12/08/2010
Giusy Versace in pista con le protesi in fibra di carbonio.
C’è qualcosa di luminoso e ribelle in
Giusy Versace, nella sua intelligenza,
nella bellezza, nella sofferenza.
Quando scioglie la cascata
di capelli neri, il perfetto viso mediterraneo
richiama molto Maria Grazia Cucinotta.
Quando ricorda l’incidente che le ha tranciato
le gambe e riflette sui diritti dei disabili, la
sua emozione è insieme dolore e vita e i suoi
pensieri vanno a segno come frecce ben temperate.
Non feriscono, però colpiscono.
Giusy Versace sa perché i giornali le danno
spazio. Ha un cognome importante (il padre
Alfredo è cugino di Gianni, Donatella e
Santo), lavora nel mondo della moda a Milano
ed è stata la prima donna italiana amputata
di entrambe le gambe che abbia corso e
vinto la gara nazionale dei 100 metri, con
19”93, agli Assoluti di Imola in giugno.
Questa notorietà per lei ha un senso.
«Lo capisco quando leggo i messaggi
che mi lasciano sulla bacheca di Facebook», ammette con cordialità. «Gente
che non conosco e che mi scrive “Meno
male che ci sei”, “Grazie perché ci
rappresenti”, “Sei una grande, continua così”.
Mi fanno capire che magari non me ne
rendo conto, ma sto lanciando un messaggio
forte. E allora voglio fare questo. Forse trovo
forza nel cercare di trasformare quella che è
stata una tragedia in una missione».
Nell’estate del 2005 aveva 28 anni ed era
nel pieno della vita e del successo professionale:
a causa di un violento acquazzone
sulla Salerno-Reggio Calabria finì con l’auto
contro un guard rail, che sfondò l’abitacolo e
le tranciò le gambe di netto sotto le ginocchia.
Riflette, con tristezza non amara: «Purtroppo
il destino è stato bizzarro con me e
con Gianni Versace. A me ha tolto le gambe
troppo presto, a lui la vita».
Dopo il terribile incidente avrà provato disperazione...
«Non ho avuto il tempo di disperarmi, perché
sono sempre stata attorniata dall’amore
della famiglia. Non ricordo un minuto da sola,
c’era sempre qualcuno con me. Per non
dar dispiacere io ridevo, ero comunque felice
di essere viva, cercavo di reagire. Non volevo
vedere piangere mia madre. Questo mi ha
aiutato un po’, perché per non far piangere
loro caricavo me stessa. Quando poi sono stata
ricoverata al Centro protesi di Bologna,
che ha frequentato anche Alex Zanardi, sono
stati bravi, ma il posto non è molto allegro.
Appena arrivi hai lo choc di vedere tutta la
gente mutilata e in quel momento dici: “Cavoli,
sono una di loro”. Volevo scappare, ma
ci sono stati sempre mia madre, mio padre,
mio fratello, i miei zii, i miei amici. Non mi
hanno abbandonata un attimo. Questo mi
ha caricato molto. Invece lì ho visto tanta
gente sola, ma veramente sola».
Quali sono state le difficoltà maggiori?
«Intanto, il dolore è stato davvero forte. La
cosa più pesante da affrontare in quei momenti
non sono solo lo choc mentale o l’equilibrio
psicologico, ma proprio il dolore fisico,
che è molto, molto forte. A volte mi confrontano con Oscar Pistorius o con Aimee Mullins,
l’atleta e modella. Sono grandi punti di
riferimento, ma loro hanno avuto l’amputazione
da piccoli e sono cresciuti in quel modo.
Quando subisci un trauma del genere in
età adulta, è più faticoso. Il primo anno è stato
difficilissimo, ho dovuto imparare a camminare
e prendere confidenza con le protesi.
Poi devi fare i conti con lo specchio e l’armadio,
e lì ti senti un po’ la femminilità mozzata.
A casa aprivo l’armadio e trovavo una minigonna,
sistemavo la scarpiera e saltava fuori
una scarpa decolletè con il tacco. Ho dovuto
imparare a vestirmi in maniera diversa».
Quanto è tornata a lavorare?
«Dopo quasi due anni. Non è stato facile,
perché quando sono rientrata in ufficio le cose
erano cambiate. Ho dovuto fare a gomitate
per riprendermi ciò che eramio, perché all’inizio
mi è stato quasi negato. Probabilmente
non per cattiveria, ma è stata una frustrazione
che mi sarei volentieri evitata. Però mi
sono ripresa il ruolo di “retail supervisor” in
campo internazionale: mi occupo di supporto
e gestione dei punti vendita in franchising
con la nostra azienda, in un ruolo più commerciale
che stilistico. No, non lavoro alla
Versace, perché mio nonno diceva sempre:
“Non mischiare mai affetti e affari”».
Come trova tanta forza?
«Me lo chiedo anch’io. Anche prima ero
una che reagiva alle difficoltà. La famiglia è
importantissima, ma anche la fede ha avuto
un grande spazio in tutto questo. Io sono
molto devota alla Madonna, e ogni anno accompagno
gli ammalati a Lourdes, come “sorella”
dell’Unitalsi. Ho iniziato perché volevo
ringraziare la Madonna per essere tornata
a camminare. Lo sport, poi, mi ha fatto capire
che molte persone, disabili e non, trovano
un po’ di forza in quello che faccio».
Perché ha iniziato a correre?
«Perché tutti mi dicevano che sarei caduta.
L’ho fatto per ripicca, ma anche per curiosità.
Mio fratello e il mio ragazzo mi hanno incoraggiata
molto. In effetti, corro da poco, e sono
già arrivati bei risultati. Adesso l’obiettivo
è preparami per qualificarmi alle Paralimpiadi
di Londra 2012. Quando corri ti senti viva:
io non ho pianto la prima volta che ho camminato,
mentre ho pianto per l’emozione la
prima volta che ho corso. Sicuramente mi dà
una grande carica, ma soprattutto aiuta le
persone con disabilità a capire che limiti non
ce ne sono».
Vuole trasmettere speranza a chi, magari
giovane, è disabile?
«Certo, spero che il messaggio passi. Io lo
faccio per quello. Mi può far piacere sapere
che sono la prima donna in Italia che corre
senza due gambe, ma d’altro canto mi dispiace,
perché sono sicura di non essere l’unica
amputata bilaterale. Magari si vergognano, o
non hanno la forza di uscirne. Invece ci dobbiamo
mettere in mostra, ci dobbiamo far vedere.
La disabilità è intesa come diversità perché
nel quotidiano non la vedi. Quando io
vado almare, nonmi offendo del fatto che la
gente mi guardi: lo comprendo, perché non
si è abituati. E quindi voglio proprio invogliare
la gente a farsi vedere. Non bisogna vergognarsi.
Sono i ladri e gli assassini che si devono
vergognare. Noi, ai quali capita un incidente
o che a causa di un tumore abbiamo
un arto amputato, perché dovremmo vergognarci?
Perché non dobbiamo farci vedere?».
Rosanna Biffi