02/11/2010
Gianrico Carofiglio
Gianrico Carofiglio è uomo poliedrico:
magistrato, scrittore, senatore
della Repubblica per il Pd. In ciascuna
delle sue vesti, rimane uomo di
parole. Quelle precise del diritto, quelle più
acuminate della politica e soprattutto quelle
emozionanti dei romanzi. Carofiglio ha introdotto
il legal thriller in Italia con la saga dell’avvocato
Guido Guerrieri, che ha venduto
ben oltre due milioni di copie e ha varcato in
più direzioni i confini del nostro Paese.
Proprio nel terzo volume delle avventure
di Guerrieri, Ragionevoli dubbi, sta la genesi
del saggio un po’ anarchico che Carofiglio ha
appena pubblicato presso Rizzoli, La manomissione
delle parole. In una notte insonne e
solitaria, l’avvocato trova in una libreria notturna
un libro così intitolato, lo sfoglia e ne
legge alcuni passi. Titolo e contenuto erano
inventati, ma così tanti lettori hanno chiesto
all’autore come rintracciare quel volume,
che questi alla fine ha deciso di scriverlo.
Il titolo riflette il contenuto del libro?
«Riflette la ragione per cui il libro è nato:
molte parole importanti della vita civile e politica,
ma anche soltanto quelle parole che ci
consentono di raccontare la nostra esperienza,
sono parole consumate. Sono diventate
involucri vuoti, oggetti inerti, permolti aspetti
non più capaci di fare quello che dovrebbe
essere il loro lavoro, cioè dare senso. E allora
il bisogno è quello di recuperarle, di restituire
loro una concretezza, un’attitudine a raccontare
le passioni civili e tutto il resto. Questa
è l’idea del libro, arbitraria, e si può metterla
in atto smontandole e rimontandole».
Perché in democrazia le parole sono più
importanti che in ogni altro sistema?
«Perché la democrazia è il territorio della
persuasione. Il consenso si raggiunge attraverso
il discorso, quindi senza parole che siano
veramente “piene” non c’è democrazia, o
c’è soltanto un simulacro di democrazia.
Quando le parole si svuotano, diventano
strumenti per manipolare, non per convincere.
Allora il pericolo per la qualità della nostra
vita si fa vivo».
In tutto il libro corre la polemica verso il
linguaggio della destra berlusconiana...
«È un linguaggio in cui le parole vengono
prese, svuotate del loro significato autentico
e adoperate come oggetti contundenti da scagliare
contro gli avversari. Il caso più classico
e inquietante è quello di “libertà”, di cui c’è
stato un vero e proprio impossessamento come
marchio di una forza politica e come strumento
di aggressione nei confronti degli interlocutori.
Un’altra parola è “amore”, che è
una categoria prepolitica e viene invece utilizzata
come bandiera di partito politico:
smette di avere una relazione col suo significato
e diventa semplicemente un’etichetta».
D’altronde, all’opposizione avvertiamo la
violenza verbale di Beppe Grillo, l’aggressività
di Antonio Di Pietro e, più in generale, l’incapacità dei dirigenti politici di emozionare
elettori e pubblico...
«Intanto, Grillo non fa parte di nessuno
schieramento, ma gioca una partita personale,
mentre c’è poco di sinistra nell’impostazione
che Di Pietro dà a molti temi. Ciò detto,
il gridare forte, il ripetere slogan nei quali si
riconosce chi è già da una certa parte non ha
nessuna capacità di convincere altri. Proprio
perché slogan, non emozionano. La questione
è la capacità di generare emozione: è cosa
delicatissima, perché vicina al manipolare le
emozioni. Una politica etica, alla Obama per
esempio, è una politica che sa individuare valori
autentici, fondanti, e poi inserirli in un
racconto del futuro nel quale immedesimarsi.
Noi oggi, come progressisti, abbiamo questa
doppia difficoltà».
Veniamo al linguaggio della giustizia,
spesso incomprensibile. Secondo lei questa
oscurità non è necessaria...
«La storia del diritto nel passato remoto si
legava alla storia delle religioni pagane. Il
pontefice massimo romano era contemporaneamente
giurista e sacerdote. E questa era
una delle ragioni del linguaggio sacrale del
giurista. Quell’aspetto è rimasto perché concretizza
l’esercizio del potere. Se io parlo in
un modo che la maggior parte dei cittadini
non capisce, per ciò stesso esercito un potere,
che è un potere di esclusione e di casta, cioè
il contrario di un’idea democratica del diritto.
Poi c’entrano narcisismo e pigrizia nell’usare
parole di un gergo. Certo, esistono
espressioni tecniche che non si possono tralasciare,
ma anche molti pseudotecnicismi e arcaismi
di cui non c’è bisogno».
Perché considera “scelta” la più importante
tra le parole?
«Perché è la questione fondamentale dell’umanità,
della religione e della politica. È il
discorso del libero arbitrio. Non è un caso
che “scelta” non abbia un contrario. Poi, nel
libro, il contrario mi sforzo di trovarlo e sta
nell’indifferenza, nella sciatteria, nella disattenzione.
Per scegliere bisogna essere consapevoli,
occorre sapere tra quali cose, tra quali
alternative si sta scegliendo. “Scelta” è più
importante di libertà, perché è la pratica della
libertà, è la libertà che diventa azione».
Rosanna Biffi