Lampedusa, ancora una strage

Si rovescia barcone nel Canale di Sicilia. Ma mancano all'appello centinaia di migranti che hanno lasciato le coste nordaficane di cui non si sa più nulla.

03/04/2011
Il molo di Lampedusa.
Il molo di Lampedusa.

Naufragi senza fine, in quello che è ormai un immenso cimitero a cielo aperto: il Mediterraneo. Un barcone con almeno 200 migranti si è ribaltato la notte scorsa al largo di Lampedusa, dopo essere stato agganciato da una motovedetta italiana partita dall'isola per soccorrere l’imbarcazione nel mare in burrasca. La Capitaneria di porto lampedusana riferisce di 47 persone recuperate e di almeno 150 dispersi. La tragedia è avvenuta ad una quarantina di miglia a Sud Ovest dell'isola.  

L'unità aveva chiesto soccorso tramite telefono satellitare durante la notte alle autorità maltesi e, su richiesta di queste, erano partite da Lampedusa due motovedette delle Capitanerie di porto e un elicottero della Guardia di finanza. Giunta sul posto una delle motovedette ha intercettato il barcone alla deriva in una situazione di grave pericolo. Il mare forza quattro e il panico a bordo del barcone hanno reso vano ogni tentativo di trarre in salvo i migranti finiti in acqua. Il buio e le avverse condizioni meteo rendono difficili le operazioni di ricerca dei naufraghi. «Temiamo che molte persone possano essere morte»: così ha risposto all'Ansa una fonte contattata a Lampedusa.

Giovedì scorso al largo di Tripoli erano stati recuperati una settantina di cadaveri galleggianti. Sono quasi certamente migranti morti durante una traversata verso le coste italiane. La notizia era stata confermata all'Ansa da padre Joseph Cassar, responsabile del servizio dei Gesuiti per i rifugiati a Malta. Padre Cassar l’ha appresa da alcuni profughi eritrei che si trovano ancora in Libia. Le vittime potrebbero far parte del gruppo di 68 migranti, in gran parte somali ed eritrei, partito dalle coste libiche e di cui non si avevano più notizie dal 25 marzo scorso. Un altro barcone con a bordo 335 persone risulta disperso da due settimane.

Francesco Anfossi
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Postato da ironyman il 06/04/2011 20:30

