Renzo Piano: la capacità di sorprendere

Ha firmato decine di edifici entrati nella storia dell'architettura. E ogni anno apre le porte dell'ufficio a quindici ragazzi che provengono da tutto il mondo.

18/02/2011

Il tratto più intrigante dei grandi personaggi è la loro capacità di sorprendere. Renzo Piano, ad esempio, architetto di fama internazionale che ha firmato decine di edifici entrati di diritto nella storia dell’architettura, non si considera affatto un maestro, nemmeno ora che gli è stato assegnato il Premio Nonino a un maestro del nostro tempo. «Nella mia vita ho avuto modelli straordinari, ma ho capito fin da ragazzo, quando ero ribelle, che dei maestri si ha rispetto, ma che poi bisogna liberarsene. Ogni anno apro le porte del mio ufficio a 15 ragazzi di tutto il mondo: lì, fra progetti complessi e gente di tutte le nazionalità, nello stare a bottega si esercita la maestria. In questo gruppo accade che io esprima di tanto in tanto le mie convinzioni, ma non vuole essere la lezione del professore. Il Nonino per tradizione è riservato a pensatori, scienziati, ricercatori... L’architetto è un’altra cosa, ma se per maestria si intende la parte invisibile del nostro mestiere – la curiosità sociale, la passione umanistica, lo sforzo di ascoltare e conoscere la gente –, allora è un riconoscimento che mi rende davvero felice. Senza questa dimensione invisibile, il nostro lavoro si riduce ad accademia, forma vuota».

Ecco che Piano ci sorprende ancora, parlando dell’invisibile da cui nascono i suoi edifici. Eppure, l’architetto ha a che fare con questioni molto concrete. Oggi, ad esempio, non può ignorare il cambiamento climatico, la rivoluzione energetica, l’allarme per la cementificazione... «Il secolo si è aperto su una nuova consapevolezza, la fragilità della terra, che però non va vista come una specie di castigo per l’architettura, bensì come una sorgente di ispirazione. Tutte le grandi innovazioni sono scaturite da fenomeni sociali vasti e profondi, non da elementi stilistici. Oggi gli edifici devono palpitare del respiro della terra, perciò bisogna fare attenzione al luogo in cui si collocano, capire da dove arriva il materiale, immaginare che cosa accadrà fra 100 anni quando verrà riciclato, valutare il consumo energetico... Personalmente, sono attirato dall’energia eolica, solare e geotermica, di cui il nostro Paese è ricco, mentre non mi interessa quella nucleare. Ecco, combinare tutti questi elementi non è una sofferenza, ma una fonte di ispirazione che induce a inventare nuovi linguaggi».

Per gli antichi greci il bello e il buono costituivano un’unità inscindibile. È così anche per l’architetto genovese? «È l’unica definizione di bello che mi piace. La bellezza è sconvolgente, è una di quelle parole che svaniscono nell’attimo in cui si pronunciano. Da sola, non è fertile, non dà vita a nulla. In tutte le lingue africane non esiste il concetto di bello separato da quello di buono. Allora questa è una definizione che mi fa meno paura e che sento meno irraggiungibile, in quanto connessa all’idea di utilitas, ai bisogni reali delle persone, e insieme ai loro desideri: bello e buono, bisogni e sogni devono camminare sempre uniti».

È impossibile ricordare tutti i capolavori creati da Piano, seminati nel mondo come “pezzi di città” che vogliono integrarsi “naturalmente” nel tessuto culturale, sociale e produttivo d’origine. Gli chiediamo allora qual è il suo primo pensiero quando gli viene affidato un nuovo progetto: «La prima reazione è di dire: “Mamma mia!”. Ho sempre ammirato la straordinaria capacità dei bambini di concentrarsi nel gioco. Ecco, questa è una caratteristica anche mia e del mio ufficio: siamo totalmente assorbiti da quello che facciamo. Per questo, ogni volta che ci viene richiesto un nuovo lavoro, la prima reazione è quella di dire che siamo impegnati in altro. Poi, quando assumiamo l’incarico, cerco di attenermi in maniera ferrea a una regola: non toccare la matita se prima non sono andato avanti e indietro sul posto con le mani in tasca, cercando di capire, ascoltare, cogliere l’essenza, in silenzio. I luoghi, come le persone, parlano, basta saperli ascoltare. Ogni progetto è un’avventura, un terremoto: non bisogna affrettarsi, ma accettare l’attesa, l’ansia, la sofferenza; saper guardare nel buio, con coraggio, altrimenti ci si rifugia fra le braccia rassicuranti di mamma memoria, ripetendo quello che si è già fatto. Occorre ribellarsi a sé stessi, a 20, 40 e 60 anni». L’architetto delle trasparenze e della leggerezza ci ha sorpreso ancora, mostrandoci il buio all’origine di ogni atto creativo.

Si dice che Piano tenga in grande considerazione il giudizio dei figli, che conduce spesso nei cantieri, come fece con lui il padre, costruttore, quand’era piccolo. «I bambini sono crudeli e innocenti, perciò il loro giudizio è prezioso. Io ho quattro figli, il più grande di 45 anni, il più piccolo di 11: quando quest’ultimo osserva un progetto e mi guarda con quei suoi occhioni sbarrati, dicendomi: “Papà, ma cos’è questa cosa?”, mi costringe a spiegare, a verificare le mie idee. I figli, come gli amici, sono il miglior antidoto all’autoreferenzialità».

Paolo Perazzolo
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