18/03/2012
George Clooney con Barack Obama. In copertina: l'arresto di Clooney e del padre Nick. (foto: Ansa).
Il successo con
l’anima ormai ha un volto definitivo: quello di George Clooney. Cioè, del più
intelligente e determinato tra le molte star di Hollywood che si battono per
qualche causa umanitaria. Farsi arrestare davanti all’ambasciata del Sudan a
Washington, durante un sit in di protesta contro i crimini di guerra del
governo sudanese, è stata un’interpretazione da Oscar, una trovata degna del
miglior cinema americano di denuncia.
D’accordo, il fermo
è durato poche ore e di sicuro il bel George non ne ha sofferto. Ma senza la
sua foto con i polsi legati su tutte le prime pagine, quanti giornali e tivù e
social network avrebbero raccontato, in
questi giorni, che dal giugno scorso il presidente sudanese Omar al-Bashir ha
bloccato gli aiuti umanitari alla popolazione Nuba? Che quelle stesse persone
vengono inseguite e bombardate dall’esercito e che sono a rischio di massacro?
George Clooney
conobbe il Sudan nel 2006, quando accompagnò il padre Nick, giornalista dalle
fiere convinzioni democratiche, nella realizzazione di un documentario sul
Darfur, la regione allora più perseguitata all’interno del Paese africano. E’
istruttivo quel documentario, nel mostrare il volto umano di una star come George,
sempre perfettamente padrone della propria immagine pubblica. Per tutti i
fotogrammi di “In viaggio in Darfur”, il protagonista sicuro di sé è il padre
Nick, mentre sul volto dell’attore si leggono benissimo il disagio e la non
familiarità con tutta la povertà che lo circonda, con i rischi e il senso di
impotenza.
Da allora, George
Clooney è tornato in Sudan altre cinque volte, l’ultima delle quali una decina
di giorni fa. Ha raccontato: “Nel villaggio dove eravamo ci sono stati 39 morti
nell’ultimo mese: 39 morti e 514 feriti in un villaggio di un migliaio di
persone. E stiamo parlando di un solo villaggio”.
Aveva già detto in passato:
“Mi piacerebbe che i criminali di guerra avessero lo stesso livello di
pubblicità che ho io”. E , all’inizio della sua conoscenza con la paura, la
fame e la morte del Darfur, si era chiesto come avrebbe potuto rendere “sexy”,
cioè di richiamo mediatico mondiale, quel mattatoio dimenticato da tutti. Il
modo lo ha trovato, prestando senza stancarsi la propria immagine a una
causa che gli fa onore.
Senza rischiare di
santificare un uomo che dalla vita ha avuto molto, e che è lui stesso troppo
autoironico per pretendere di presentarsi come eroe o missionario, c’è qualcosa
di commovente nel rapporto stretto che si è creato tra una star milionaria, che
indossa lo smoking come nessun altro, e quei sudanesi poverissimi, coperti di
stracci e perseguitati senza colpa. George Clooney non avrebbe bisogno di
andare in Sudan, prendersi la malaria, ritrovarsi in situazioni pericolose per
aumentare la propria popolarità. Anzi, questa sua battaglia umanitaria e, di
fatto, anche politica, gli sta attirando le critiche e l’odio dei più
conservatori d’America, che già non gli perdonano l’impegno a favore di Obama
fin dalla prima ora.
Ma noi, da
spettatori, da ammiratori, da cittadini del mondo, gli siamo grati di scuotere
la nostra attenzione e richiamarla su una tragedia dimenticata. Gli siamo anche
grati di farci ignorare per qualche istante l’America della guerra in Iraq e
del soldato che in Afghanistan è andato casa per casa uccidendo bambini
piccolissimi, per ricordarci il Paese dei diritti civili, delle proteste
pacifiche, di un presidente di colore. Insomma, un’America che ci fa sognare.
Rosanna Biffi