L’ennesima sciagura si è consumata inutilmente mentre eravamo ancora intenti a chiederci perché mai clandestini ,che non avevano la il volto della fame e della disperazione, continuavano, in violazione della Legge ad approdare con le loro sgangherate imbarcazioni sulle nostre spiagge. Il clandestino, il profugo, lo straniero desta sempre sgomento e perciò l’istinto ci spinge a respingerlo nel mare dal quale proviene e dalla mente nel quale affiora, ricacciando negli anfratti della nostra memoria immagini o ricordi che interrogano la nostra coscienza. Ogni argomentazione sembra buona. Non sono disperati ed affamati, hanno pure i telefoni satellitari. Non c’è posto per loro, anche noi abbiamo tanti disoccupati. Vengono qui a toglierci lavoro. Cose già sentite. Gli stereotipi degli zingari che viaggiano in Mercedes o piuttosto delle ragazze rumene tutte inghirlandate, mostrano con quanta difficoltà ci approcciamo alla comprensione degli altri, quanto sia arduo provare a capire le loro difficoltà. Si fa un gran parlare di solidarietà, un ingrediente con cui si condisce ogni specie di salsa, pensando che per poter allievare le sofferenze di chi è nel bisogno sia sufficiente rinunciare a qualcosa di superfluo di cui fargli dono, dimenticando che avvicinarci all’altro vuol dire soprattutto condividere con lui le sue sofferenze. Nella nostra insensibilità d’animo, nella durezza del nostro cuore, ottenebrato dalla modernità e dalla civiltà del consumo non riusciamo a renderci conto che per avvicinarci all’altro, sentirlo come un fratello, dobbiamo compiere ogni sforzo per compenetrarci nella sua condizione. Quando Madre Teresa ricevette in dono un convento tutto nuovo dal vescovo di san Francisco ordinò alle sue suore di togliere moquette e tappeti lasciando stupefatti e scandalizzati i fedeli della città. Il messaggio era chiaro. Insegnare con i fatti che la povertà non è una parola. Per esser accettate dai poveri bisogna vivere come i poveri. Come potrebbero credere in chi conduce una vita diversa? Se si disponesse di tutto ciò che si può acquistare con il denaro cosa ci legherebbe a loro? Non dobbiamo mica aspettarci che arrivino con il volto incavato e l’addome gonfio come i bambini denutriti per capire che nel loro paese non se la passano certamente bene. Abbiamo mai pensato ad immaginare come si sentiremmo noi se dovessimo campare con le loro magre entrate? Abbiamo mai riflettuto se non siano anche nostre le responsabilità per le condizioni di sottosviluppo in cui convive una parte sempre più grande dell’umanità? Bisognerebbe poi anche farla finita con questa storia che vengono a toglierci lavoro e che anche qui da noi c’è tanta disperazione. Gli immigrati che vengono in Italia (ma altrove è diverso basti pensare agli ingegneri informatici indiani che hanno invaso la Silicon Valley) fanno lavori umili che gli italiani non sono disposti a fare e perciò contribuiscono alla nostra ricchezza ricevendo meno di quanto danno. Gliene dovremmo essere grati per questo. Quanto alle nostre difficoltà, nessuno le vuol sottacere ma le due cose non sono in contrapposizione. Semmai ci sarebbe da coalizzarci per lottare insieme contro quella che è la vera ingiustizia causa di tante iniquità e cioè l’abnorme accentramento di ricchezza in mano a pochi uomini e la eccessiva sperequazione nella sua distribuzione. Come ammonì Giovanni paolo II, parlando a proposito della destinazione universale dei beni di cui il creatore ci ha fatto dono, i beni della terra sono più che sufficienti a consentire una esistenza dignitosa a tutta l’umanità. Se il lavoro manca, ed è purtroppo una tragica realtà, ci dovremmo adoperare tutti per creare una società più giusta ed a misura d’uomo affinchè si producano nuove opportunità di lavoro per tutti ed ognuno sia affrancato dalla necessità che invece tiene tutti sotto scacco del potere economico e politico. Anche l’associazione immigrato extracomunitario-delinquente non va agitata come uno spauracchio per fare proselitismo politico facendo leva sulle paure della gente. Se releghiamo ai margini della società gente che qui è arrivata dopo incredibili peripezie, anche a costo di far da cibo ai pesci, ci possiamo mai aspettare che diventino tutti degli angioletti? Suvvia! Che forse quartieri degradati come lo zen di Palermo o Scampia a Napoli, hanno un tasso di criminalità diverso? E’ evidente che se non gli si offrono condizioni minime di una esistenza dignitosa, il bisogno e l’emarginazione li spingeranno inevitabilmente verso scorciatoie più allettanti. Non a tutti capita di incontrare sulla propria strada il benefattore che si commuove e gli presta aiuto. Questi trattamenti speciali possono esser riservati solo a donne giovani, avvenenti e compiacenti. Gli altri si arrangino da soli! Le politiche di integrazione sono qualcosa di quanto più evanescente si possa immaginare; eppure le cui risorse ci sarebbero, se consideriamo che ciò che versano gli immigrati nelle casse dell’INPS è molto meno di quanto ricevono in termini di assistenza. La questione degli immigrati è dunque soprattutto una questione di giustizia. Ma una giustizia diversa da quella invocata con riferimento alla necessità che vengano fatte rispettare le norme sulla clandestinità. Il significato autentico del termine giustizia è andato da tempo smarrito; è questo a mio parere il vero dramma che si trova ad affrontare l’umanità oggi. Il senso di giustizia che dovrebbe orientare il credente deve poggiare sul messaggio di Cristo. Non sempre una Legge è giusta specie se è diretta alla tutela di interessi di parte. E soprattutto ci si ricordi delle parole di Giovanni paolo II sulla vera giustizia, senza la quale non può esserci pace tra gli uomini. Insomma non è tutto rose e fiori, sia chiaro, ma forse le cose, dal nostro punto di vista, sono molto meno drammatiche di come le si vorrebbe rappresentare per puri scopi di bottega. Una cosa è certa. E’ pura illusione, ed il tempo prima o poi lo dimostrerà, pensare che possiamo controllare l’immigrazione con azioni poliziesche o militaresche. L’ennesimo affondamento di un barcone della disperazione non è un fenomeno isolato, e ve saranno purtroppo ancora tanti altri. Fintantochè ci sarà la disperazione e continueremo, facendo finta di non accorgercene, a infischiarcene chiudendoci dentro il nostro egoismo, le frontiere continueranno ad essere un colabrodo con il rischio che prima o poi possano anche scoppiare ed allora saran dolori per tutti, nessuno escluso. Per questo trovo del tutto insensate certe prese di posizioni che emergono e riprendono vigore anche all’interno della comunità dei credenti. E questo per me è fonte di profonda tristezza e rincrescimento. Faccio sempre più fatica a riconoscermi come parte di questa comunità , anzi trovo viepiù maggiori punti di coesione con posizioni provenienti dall’esterno.

