11/10/2010
Il segretario del Pd Pierluigi Bersani durante l'Assemblea nazionale del partito a Busto Arsizio, Varese.
C’è un punto cruciale dell’intervento finale all’Assemblea nazionale del Pd di Pier Luigi Bersani. Riguarda la difficile fase politica che stiamo attraversando e soprattutto il futuro dei prossimi dieci anni. Il segretario del Pd da Busto Arsizio, nel profondo Nord, ha annunciato di voler lavorare a una maggioranza senza il Cavaliere per arrivare a una nuova legge elettorale. Il motivo non riguarda tanto il potere delle segreterie di far eleggere i propri candidati. Il problema semmai è il premio di maggioranza: “Cerchiamo di capire che questa legge elettorale consente con il 35/36 per cento dei voti di prendersi tutto, comprese la maggioranza delle Camere riunite per procedere all’elezione del Capo dello Stato”.
La legge attuale è così. Bastano tre italiani su dieci e scatta il premio di maggioranza alla Camera. In Senato è più difficile, ma sommando i voti si può arrivare a decidere chi va al Quirinale. Eccolo, lo spettro evocato da Bersani: una legislatura berlusconiana che potrebbe prolungarsi con un settennato dello stesso Cavaliere al Quirinale. Bersani sa che il berlusconismo sta attraversando una fase di logoramento. Ma sa anche che non sarà facile, che Berlusconi non se ne andrà “sorseggiando un tè”. E ancora: “Non siamo oltre Berlusconi. Siamo in un secondo tempo di Berlusconi, ed è la fase più pericolosa”.
Il primo avversario politico, per il Pd, è lo stesso Pd, con le sue divisioni e lacerazioni. «Le gazzette sono ancora troppo piene di un partito che parla di sé e non dei problemi, e sì che i problemi in giro sono tanti. Non possiamo permetterci scarti su questo, perché i tempi stringono: la crisi politica e la crisi economica si stanno avvitando. Dobbiamo trovare un'idea che non oscilli, non vogliamo essere buoni ma razionali».
Nella due giorni dell’assemblea nazionale non c’è stato spazio per le divisioni. E i dirigenti del partito sembravano essere ottimisti sul ruolo di governo che li attende nella prossima legislatura. Non un ruolo di “salmeria” ma di “traino” dell’alternativa. Ma le “anime” del partito (o correnti) erano tutte lì, pronte a saltar fuori. IL Pd è un partito “plurale”. C’è quello di Ignazio Marino, che propone un’alleanza con i grillini e Di Pietro. C’è quello di Veltroni, che con la proposta sugli immigrati ha voluto lanciare un segnale di distinzione forte. C’è Franceschini, con la sua lista di nuove debolezze sociali da contrapporre ai ceti tradizionali operai difesi dal Pd: i precari, le partite Iva, i lavoratori autonomi, i piccoli imprenditori.
Superate le divisioni, viene la fase delle elezioni, presumibilmente in primavera. Bersani ha elencato i punti programmatici di un ipotetico governo prossimo venturo. Ha parlato di federalismo, di Nord (“le uniche due cose per il Settentrione le abbiamo fatte noi: il cuneo fiscale e le infrastrutture”), ma anche di Mezzogiorno, di politiche agricole, di tassa sulle rendite finanziarie, di immigrazione (accogliendo in parte la proposta selettiva di ingresso formulata da Veltroni), di investimenti nella ricerca, di scuola.
Ma al primo posto nella mente e nel cuore del segretario ci sono le politiche sul lavoro, il primo grande problema per il Paese. Poi promette: «Non faremo mai più un meccanismo come l'Unione. E conclude: «Il Nord è stato tradito così come l'intera Italia è stata tradita. Il sogno di liberare l'energia del nord affinché si liberasse l'intero Paese è fallito. Questo è stato un danno enorme per l'Italia che si è man mano allontanata dai grandi processi di modernizzazione». Il cammino del Pd, dopo Busto Arsizio, passa da Napoli, dove, tra un mese, si terrà la prossima assemblea nazionale.
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