbagliati. Ma poi abbiamo scoperto che
gran parte di chi ha perso il lavoro nel 2009
apparteneva già al 20 per cento più povero
della popolazione, quindi era già deprivato».
Come aiutate le persone a capire di più la
realtà?
Il vostro sito può servire?
«Possiamo dare dati più precisi su occupazione
e disoccupazione anche a livello territoriale,
possiamo aiutare i giovani che stanno
per diplomarsi a capire le prospettive di lavoro
nell’area in cui vivono. Attraverso i grafici
possiamo dare l’idea di cosa sta accadendo.
Rimettere le persone al centro e aiutarle a
leggere i dati per autoposizionarsi rispetto al
proprio territorio è uno dei passi che il nuovo
sito consentirà di fare».
Il 2011 sarà l’anno del censimento: vi
aspettate collaborazione o diffidenza?
«Dobbiamo convincere gli italiani a collaborare
a questa grande fotografia collettiva,
assicurandoli che i dati raccolti restano nei
forzieri Istat. Se, a causa della mancata collaborazione
al censimento, sbagliassimo le statistiche
sulla popolazione, da cui poi ne derivano
molte altre, si farebbe il male di questo
Paese, perché faremmo prendere scelte sbagliate.
Ogni persona che vuole migliorare la
propria situazione e quella del Paese ha tutto
l’interesse a rispondere correttamente».
Roberto Zichittella