Postato da ironyman il 06/04/2011 20:20

L’ennesima sciagura si è consumata inutilmente mentre eravamo ancora intenti a chiederci perché mai clandestini, che non avevano la il volto della fame e della disperazione, continuavano, in violazione della Legge ad approdare con le loro sgangherate imbarcazioni sulle nostre spiagge. Il clandestino, il profugo, lo straniero desta sempre sgomento e perciò l’istinto ci spinge a respingerlo nel mare dal quale proviene e dalla mente nel quale affiora, ricacciando negli anfratti della nostra memoria immagini o ricordi che interrogano la nostra coscienza. Ogni argomentazione sembra buona. Non sono disperati e affamati, hanno pure i telefoni satellitari. Non c’è posto per loro, anche noi abbiamo tanti disoccupati. Vengono qui a toglierci lavoro. Cose già sentite. Gli stereotipi degli zingari che viaggiano in Mercedes o piuttosto delle ragazze rumene tutte inghirlandate, mostrano con quanta difficoltà ci approcciamo alla comprensione degli altri, quanto sia arduo provare a capire le loro difficoltà. Si fa un gran parlare di solidarietà, un ingrediente con cui si condisce ogni specie di salsa, pensando che per poter allievare le sofferenze di chi è nel bisogno sia sufficiente rinunciare a qualcosa di superfluo di cui fargli dono, dimenticando che avvicinarci all’altro vuol dire soprattutto condividere con lui le sue sofferenze. Nella nostra insensibilità d’animo, nella durezza del nostro cuore, ottenebrato dalla modernità e dalla civiltà del consumo non riusciamo a renderci conto che per avvicinarci all’altro, sentirlo come un fratello, dobbiamo compiere ogni sforzo per compenetrarci nella sua condizione. Quando Madre Teresa ricevette in dono un convento tutto nuovo dal vescovo di san Francisco ordinò alle sue suore di togliere moquette e tappeti lasciando stupefatti e scandalizzati i fedeli della città. Il messaggio era chiaro. Insegnare con i fatti che la povertà non è una parola. Per esser accettate dai poveri bisogna vivere come i poveri. Come potrebbero credere in chi conduce una vita diversa? Se si disponesse di tutto ciò che si può acquistare con il denaro cosa ci legherebbe a loro? Non dobbiamo mica aspettarci che arrivino con il volto incavato e l’addome gonfio come i bambini denutriti per capire che nel loro paese non se la passano certamente bene. Abbiamo mai pensato ad immaginare come si sentiremmo noi se dovessimo campare con le loro magre entrate? Abbiamo mai riflettuto se non siano anche nostre le responsabilità per le condizioni di sottosviluppo in cui convive una parte sempre più grande dell’umanità? Bisognerebbe poi anche farla finita con questa storia che vengono a toglierci lavoro e che anche qui da noi c’è tanta disperazione. Gli immigrati che vengono in Italia (ma altrove è diverso basti pensare agli ingegneri informatici indiani che hanno invaso la Silicon Valley) fanno lavori umili che gli italiani non sono disposti a fare e perciò contribuiscono alla nostra ricchezza ricevendo meno di quanto danno. Gliene dovremmo essere grati per questo. Quanto alle nostre difficoltà, nessuno le vuol sottacere ma le due cose non sono in contrapposizione. Semmai ci sarebbe da coalizzarci per lottare insieme contro quella che è la vera ingiustizia causa di tante iniquità e cioè l’abnorme accentramento di ricchezza in mano a pochi uomini e la eccessiva sperequazione nella sua distribuzione. Come ammonì Giovanni paolo II, parlando a proposito della destinazione universale dei beni di cui il creatore ci ha fatto dono, i beni della terra sono più che sufficienti a consentire una esistenza dignitosa a tutta l’umanità. Se il lavoro manca, ed è purtroppo una tragica realtà, ci dovremmo adoperare tutti per creare una società più giusta ed a misura d’uomo affinchè si producano nuove opportunità di lavoro per tutti ed ognuno sia affrancato dalla necessità che invece tiene tutti sotto scacco del potere economico e politico. Anche l’associazione immigrato extracomunitario-delinquente non va agitata come uno spauracchio per fare proselitismo politico facendo leva sulle paure della gente. Se releghiamo ai margini della società gente che qui è arrivata dopo incredibili peripezie, anche a costo di far da cibo ai pesci, ci possiamo mai aspettare che diventino tutti degli angioletti? Suvvia! Che forse quartieri degradati come lo zen di Palermo o Scampia a Napoli, hanno un tasso di criminalità diverso? E’ evidente che se non gli si offrono condizioni minime di una esistenza dignitosa, il bisogno e l’emarginazione li spingeranno inevitabilmente verso scorciatoie più allettanti. Non a tutti capita di incontrare sulla propria strada il benefattore che si commuove e gli presta aiuto. Questi trattamenti speciali possono esser riservati solo a donne giovani, avvenenti e compiacenti. Gli altri si arrangino da soli! Le politiche di integrazione sono qualcosa di quanto più evanescente si possa immaginare; eppure le cui risorse ci sarebbero, se consideriamo che ciò che versano gli immigrati nelle casse dell’INPS è molto meno di quanto ricevono in termini di assistenza. La questione degli immigrati è dunque soprattutto una questione di giustizia. Ma una giustizia diversa da quella invocata con riferimento alla necessità che vengano fatte rispettare le norme sulla clandestinità. Il significato autentico del termine giustizia è andato da tempo smarrito; è questo a mio parere il vero dramma che si trova ad affrontare l’umanità oggi. Il senso di giustizia che dovrebbe orientare il credente deve poggiare sul messaggio di Cristo. Non sempre una Legge è giusta specie se è diretta alla tutela di interessi di parte. E soprattutto ci si ricordi delle parole di Giovanni paolo II sulla vera giustizia, senza la quale non può esserci pace tra gli uomini. Insomma non è tutto rose e fiori, sia chiaro, ma forse le cose, dal nostro punto di vista, sono molto meno drammatiche di come le si vorrebbe rappresentare per puri scopi di bottega. Una cosa è certa. E’ pura illusione, ed il tempo prima o poi lo dimostrerà, pensare che possiamo controllare l’immigrazione con azioni poliziesche o militaresche. L’ennesimo affondamento di un barcone della disperazione non è un fenomeno isolato, e ve saranno purtroppo ancora tanti altri. Fintantochè ci sarà la disperazione e continueremo, facendo finta di non accorgercene, a infischiarcene chiudendoci dentro il nostro egoismo, le frontiere continueranno ad essere un colabrodo con il rischio che prima o poi possano anche scoppiare ed allora saran dolori per tutti, nessuno escluso. Per questo trovo del tutto insensate certe prese di posizioni che emergono e riprendono vigore anche all’interno della comunità dei credenti. E questo per me è fonte di profonda tristezza e rincrescimento. Faccio sempre più fatica a riconoscermi come parte di questa comunità , anzi trovo viepiù maggiori punti di coesione con posizioni provenienti dall’esterno.

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